Non ce l’ha fatta. Antifascismo, la parola che tutti aspettavano di ascoltare da lei, l’unica parola che valga davvero la pena di essere pronunciata nel giorno in cui si celebra la liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista, Giorgia Meloni l’ha taciuta. Ancora una volta.

La presidente del consiglio ha invece liquidato il 25 aprile con una lettera al Corriere della Sera, carica dei consueti toni vittimistici e revanscisti di una destra che sembra ancora prigioniera di una bruciante necessità di riscatto perfino adesso che è al potere.

Meloni ha parlato anche di fascismo, certo. Ha affermato che da tempo “i partiti che rappresentano la destra in parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo”. Ma lo aveva già fatto altre volte, più o meno apertamente, più o meno con parole simili. Politicamente non le costa nulla, anche perché nessuno – tranne il Partito democratico durante la scorsa tragicomica campagna elettorale – immagina davvero di poter inchiodare Meloni al fascismo del ventennio. D’altra parte questo è un terreno sul quale lei si è sempre mossa con accortezza, sicuramente più di molti suoi colleghi di partito. Non a caso, nonostante le ambiguità, e tralasciando qualche vecchio giudizio su Mussolini puntualmente riesumato dai suoi avversari, è difficile trovare una sua dichiarazione meno che politicamente corretta (almeno sul piano formale) sul ventennio di dittatura che, come lei stessa ha scritto al Corriere, ha “conculcato” la democrazia.

Il problema per la destra non è il giudizio sul fascismo, che afferma di aver già espresso in modo chiaro e definitivo, ma il rapporto con l’antifascismo, che è invece tutt’altro che risolto. E in questa irresolutezza pesa in modo determinante un elemento generazionale e biografico.

Lo ha affermato molte volte la stessa Giorgia Meloni. Per esempio nel suo manifesto politico – Io sono Giorgia (Rizzoli, 2021) – dove spiega “di non avere il culto del fascismo” e poi aggiunge di conoscere “ogni nome e ogni storia dei giovani sacrificati negli anni settanta sull’altare dell’antifascismo”. “Questa violenza, culturale oltre che fisica”, scrive ancora Meloni, “ha certamente generato in me una ferma ribellione nei confronti dell’antifascismo politico. Non lo nego affatto. Ma qui finisce il mio rapporto col fascismo”. Ragionamenti simili li ha svolti anche altrove, a partire dal discorso con il quale il 25 e 26 ottobre scorsi ha chiesto la fiducia al parlamento.

È negli anni settanta e ottanta del novecento, insomma, la radice culturale della leader della destra che oggi detiene il potere, non certo nel ventennio mussoliniano. Tutt’al più, andando a ritroso si può arrivare al punto di contatto tra il fascismo storico e la destra del dopoguerra. Quel punto di contatto è Giorgio Almirante, prima funzionario del regime, poi repubblichino, infine segretario del Movimento sociale italiano (Msi). E in particolare l’Almirante che fece propria la dottrina del “non rinnegare e non restaurare”, affermata da Augusto De Marsanich. È quello il confine. Per il resto la destra di Meloni guarda avanti.

Questo radicamento culturale negli anni settanta e ottanta del novecento sembra però aver prodotto da quelle parti una certa confusione – per così dire – intorno all’idea di antifascismo, che infatti viene colpevolmente ridotto alla violenza politica di quegli anni, peraltro tacendo della violenza prodotta dai gruppi di estrema destra. Qui si può rintracciare una prima spiegazione della ritrosia di Meloni verso l’antifascismo.

In cerca di legittimazione

Ma non è tutto. Il rapporto orgogliosamente non risolto con l’antifascismo suggerisce infatti l’emergere di una difficoltà che ha a che fare con l’identità e la legittimazione politica del partito di Meloni. Lo si è visto anche alla vigilia del 25 aprile quando Gianfranco Fini, ultimo segretario del Msi e poi leader di Alleanza nazionale (An), ha chiesto a Fratelli d’Italia (FdI) di riconoscersi “nei valori antifascisti oggi, come An ieri”. La risposta che ha ricevuto è stata molto significativa: “Ognuno ha la sua storia e ognuno dovrebbe sapere qual è il suo tempo”.

È stata la certificazione del fatto che la destra ora al governo non è più la destra di Fini ma è una destra diversa, che sembra coltivare qualche distanza perfino dalla svolta del congresso di Fiuggi del 1995, quando l’Msi decise di archiviare i riferimenti ideologici del passato per presentarsi come forza di governo. Proprio in questo tratto emerge il difetto di legittimazione politica che sembra attanagliare il partito di Meloni. Negli anni di Fiuggi, Fini trovò la propria legittimazione politica nel cosiddetto sdoganamento che della destra missina fece Silvio Berlusconi. Il partito di Meloni la cerca altrove. Meloni infatti ha in mente una destra culturalmente e ideologicamente diversa da quella finiana e da quella berlusconiana. E intende aprire una stagione politica nuova che mandi in archivio la seconda repubblica e lo stesso berlusconismo. Per farlo deve rilegittimare politicamente la sua destra, deve scioglierla da ogni subalternità, e sa che l’unica fonte possibile di legittimazione è il voto popolare, non quella sorta di patrocinio del quale usufruì Fini.

