10 giugno 2014 12:39

(Illustrazione di Tom Gauld)

Dei quattro gatti che leggevano il mio vecchio blog, almeno due (e dei più amabilmente spelacchiati) hanno continuato a chiedermi, per anni: perché non fai più il tuo Giudizio Universale? Era il maxi-post di San Silvestro, una classifica commentata dei libri più belli, più stravaganti e più brutti letti nell’anno precedente. La risposta era semplice, e avrebbero dovuto conoscerla, essendo affetti dallo stesso morbo: perché sono pigro. Tutti i bibliomani lo sono, e l’accidia non è neppure il più grave dei loro vizi. Leggete Louis Bollioud-Mermet (De la bibliomanie, 1761) e scoprirete che il bibliomane ha ottimi punteggi in tutti e sette i peccati capitali.

Non solo è un accidioso (“si stabilisce in permanenza nei negozi dei librai, porta a spasso la sua noia da un negozio all’altro”), è anche un avaro (“non si stanca di accumulare tesori senza mai goderne”) e un superbo (le mensole affollate sono “archi di trionfo che il Bibliomane ha innalzato alla propria ridicola vanità”). È inoltre un goloso che “ha assaggiato ogni genere di dottrina” ma “si è nutrito male, in un modo più adatto a esaurire le forze che ad aumentarle”. Cosa manca? Ah, certo, la lussuria – Vanni Scheiwiller coniò l’aggettivo libridinoso –, poi l’invidia per lo scaffale del vicino che è sempre più verde e infine l’ira potenzialmente stragista verso chi tarda a restituirgli un libro prestato. Sette su sette. Che cosa potete aspettarvi di buono, da gente così?

Ecco perché – lo dico ai due gatti del tempo che fu – non ci saranno più Giudizi Universali. Ma la rubrica che inauguro oggi, e che ho voluto battezzare tsundoku, è quasi la stessa cosa con un altro nome. Tsundoku è una parola giapponese d’uso colloquiale che qualcuno ha provato a tradurre come “l’atto di comprare un libro e poi non leggerlo, di solito mettendolo in una pila di altri libri non letti”. Tutto questo in tre sillabe: non oso immaginare cosa avrebbe potuto inventarsi un tedesco, una di quelle parole composte che esasperavano Mark Twain, una cosa come Gekaufteundnichtgelesenbücherstapeln.

Di questa diffusa nevrosi da bibliomane aveva scritto Giuseppe Rensi nelle Lettere spirituali: “Quante volte non ti è accaduto di sentire che se non hai quel libro ti manca un elemento capitale della tua cultura, di resistere a lungo alla tentazione di acquistarlo, ma invano, ché più resistevi più quel libro ti appariva indispensabile e vergognoso l’esserne privo; e, quando finalmente hai ceduto e lo hai acquistato, dopo un’occhiata all’indice e ad alcune pagine, vederti improvvisamente venir meno il bisogno di esso, cosicché non lo hai letto più per gran tempo seppure lo hai letto mai! Non accade diversamente circa il desiderio d’una donna”.

Questo dongiovannismo libridinoso, variante occidentale dello tsundoku, porta come si sa all’implosione dello spazio abitativo. Le pile crescono, s’innalzano, si moltiplicano, c’è la pila sul comodino, la pila a terra accanto al letto, la pila nel bagno, la pila sul termosifone, la pila sul tavolino del salotto, le dodici pile sulla scrivania, e già vedi avvicinarsi il giorno della pila nel frigorifero e della pila nel microonde. Eppure continui a comprare, a stipare provviste, persisti in questa accumulazione primitiva del capitale librario. La marea sale e sai che prima o poi finirai annegato, metaforicamente ma neppure tanto, ed è allora che avverti il bisogno di tenere un diario di bordo che possa servire ai posteri per ricostruire le tappe del tuo naufragio.

