Elly Schlein è – un po’ a sorpresa – la nuova segretaria del Partito democratico (Pd). Ed è anche la prima donna a guidarlo. Ha vinto le primarie con il 53 per cento dei voti, superando il suo avversario Stefano Bonaccini, ribaltando così il voto degli iscritti che aveva visto prevalere proprio Bonaccini. E anche questa è una prima volta, visto che finora nella storia del Pd il voto dei militanti aveva sempre confermato quello degli iscritti. Schlein prende il posto di Enrico Letta, dimessosi dopo la grave sconfitta rimediata alle elezioni politiche del settembre scorso contro la destra di Giorgia Meloni. E le prime parole di Schlein da leader del Pd sono state dirette al governo.

“Saremo un bel problema, per il governo Meloni”, ha detto la nuova segretaria di fronte ai giornalisti poco prima di mezzanotte, subito dopo l’ufficializzazione del risultato del voto. Da subito, ha spiegato Schlein, il partito organizzerà l’opposizione in parlamento e nel paese in difesa “di quei poveri che il governo colpisce e che non vuole vedere”, “di lavoratrici e lavoratori precari e sfruttati, per alzare i salari e le loro tutele”. “Non ci daremo pace”, ha affermato, “finché non avremo posto un limite alla precarietà, un limite ai contratti a tempo determinato, abolito gli stage gratuiti, lavorato per portare a casa il salario minimo”.

Ma il Pd della nuova segretaria sarà impegnato anche nella difesa della scuola pubblica “come primo grande strumento di emancipazione sociale, nel momento in cui il governo tace di fronte ad aggressioni squadriste davanti alle scuole”. E, promette Schlein, il Pd farà “le barricate contro ogni taglio della sanità pubblica”, così come sarà “al fianco di chi lotta per la giustizia climatica, accanto a quella sociale”.

Negli ultimi mesi il suo profilo si è sempre più avvicinato a quello di una sorta di anti Meloni

Nata a Lugano, in Svizzera, nel 1985, Elena Ethel Schlein ha alle spalle una storia e una famiglia attraversate da diverse culture. I genitori sono due professori universitari. Il padre, politologo statunitense, nasce in una famiglia ebraica askhenazita proveniente dalla regione di Leopoli, allora in Polonia e attualmente nell’Ucraina occidentale. La madre, italiana, è una giurista. Il nonno materno, Agostino Viviani, avvocato, è stato senatore socialista negli anni settanta. Trasferitasi in Italia, Schlein frequenta l’università a Bologna dove si laurea.

L’impegno politico comincia nel 2013 con la campagna Occupy Pd, dopo la mancata elezione di Romano Prodi alla presidenza della repubblica. Nel 2014 viene eletta al parlamento europeo ma lascia il Pd durante la segreteria di Matteo Renzi, per aderire a Possibile di Giuseppe Civati. Si candida poi alle elezioni regionali in Emilia-Romagna con una lista che contribuisce all’elezione del suo futuro sfidante per la leadership del Pd, Stefano Bonaccini. Viene da lui nominata alla vicepresidenza della regione. E qui resta fino all’elezione, nel 2022, alla camera dei deputati.

Negli ultimi mesi il suo profilo si è sempre più avvicinato a quello di una sorta di anti Meloni. Lei stessa, proprio come la leader di Fratelli d’Italia, si è presentata come la sfavorita che sorprende tutti e vince. “Underdog”, aveva detto di sé la leader della destra nel discorso con il quale chiese alla camera la fiducia per il suo governo. “Anche stavolta non ci hanno visti arrivare”, è stata invece la prima cosa che ha detto Schlein dopo la vittoria. Ma le similitudini finiscono qui. Basti pensare a come Schlein ha chiuso la campagna elettorale per le elezioni politiche dello scorso autunno: “Sono una donna, amo un’altra donna, non sono madre ma non per questo sono meno donna, perché non siamo uteri viventi, siamo persone con i loro diritti”. Ed era una evidente risposta al famoso slogan gridato da Meloni nel 2021 al congresso del partito spagnolo di estrema destra Vox: “La nostra identità è sotto attacco, ma non lo permetteremo. Sono Giorgia, sono una donna, sono italiana, sono cristiana e nessuno può portarmi via tutto questo”.