Tuttavia, per affrancarsi del tutto da quella storia, il giudizio popolare da solo non basta. Per evitare ogni rischio che si facciano passi indietro non è infatti possibile prescindere dal rifiuto del fascismo, arrivato pur tra molte ambiguità, e dal contemporaneo riconoscimento dell’antifascismo. Proprio l’antifascismo, infatti, è alla base della nostra repubblica, “fondata sulla costituzione, figlia della lotta antifascista”, come ha ricordato il 25 aprile il presidente della repubblica Sergio Mattarella.

La destra di Meloni quest’ultimo passaggio non riesce ancora a farlo e per consolidare la sua legittimazione politica ricorre alla rimozione dell’antifascismo. Ma invece di rinascere nel berlusconismo, come fece Fini, questa nuova destra si sta riorganizzando culturalmente come forza politica erede dell’Msi, avendo abbracciato una svolta schiettamente conservatrice, a tratti perfino reazionaria.

C’è poi un’ultima ragione che spiega la ritrosia della destra nei confronti dell’antifascismo, e questa volta riguarda il futuro, non il passato. Uno dei punti più significativi del progetto politico di Giorgia Meloni – quello che più di tutti le consentirebbe di lasciare un segno nella storia – è la revisione in senso presidenziale della democrazia parlamentare italiana. Per farlo, si dovrebbe stravolgere una parte importante dell’attuale costituzione. Neutralizzare l’antifascismo, e quindi smantellare il rapporto tra la costituzione e la sua radice culturale, renderebbe politicamente meno traumatico realizzare questa operazione. E, peraltro, faciliterebbe anche un avvicinamento del nostro paese ai sistemi nei quali vigono forme di democrazia neoautoritaria o illiberale, come l’Ungheria guidata da Viktor Orbán, politicamente vicino alla stessa Meloni.

Se tutto questo è vero, non possono essere un caso un caso le ripetute reticenze sull’antifascismo. E allora si capisce meglio anche perché di recente Giorgia Meloni, ricordando le vittime della strage nazista del 1944 alle Fosse Ardeatine, abbia sostenuto che si trattasse di “335 italiani innocenti massacrati solo perché italiani”, sollevando una diffusa perplessità per aver omesso di ricordare che le persone avviate all’esecuzione furono scelte perché antifascisti o ebrei. Così come non è casuale che questo genere di rimozione sia avvenuta molte altre volte da quando la destra è al governo.

È un progetto politico che si accompagna a un lavoro culturale alla base del quale sta lo stesso principio per cui la destra radicale preferisce parlare di patrioti e non di partigiani, e più in generale utilizza un intero vocabolario ormai desueto per affermare, insieme alla propria egemonia politica, anche quella culturale. Ciò spiega per esempio anche l’uso massiccio del termine “nazione” al posto di “paese”. Di questo progetto si trovano tracce ovunque.

Una delle più vistose è il recupero del risorgimento usato per oscurare il ruolo che decenni dopo ebbe la resistenza. Negli interventi pronunciati alla camera e al senato nell’ottobre scorso, per esempio, Meloni fa riferimento agli anni che portarono all’unità d’Italia. Manca invece qualsiasi riferimento alla resistenza che però all’Italia restituì la libertà e, come ha spiegato il presidente della repubblica nel discorso tenuto per il 25 aprile, “fu anzitutto rivolta morale di patrioti contro il fascismo per affermare il riscatto nazionale”.

Ed è particolarmente interessante notare come anche Silvio Berlusconi, nel famoso discorso con il quale nel 2009 celebrò da presidente del consiglio il 25 aprile, fece riferimento al risorgimento. Ma, a differenza di Meloni che di resistenza non aveva parlato, Berlusconi accomunò resistenza e risorgimento, definendoli insieme “valori fondanti della nostra nazione”, a riprova della diversità di obiettivi tra la destra tendenzialmente liberale di Berlusconi e quella radicale di Meloni. E la stessa operazione sul risorgimento viene ripetuta da Meloni anche in altre sedi. In Io sono Giorgia, per esempio, il risorgimento viene indicato tra i momenti fondativi dello spirito nazionale italiano e viene incredibilmente accomunato agli “eroi di El Alamein” i quali però, sebbene Meloni ometta significativamente di ricordarlo, nel 1942 erano stati spediti in Africa dal regime di Mussolini per combattere al fianco dell’alleato nazista contro gli inglesi che, di lì a qualche tempo, avrebbero contribuito a liberare l’Italia dal fascismo.

I rapporti con la presidenza della repubblica potrebbero diventare complicati, considerato l’atteggiamento di molti esponenti della destra

In questa prospettiva, non sembra casuale neppure lo spettacolo increscioso messo in scena dalla destra nelle settimane che hanno preceduto il 25 aprile, e del quale è stato protagonista il presidente del senato Ignazio La Russa. Grande sconcerto hanno provocato, per esempio, alcune sue considerazioni sull’assenza della parola “antifascismo” – guarda caso – nella costituzione. Alla fine l’imbarazzo per la frequenza e il tono di questi interventi si è fatto sentire perfino tra gli alleati del partito di Meloni. E questa volta la risposta a La Russa è arrivata dal suo omologo alla camera, il leghista Lorenzo Fontana, che ha affermato: “L’antifascismo è un valore”. Mentre Silvio Berlusconi ha parlato della resistenza come di “una straordinaria pagina sulla quale si fonda la nostra costituzione”.