Ecco come nasce questa rubrica. Al posto del vecchio Dies Irae di fine anno, una lista deliberatamente disordinata, chiacchierona e inconcludente. Un bollettino dei libri letti, o letti per metà, o letti per traverso, o comprati e non letti, o appena aperti e subito richiusi con sgomento, o gettati dalla finestra come fece Vittorio Alfieri con il Galateo, convinto che un libro che cominciava con la parola Conciosiacosaché non meritasse altro destino. Libri vecchi, nuovi, belli, brutti, strani, oltraggiosi, extraterrestri, commestibili, gonfiabili. Acquisti compulsivi su eBay che mi hanno portato sul lastrico, prestiti di amici inspiegabilmente generosi, libri di cui ho sentito parlare così a lungo che è come se li avessi letti, libri di cui avrei voluto scrivere qualcosa di più se non fosse che l’arte è lunga, la vita breve e il divano innegabilmente molto comodo.

Ma l’ho già fatta troppo lunga. Ecco qualche libro in cui mi sono imbattuto in queste settimane:

Vittorio Boarini (a cura di), Erotismo Eversione Merce (Cappelli 1974)

Immaginate l’attacco di libridine, quando l’ho visto su eBay. Un fotogramma di Flesh di Paul Morrissey in copertina, e dentro gli atti di un convegno bolognese dei primi anni Settanta tra i cui partecipanti c’erano Pier Paolo Pasolini, Elémire Zolla, Félix Guattari, il regista Alberto Lattuada (che firmava Un invito al neo-paganesimo) e una decina d’altri. Chiaramente mi è apparso subito come un libro indispensabile, che mi vergognavo di non avere e di non aver letto; e chiaramente il giorno dopo è finito in una delle tante pile, sedotto e abbandonato. Però ho letto le pagine di Zolla (Considerazioni inattuali) che da sole valevano le 3.800 lire del prezzo di copertina. Zolla osservava le facce pietrificate e spasmodiche delle donne sui cartelloni pubblicitari, che avevano sostituito i bei sorrisi dell’epoca di Eisenhower, e le accostava alle espressioni facciali nelle cerimonie di possessione haitiane o yoruba, per concluderne che “questo erotismo è un pretesto: col pretesto del possesso fisico e della violenza fisica è la possessione psichica che sta suggerendo e inculcando e favorendo. Il segreto del regime dell’industria culturale d’oggi è la preparazione del pubblico alla possessione psichica”. Ai suoi occhi Rosemary’s Baby (1968) segnava il momento storico in cui l’industria culturale tenta di annettersi direttamente il tema della possessione. Un saggio che sembra scritto con gli occhiali di Essi vivono (1988) di John Carpenter, quelli che consentivano di vedere la verità esoterica dietro gli annunci pubblicitari.

Roberto Finzi, L’onesto porco (Bompiani 2014)

Era ora che qualche galantuomo vendicasse l’onore ferito dei maiali (volevo dire “infangato”, se non fosse che è il loro habitat e ci sguazzano di buon grado), vittime di una secolare diffamazione. Il divertimento erudito di Roberto Finzi non solo riporta in vita opere dimenticate o sconosciute come L’eccellenza et trionfo del porco (1593) di Giulio Cesare Croce o Gli elogi del porco (1791) dell’abate Tigrinto Bistonio, ma raddrizza alcuni torti inflitti a quell’adorabile animale. Per esempio, vien fuori che il più sgradevole dei molti insulti d’ispirazione suina non ha a che fare con il maiale ma con la sua farcitura impropria, e tutt’al più con la malizia del cavallo e la ben nota inaffidabilità degli Achei: “Troia, ‘detto a femmina per ingiuria’, si legge nel dizionario del Tommaseo, almeno fin dal quattordicesimo secolo, ha un’etimologia difficile da decifrare. Per lo più si tende a collegarla a porcus trojanus che era un piatto formato da un maiale arrosto ripieno di altri animali e dunque ingannatore come il cavallo di Troia, nel cui interno si nascondevano, subdolamente, i greci che durante la notte massacrarono i troiani. (…) Insomma la donna di facili costumi è come il cavallo di Troia: diversa da ciò che appare, menzognera e falsa”. L’ingiuria continua a essere impronunciabile, ma il maiale (e la sua signora) non ne hanno colpa.

