10 febbraio 2014 13:02

Chi non ci lavora non lo sa, ma l’università italiana sta vivendo una piccola rivoluzione. Si è appena conclusa (in alcuni settori si sta concludendo) l’Asn, cioè il concorso per l’Abilitazione scientifica nazionale: un certo numero di commissioni, una per ogni settore disciplinare (tutti: dalla geometria all’econometria, dalla filologia romanza alla chimica analitica), ha esaminato i curricula e le pubblicazioni di migliaia di studiosi italiani, e ha deciso chi di loro è idoneo a diventare professore associato o professore ordinario. Idoneo vuol dire (solo) idoneo. Per diventare davvero professori associati o ordinari bisogna che ci sia un’università che decide di “chiamare” i vincitori, cioè di assumerli (se non sono già nel loro organico) o di promuoverli aumentando loro lo stipendio (se sono già nel loro organico).

Che cosa, nell’umana convivenza, non si presta a dubbi, obiezioni, proteste? Questo è anche il caso dell’Asn, solo elevato alla terza potenza, per infinite ragioni. Siamo sicuri che i commissari fossero tutti super partes? Certo che no. Siamo sicuri che fossero sempre all’altezza? Certo che no. Che non abbiano promosso i simili a sé e bocciato i diversi da sé? Certo che no. Che abbiano avuto sempre il tempo per formulare un giudizio meditato? È matematicamente sicuro il contrario. Eccetera. Si poteva fare diversamente? Probabilmente sì. Ma quello che mi preme qui è un dettaglio che secondo me non è per niente un dettaglio.

I giudizi dei commissari si possono leggere tutti nel sito del Miur: sia quelli degli abilitati sia quelli dei non abilitati. E il passatempo preferito di molti accademici o aspiranti accademici, la scorsa settimana, è stato vedere chi è passato e chi no, e leggere i giudizi, specie quelli dei non abilitati. Conosco uno che li ha letti tutti, da Anestesiologia a Zoologia, “perché è un genere letterario, no? Si potrebbe dare una bella tesi…”. Conosco un altro, malato quasi terminale, che adesso morirà col sorriso perché ha letto i giudizi spietati che un commissario suo allievo ha dato degli allievi di un suo vecchio nemico.

Il mondo va così, gli esseri umani sono quello sono. Ma proprio per questo mi domando se era davvero necessario che i giudizi dei non idonei fossero pubblici. A che serve? Perché “tutti devono sapere tutto”? Non mi sembra una buona ragione. Tutti gli interessati (direttori di dipartimento o di corso di studi, membri dei senati accademici, eccetera) sanno già che X non ha avuto l’idoneità, sanno che non potrà essere “chiamato”. Perché fare sì che il giudizio negativo su X possa essere letto da tutti – colleghi malevoli, amici e nemici, allievi, figli, madri, padri – non per un giorno o per una settimana ma per n anni (la longue durée di internet)? Sono – sotto il velo delle buone maniere accademiche – giudizi a volte aspri, che in dieci righe dicono quanto vale o non vale la carriera, cioè mezza vita, di un uomo o di una donna. Alcuni giudizi sono certamente sbagliati, o dettati dalla volontà di vendicarsi, o dati da incompetenti. Proprio per questo – si può obiettare – occorre che siano pubblici: per fare in modo che l’operato delle commissioni sia trasparente, e che chi è del ramo possa vedere come le commissioni hanno lavorato: se il commissario Y sa che il suo giudizio negativo su un candidato verrà letto dagli esperti della sua disciplina ci penserà due volte prima di commettere scientemente un’ingiustizia. È un’obiezione sensata, ma che non mi convince del tutto. Sia perché è raro che le ingiustizie si commettano scientemente (la buona fede è molto più diffusa di quanto immaginiamo, specialmente tra i criminali) sia perché non credo che la prospettiva di essere a propria volta giudicati abbia indotto i commissari ad agire meglio di come hanno agito.

Posto però che il giudizio di non idoneità sia giusto (come sarà in tantissimi casi), digerire un no è già difficile: non sono convinto che occorresse costringere i non idonei a digerire anche 1) il fatto che il giudizio che spiega (e secondo molti di loro ovviamente non spiega) la loro bocciatura venga letto da tutti quelli che hanno una connessione internet senza che loro possano replicare, far valere le loro ragioni; e 2) il fatto che il contenuto di quel giudizio venga indicizzato nei motori di ricerca, sicché salterà fuori ogni volta che qualcuno, per mille motivi diversi, farà una ricerca su di loro in rete. Forse era sufficiente che i giudizi dei non abilitati fossero leggibili, a richiesta, soltanto dagli interessati. O forse addirittura si potevano mettere in rete soltanto i nomi (e i giudizi) dei vincitori. Non vedo quale interesse abbia il “pubblico”, o anche il “pubblico degli addetti ai lavori”, a sapere che il candidato X non ha ricevuto l’abilitazione. Mentre vedo (so) quanta pena questa* full disclosure* (a ogni epoca i suoi* idola*) può causare al candidato X.

D’altra parte so bene (se provo a cavar fuori una Lezione Morale da questa storia) che parole come crudeltà o gentilezza o pietà, o idee come “sarebbe bene che questo non venisse letto da una madre, o da un allievo, perché gli darebbe un terribile dispiacere”, stanno in un tutt’altro ordine di discorso rispetto a quello sul quale ha competenza il Legislatore, o la Burocrazia, o qualsiasi altro nome si voglia dare all’iperuranica astrazione che amministra le nostre vite. “La civiltà moderna, quanto più diventa complessa e specializzata, tanto più esige per l’apparato esterno che la sostiene il competente indifferente a considerazioni umane, e perciò rigorosamente ‘oggettivo’ […]. La burocrazia nel suo pieno sviluppo si trova anche, in senso specifico, sotto il principio della condotta sine ira ac studio. La sua specifica caratteristica […] ne promuove lo sviluppo in modo tanto più perfetto quanto più essa si disumanizza”. Funziona così, e forse non può funzionare che così. Solo che al tempo di Weber, da cui ho tolto queste righe, non c’era internet. Adesso c’è, e quanto immeritato dolore possa infliggere forse non è ancora ben chiaro a tutti.

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