22 luglio 2015 09:49

C’è un divario drammatico tra le esigenze e le aspettative originate dal fenomeno globale dei flussi migratori in atto e la realtà politica, dura e ruvida, in cui ci muoviamo.

Nel Consiglio europeo del 25 e 26 giugno si era parlato di un possibile progetto di ricollocazione riguardante quarantamila richiedenti asilo già sbarcati sulle nostre coste: una cifra tragicamente esigua a fronte dei 626mila profughi che nel corso del 2014 hanno chiesto asilo nel complesso dei paesi europei. Oltre a questo si prevedeva un piano di reinsediamento che doveva riguardare circa ventimila richiedenti asilo provenienti dai campi profughi, in particolare da quelli del Libano e della Giordania, gestiti dall’Alto commissariato della Nazioni Unite per i rifugiati. Alla lettera, una goccia nel mare.

Certo, come ha detto lo stesso Matteo Renzi, se fino a ieri l’accoglienza a livello europeo riguardava zero richiedenti asilo, l’averne previsti quarantamila rappresenta una novità significativa, un piccolo passo avanti in termini di metodo e anche di sostanza.

Ma anche quell’esile “quarantamila” non ha avuto vita facile. Anzi. La riunione dei 28 ministri dell’interno dell’Unione europea, che si è tenuta il 20 luglio, ha dato un esito ancora più deludente: la riduzione fino a 32.256 del numero di quanti saranno ricollocati e l’aumento di 2.500 unità della cifra dei richiedenti asilo da reinsediare.

L’Italia dovrebbe compiere la sua mossa del cavallo: uno scarto laterale, intelligente e audace

Questa riformulazione dimostra come anche questo primo passo sarà assai breve, lento e non privo di ostacoli. Non solo. È l’ulteriore conferma, se mai ve ne fosse stato bisogno, dell’urgenza di cambiare radicalmente politica.

Se si avrà la determinazione per farlo, l’Italia avrà una grande occasione. Insomma, il nostro paese ha – meglio: potrebbe avere – l’opportunità di compiere la sua mossa del cavallo: uno scarto laterale, intelligente e audace allo stesso tempo, e soprattutto lungimirante, che possa consentirgli di svolgere un ruolo da protagonista.

Dico uno scarto laterale perché è necessario, come prima condizione, sottrarsi al peso totalizzante e soffocante delle procedure finora adottate dalle istituzioni europee. Non si può fare a meno di esse, certo, ma si devono percorrere (anche) vie diverse e assumere (anche) strategie alternative.

Per certi versi, possiamo dire che l’Italia è costretta a fare questa scelta: la collocazione geografica non offre alternative e ci obbliga a uno sforzo di innovazione e di fantasia, accettando i rischi che ciò comporta.

Una camicia di forza

Ecco due ipotesi. La prima: il nostro paese, proprio in virtù di quanto accaduto negli ultimi tempi e che prevedibilmente si riprodurrà nei prossimi mesi e anni, deve assumere con forza la decisione di dare voce e corpo a quel principio fondante dell’Unione europea che è la solidarietà tra gli stati membri, oggi palesemente calpestato. E dunque dovrebbe rivolgersi direttamente, attraverso una serie di accordi bilaterali, a quei paesi europei che già si sono mostrati disponibili a condividere e a gestire unitariamente il flusso di profughi verso il nostro continente.

Il regolamento di Dublino grava come una cappa e come una camicia di forza che pretende di imprigionare i movimenti delle persone causando situazioni inestricabili, oltre che crudelmente dolorose. È proprio qui che serve un atto di coraggio e di indipendenza.

Si può decidere di derogare a quel regolamento di Dublino attraverso un accordo tra l’Italia e quegli stati membri, pochi o molti che siano, già disponibili ad accettare le procedure di ricollocazione e di reinsediamento. Una deroga necessaria e assolutamente possibile, pur nell’attuale contesto dei trattati vigenti, dal momento che non danneggerebbe altri paesi.

Si tratta evidentemente di assumere l’iniziativa e di cogliere aperture, spiragli, anche modeste opportunità, concentrando l’attenzione in un primo momento su quanto sin d’ora previsto. Attraverso, cioè, il più ampio utilizzo possibile del meccanismo dei ricongiungimenti familiari, che già Dublino III ha reso maggiormente flessibile.

Autoriduzione di solidarietà

C’è poi l’altra ipotesi, che va manovrata con prudenza e saggezza, ma che può rappresentare un autentico punto di svolta da cui far discendere un nuovo protagonismo politico dell’Italia.

La premessa da cui partire è che il nostro paese è un contributore netto dell’Unione europea, il che significa, in parole povere, che l’Italia dà all’Ue più di quanto riceva in termini di risorse economiche, attraverso varie voci e differenti contribuzioni.

Ebbene, di fronte alla evidente violazione di quel principio costitutivo della solidarietà tra gli stati, rappresentata dal rifiuto di una politica condivisa per l’immigrazione e l’asilo, viene meno inequivocabilmente ciò che per noi è la ragione prima, la base essenziale e il fondamento politico ed etico della stessa Unione europea.

Alla luce di questa crisi della stessa idea costitutiva dell’Unione, l’Italia può assumere una decisione radicale e, al contempo, ragionevole. Scegliere, cioè, che quella quota eccedente il saldo zero tra ciò che si dà e ciò che si riceve nello scambio con l’Ue sia destinata alla creazione di un fondo speciale di solidarietà, da destinare a una politica comune per l’immigrazione e l’asilo.

Ciò attraverso la cooperazione rafforzata con quei paesi – non importa quanti all’inizio – interessati all’elaborazione di una politica condivisa in materia. Detta grossolanamente, una sorta di “autoriduzione” finalizzata non a particolari interessi nazionali, bensì a una delle questioni cruciali per la definizione dell’identità dell’Europa e, molto concretamente, del suo programma politico e sociale. La proposta determinerà inevitabilmente una intensa conflittualità all’interno dell’Unione e va costruita con intelligenza e con tenacia.

Certo, è un progetto assai impegnativo, ma è la sola via affinché, per l’Italia e per il suo ruolo nel Mediterraneo in questo delicato momento storico, i movimenti di tanti esseri umani non rappresentino solo un problema lacerante, ma costituiscano anche una opportunità.

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