Francis Lacassin, La vera nascita di Maigret (Medusa 2013)

Georges Simenon era un grande narratore, un grande affabulatore e anche un grande millantatore, come dimostra la querelle sul numero spropositato delle sue amanti (la forbice oscilla tra le 1.200 e le 10.000, ed è grosso modo la stessa di Franco Califano). Questo piccolo libro di Francis Lacassin, di cui raccomando anche e soprattutto i due vecchi tomi della Mythologie du roman policier, svela un’altra delle sue affabulazioni, o delle sue millanterie. Simenon amava raccontare che il personaggio di Maigret si era disegnato nella sua mente in poche ore, una mattina di settembre del 1929, in un caffè sul molo del porto olandese di Delfzijl, dove peraltro nel 1966 lo stesso Simenon avrebbe inaugurato una statua celebrativa del commissario. Lacassin – autore poco tradotto, ed è un peccato: pescate, pescate nella sua opera! – ricostruisce le tappe di una gestazione molto più lunga e faticosa, passata per ben quindici personaggi che erano altrettanti schizzi preparatori di Maigret. Quando avrete bisogno di una confutazione del mito romantico dell’ispirazione o della “estatica intuizione” che sia meno consumata della Filosofia della composizione di Poe, è qui che potete cercarla.

Wu Ming 4, Difendere la Terra di Mezzo. Scritti su J.R.R. Tolkien (Odoya 2013)

Leggo questo annuncio di un festival che si terrà a metà giugno – “J.R.R. Tolkien a Rimini letto da Michela Murgia” – e il primo impulso è quello di gettarmi a peso morto nel cratere di Mount Doom. Da dove spunta questa triade che sembra assemblata col pallottoliere (che so, Diderot a Chieti letto da Erri De Luca, Apuleio a Bisceglie letto da Serena Dandini, Faulkner a Pinerolo letto da monsignor Ravasi)? Le vie degli incontri letterario-editoriali sono infinite e misteriose, e meglio di me sanno fiutarle i segugi della Fondazione Elia Spallanzani, che vi invito a visitare. Mi limito a dire che la connection Tolkien-Murgia-Rimini è l’approdo di un lungo processo di cui questi saggi di Wu Ming 4 costituiscono idealmente una delle tappe. Devo confessarlo, ero piuttosto prevenuto, e temevo un altro pasticcio come New Italian Epic. Il risvolto di copertina, che lo presentava come “un libro da battaglia”, non faceva sperare bene, così come il comunicato stampa che parlava di “un attacco al cuore dell’interpretazione tradizionalista”, insomma un tentativo di sottrarre Tolkien all’estrema destra (giusto), alle letture simbolico-iniziatiche (già più discutibile) e alle letture teologiche dei cattolici (pressoché impossibile, e infatti l’impresa non riesce mai). Il proposito di de-fascistizzare Tolkien è condivisibile, se non fosse che se ne erano già occupati egregiamente Lucio Del Corso e Paolo Pecere in un libro del 2003 (L’anello che non tiene, minimum fax), per tacere del volumetto divertente e divertito di Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro (La verità su Tolkien. Perché non era fascista e neanche ambientalista, Liberal edizioni), anch’esso di dieci anni fa. Da questo punto di vista, non mi pare che il libro aggiunga granché, l’impianto teorico (che deve molto, troppo ai ghiribizzi di Furio Jesi) è alquanto macchinoso e lo stile potrebbe essere più elegante (uno legge che Tolkien “problematizza il rapporto tra l’universo valoriale antico e quello moderno, scegliendo come vettori della sua narrazione…” ecc., e di nuovo vuole buttarsi a Mount Doom). Ma se non altro ho trovato delle cose interessanti che non avevo trovato altrove. Tra le tante, la magnifica risposta di Tolkien all’editore tedesco che voleva pubblicare Lo Hobbit ma doveva prima assicurarsi che lo scrittore fosse ariano; o l’idea dei Beatles di proporre a Kubrick un film dal Signore degli Anelli con John Lennon nella parte di Gollum. Di più non so dire: mi sono fermato a pagina 128. Sarà che sono un sentimentale, e che ci sono rimasto un po’ male perché non è neppure menzionata la storica introduzione di Elémire Zolla (vedi sopra).