Sempre a proposito di differenze, e spostando il ragionamento su un altro piano, non è un caso se nel discorso della vittoria, pronunciato al termine di una giornata drammatica per la notizia della strage di migranti avvenuta sulle coste calabresi, Schlein abbia affermato che quella strage “pesa sulle coscienze di chi, solo qualche settimana fa. ha voluto approvare un decreto che ha la sola finalità di ostacolare i salvataggi in mare quando ci vorrebbero vie legali e sicure per l’accesso in Europa. E ci vorrebbe una Mare nostrum europea, una missione umanitaria di ricerca e soccorso in mare”.

Un mandato chiaro

Insomma, come Schlein voglia posizionare il proprio partito nella lotta contro le destre sui temi principali – lavoro, scuola, sanità, migranti, diritti civili, ambiente – è a grandi linee abbastanza chiaro, almeno a parole. Più complicata sembra la partita interna: sia quella che dovrà giocare con le altre opposizioni sia quella all’interno del suo stesso partito. Quanto alla prima, la neosegretaria ha affermato che si rivolgerà loro “per fare tutte battaglie insieme”. Ma è tutto da vedere cosa accadrà. La novità rappresentata dalla vittoria di Schlein è infatti così grande da sconsigliare qualsiasi previsione. Potrebbe essere davvero, come ha affermato la stessa segretaria, di una “rivoluzione”.

Inoltre, quello appena ricevuto dai militanti con le primarie è, a detta di Schlein, “un mandato chiaro a cambiare davvero, volti, metodo e visione”. E le servirà per incidere sul corpo di un partito che prima di lei ha avuto ben otto segretari in una quindicina di anni, senza che però sia mai stato davvero chiaro cosa fosse o dovesse diventare quello stesso partito la cui incapacità ideale e strategica si è andata accentuando di anno in anno e di segretario in segretario. D’altra parte, il Pd è nato come un’organizzazione strutturata soprattutto in vista della gestione del potere, costruita su cordate e correnti più che sue idee e passioni politiche. E anche il meccanismo delle primarie ha finito per radicalizzare sempre di più questa sua natura. Così, il punto è diventato ancora una volta come rinnovare il partito più che dove portarlo.

Lo dimostra anche il dibattito congressuale che ha preceduto il voto degli iscritti che si è svolto tra il 3 e il 19 febbraio, e che è servito per selezionare i due sfidanti da sottoporre al voto dei militanti del 26 febbraio. Per mesi la discussione si è avvitata attorno a questioni procedurali e cavilli, mentre i capi delle correnti disponevano sul terreno le proprie truppe, senza che si riuscisse a elaborare una analisi approfondita della sconfitta elettorale alle politiche del 2022. E soprattutto senza che si potesse aprire davvero una discussione sul futuro del partito.

Non è stato davvero un bello spettacolo. E anche i due candidati alla fine ci hanno messo del loro per far apparire il Pd come una sorta di mostro burocratico votato alla gestione del potere e condizionato soprattutto dalla necessità di sopravvivere alle gerarchie interne. “Non ho mai fatto parte di alcuna corrente e sono stato il primo a dire che se le correnti volevano appoggiarmi io quell’appoggio non lo avrei voluto”, ha detto per esempio Bonaccini. “Tra le candidature in campo, sono l’unica che non ha fatto parte del gruppo dirigente del Partito democratico negli ultimi dieci anni”, ha affermato invece Schlein.

Ecco: se voleva essere un modo per dare la sensazione di candidature lontane dal palazzo, il risultato è stato invece quello di accentuare il carattere populista di quelle stesse candidature, più che quello popolare. E alla fine è passata l’idea, ancora una volta, di un partito che non piace a nessuno, neppure a chi si batte per guidarlo. E in queste condizioni non sarà facile cambiare le cose.

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