Eppure abbandonare questo genere di posizioni converrebbe prima di tutto proprio a Fratelli d’Italia, soprattutto se Meloni intende davvero provare a giocare da protagonista la partita che si è appena aperta in Europa in vista delle elezioni del 2024. L’idea sarebbe quella di provare a spostare a destra il baricentro politico della Commissione europea in caso di vittoria elettorale delle destre e dei conservatori. Ma servirà anche un paziente lavoro diplomatico che consenta alla destra di costruire nuove alleanze politiche in ambito comunitario. Sarà difficile però che questa partita Meloni possa giocarla davvero, se continuerà a presentarsi in Europa non come la leader di un partito conservatore ma alla testa di una formazione che è ancora e semplicemente post fascista.

C’è infine anche un fronte interno che comincia a preoccupare. Riguarda i rapporti con la presidenza della repubblica che potrebbero diventare complicati, considerato l’atteggiamento di molti esponenti della destra, sempre più al limite della sfida aperta. Lo si è visto ancora una volta lo scorso 25 aprile. Nelle stesse ore in cui Mattarella ricordava che la costituzione è “figlia della lotta antifascista”, Ignazio la Russa – che, come presidente del senato è anche la seconda carica dello stato – rispondeva con un incredibile “dipende” a Bruno Vespa che gli aveva chiesto se si sentisse antifascista. Quanto a Meloni, la parola antifascista ha evitato perfino di pronunciarla. La stessa dinamica, inoltre, si era già vista anche nei giorni precedenti. Il 19 aprile, per esempio, le pagine dei giornali riportavano la condanna dei regimi fascisti che consegnarono i propri cittadini ai carnefici nazisti pronunciata da Mattarella nel corso della sua visita al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. E contemporaneamente dovevano dare notizia anche dell’esortazione a non arrendersi “all’idea della sostituzione etnica” pronunciata da Francesco Lollobrigida, ministro ed esponente di primo piano del partito di Meloni, che aveva così evocato “un mito neonazista”, come lo definisce perfino il sito della presidenza del consiglio italiana.

Ma la verità è che questo continuo contrappunto della destra alle parole del capo dello stato va avanti da mesi. Basta ricordare le affermazioni del novembre scorso – “L’opera del presidente della repubblica è sempre utile ma credo anche che la fermezza del nostro governo possa e debba essere condivisa” – con cui il solito Ignazio La Russa sembrò sconfessare il tentativo di Mattarella di ricucire lo strappo che si era prodotto in quei giorni con la Francia sui migranti. E la una situazione è destinata ad aggravarsi se la destra deciderà di non abbassare i toni. Ma, proprio considerati quei toni, qualche problema potrebbe verificarsi anche al di là di ogni intenzione. Ricorrendo quest’anno il settantacinquesimo anniversario della costituzione, è ragionevole immaginare che Mattarella molto spesso tornerà sull’argomento, difendendo quella stessa costituzione che la destra ha annunciato di voler stravolgere per imprimere la virata presidenzialista.

Se poi tutto ciò ancora non bastasse, c’è da considerare anche il calendario. Se per il primo 25 aprile celebrato con Fratelli d’Italia al potere è successo tutto questo, ci si può chiedere fin da ora cosa accadrà per esempio il prossimo 2 agosto, anniversario della strage alla stazione di Bologna del 1980, anche in questo caso il primo con la destra di Meloni al potere. Come è noto, ci sono sentenze passate in giudicato che hanno stabilito responsabilità e matrice di quella strage. Ed è per questo che sulla lapide che ricorda gli 85 morti c’è scritto: “Vittime del terrorismo fascista”. Tuttavia, impermeabile alle parole contenute in quelle sentenze, Giorgia Meloni in occasione degli anniversari si è spesso lasciata andare a dichiarazioni piuttosto sconcertanti. Nel 2018 per esempio affermò: “Ancora oggi tutto avvolto nel mistero, nessuna verità, nessuna giustizia”. E nel 2020 disse: “Oggi sono quarant’anni dalla terribile strage di Bologna del 2 agosto 1980. Quarant’anni senza giustizia”.

Come leader di partito Meloni ha potuto consentirsi certi atteggiamenti, senza fare troppi danni al paese. Quegli stessi atteggiamenti diventano però improponibili adesso che è presidente del consiglio. Si vedrà se, pur di non risolvere fino in fondo il proprio rapporto con il fascismo, deciderà anche il prossimo 2 agosto di sorvolare sulla realtà scritta dagli storici e dai magistrati, correndo così il rischio del ridicolo. Il rischio più serio, però, è di continuare a spaccare il paese e di rendere meno credibile l’Italia sul piano internazionale.

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