Vitaliano Brancati, I fascisti invecchiano (Longanesi 1946)

Avevo appena finito I piaceri, e ne ero così entusiasta che sono corso a chiedere al mio amico e pusher Matteo Marchesini, che tutto ha letto e tutto conosce, e che ha appena pubblicato un magnifico tomo di un chilo e mezzo (Da Pascoli a Busi, Quodlibet) sugli scrittori del Novecento italiano: qual è, tra gli altri libri di Brancati, quello che più gli assomiglia? Un’altra dose, ti prego! La prima risposta – il Diario romano – era da scartare, trattandosi di uno dei miei libri preferiti. E allora è spuntato fuori questo volumetto, I fascisti invecchiano, che Brancati pubblicò nel 1946. Si apre con un bellissimo ritratto del fanatico – fascista, ma non solo fascista – e mi aspetto che dopo questo brano vi azzufferete per metter le mani su una delle poche copie che si trovano ancora nei circuiti degli antiquari: “Non so come i nostri pittori non abbiano sentito il bisogno di tramandare ai posteri la faccia del fanatico! (…) Una crudeltà priva di follia e di rimorsi, una pedanteria priva di scienza, una ingegnosità senza fantasia o estro, una barbarie senza candore e una corruzione priva di estetismo e perfino di mollezza, una vocazione al male miseramente occultata da nubi di stupidità, uno sguardo rivolto in basso con lo sconcio rapimento di chi ha scambiato la terra per il cielo, una bocca che si serra con stento per masticare comandi sebbene già palesemente slabbrata da urli servili, lo sprezzo del dinamitardo e il vestire del caporale, linguaggio di ribelle e stipendio d’impiegato, un essere in tutto beffato dal demonio, e pazzamente orgoglioso della sua sconfitta, ecco il soggetto del nostro quadro!”. Faccio notare, incidentalmente, che quella coppia (linguaggio di ribelle e stipendio d’impiegato) sembra prefigurarne un’altra più celebre, ossia “lo stipendio Rai e la coscienza inquieta” di Carlo Emilio Gadda, che circola in molte varianti.

Claudia Mancina, Berlinguer in questione (Laterza 2014)

Per contenere i libri sulla crisi della sinistra e sulla lunga agonia della classe dirigente post-berlingueriana non basterebbe un palazzone sovietico, altro che le mie pile nel microonde. Ai miei preferiti – Compagni di scuola di Andrea Romano, A vita di Antonio Funiciello, C’era una volta… di Luciano Cafagna e il più recente Le catene della sinistra di Claudio Cerasa – si è aggiunto da poco questo piccolo libro di Claudia Mancina, professoressa di Etica alla Sapienza e membro della Direzione nazionale del Pd. Non che io abbia letto chissà quanti libri su Berlinguer, ma tra quei pochi il saggio della Mancina è senz’altro il più franco e generoso: quello che offre il resoconto più equilibrato dello scontro con Craxi, aggirando i ben noti riflessi condizionati; quello che sottolinea meglio la differenza solo tattica tra il Berlinguer del compromesso storico e il Berlinguer della questione morale; quello che enumera nel modo più conciso le eredità avvelenate del berlinguerismo – il mito della diversità comunista, il fastidio per la modernità e il consumismo, il primato della questione morale divenuta questione giudiziaria, l’idea che l’Italia sia un paese di destra e che pertanto la sinistra sia condannata alle alleanze, il feticismo della Costituzione. Insomma, in cento pagine tutto quel che serve per capire com’è che si è arrivati alla scena un po’ fantascientifica di Gianroberto Casaleggio col berrettino e il trench nero a Piazza San Giovanni che incita la folla a scandire Ber-lin-guer! Ber-lin-guer! (per inciso, assai meno eufonico di Ro-do-tà).

Bene, per oggi basta. Torno ad accumulare libri, a erigere le mie pile da idolatra e a sperperare sui siti di commercio librario quel che resta delle mie risorse. Pregate per me, per i miei sette vizi capitali e per quel demone dai mille titoli e dai mille codici isbn che mi possiede, e che ha nome tsundoku.

Guido Vitiello insegna alla Sapienza di Roma. Oltre che con Internazionale, collabora con il Corriere della Sera, il Foglio e il Sole24Ore. Ha un sito: UnPopperUno

L’illustrazione è di Tom Gauld. In Italia ha pubblicato Siete solo invidiosi del mio zaino a razzo.

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