Inizia più che bene il Concorso di questa ottantesima edizione della Mostra di Venezia, anche se non tutto ci ha convinti allo stesso modo. Vero in particolare per gli ultimi due titoli presentati, interessanti ma diseguali: Ferrari di Michael Mann e Dogman di Luc Besson.

Il primo è un film che isola un momento particolare della vita di Enzo Ferrari, quando, nel 1957, la sua società era prossima alla rovina e la risolleva con vero genio. Vi entrano squarci sensibili, anche se un po’ di maniera, dell’Italia degli anni cinquanta, povera ma esplosiva per energia e speranze. Tuttavia un eccesso di agiografia e didascalismo tolgono in parte forza all’opera; il secondo è invece un thriller ispirato ad un fatto vero in cui il serial killer veicola un discorso femminista e gender; l’idea e la sceneggiatura sono davvero originali e ci si potrebbe aspettare la potenza visiva degna di un grande film, se non di un capolavoro, ma purtroppo questo non avviene.

El conde è invece un film inatteso quanto intenso che richiede forse di esser un po’ digerito dallo spettatore soprattutto per certe sequenze iniziali truculente, ma guadagna molto da una seconda visione, anche ravvicinata. Segna il ritorno del cileno Pablo Larraín nel narrare il passato doloroso del suo paese e figure maschili dopo la trilogia al femminile, ricollegandosi così al capolavoro Post mortem (2010), purtroppo mai uscito in Italia. Il prossimo 11 settembre sarà infatti il cinquantenario del golpe del generale Pinochet contro il governo del presidente socialista Salvador Allende, morto durante il colpo di stato.

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Satira allucinata e visionaria che immagina Augusto Pinochet come un vampiro in grave crisi esistenziale, stanco di vivere da duecentocinquanta anni e deciso a smettere di bere sangue perché non sopporta di passare alla storia come un ladro, è girata in un bianco e nero elegante, anzi scintillante: la fotografia rivela un grande livello di qualità compositiva dell’immagine che fa quasi da contrappunto a certe situazioni e rappresentazioni volutamente grossolane, al grottesco esibito.

Ma è soltanto la rappresentazione a renderli grotteschi o Pinochet e famigliari lo sono intrinsecamente? Una delle tante qualità di questo film sfrontato e impertinente è che, tra le righe ma neanche troppo, riesce a suscitare questo interrogativo. La farsa surrealista del regista cileno fa uso della figura di una giovane e seducente contabile – in realtà una credente invasata giunta per indagare sulla presunta essenza satanica dell’ex dittatore – per snocciolare e ricordare al grande pubblico, approfittando del potere globale di Netflix, le innumerevoli nefandezze di Pinochet e della sua famiglia. Larraín sembra dirci che questi vogliono mantenere il paese (dove la destra nostalgica è scatenata contro la nuova costituzione) in un’eterna sospensione d’ingiustizia, di non compiuto rinnovamento, forse in un limbo come quello rarefatto in cui vivono i membri della famiglia: un universo parallelo fatto di vestigia risibili quanto i suoi occupanti – i figli non sono certo simpatici ma nemmeno veramente antipatici, piuttosto degli incapaci, come dice lo stesso Pinochet, insipidi e insulsi – in El conde non si fa altro che contare (questa la traduzione letterale del titolo) soldi e proprietà nascoste, le quali paiono francamente infinite.

Degli eccidi spietati e della sospensione brutale di ogni diritto umano certo si parla, ma prima di tutto si fanno i “conti in tasca” al generale. E l’apparizione della Thatcher in quanto vampiro-madre, evidente riferimento al Cile come territorio-laboratorio (fallito) delle sperimentazioni liberiste, viene a coronare il tutto. Generatrice di notevoli visioni, soprattutto aeree ma non soltanto, e di lente quanto eleganti carrellate in avanti e indietro nel labirinto sospeso tra le nebbie, dispiace molto che quest’opera preziosa vada direttamente su Netflix dal 15 settembre senza alcun passaggio per le sale.

Contro la retorica militarista
Altro film avvolto nelle nebbie, altro film che rappresenta un limbo, è il non meno inatteso titolo italiano che ha aperto il festival, Comandante di Edoardo De Angelis, davvero una bella sorpresa. Se ovviamente la sua produzione è stata imbastita ben prima del governo di Giorgia Meloni (anzi è stato concepito durante il primo governo Conte), il caso vuole che il film arrivi in sala a poco meno di un anno dall’entrata in carica della presidente del consiglio. La presenza alla cerimonia di apertura del vicepremier Matteo Salvini pare improvvida, frutto di una lettura superficiale del film o del tentativo un po’ maldestro di metterci il cappello sopra per cercare di sviarne il significato scomodo.

Questo perché il film di De Angelis è un cavallo di Troia che ne contiene altri e sovverte la retorica militarista, mettendo in scena un evento grave della seconda guerra mondiale che ha al centro un uomo nobile, anche se poi la storia stabilirà che era dalla parte sbagliata.

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In un lungometraggio che supera le due ore e mezza, ma denso e serrato, che impregna in modo continuato lo spettatore delle sue atmosfere, il regista racconta la vicenda reale di Salvatore Todaro, alla guida dell’equipaggio del sommergibile Comandante Cappellini della regia marina che nell’ottobre del 1940 rischiò a più riprese la vita sua e dell’equipaggio pur di rispettare le leggi etiche del mare. Disobbedì infatti agli ordini prima per recuperare e poi per portare in salvo i naufraghi del mercantile belga affondato dal sommergibile stesso perché sospettato, a ragione, di trasportare armi destinate agli inglesi, malgrado la neutralità del Belgio. Todaro compirà questa missione sfidando perfino la marina inglese mettendola di fronte alla propria etica.

E se le dichiarazioni del regista e di Pierfrancesco Favino – che interpreta il comandante facendolo muovere tra cupezza e radiosità umana, tra ottimismo e predestinazione, stereotipo dell’italiano e archetipo dell’eroe antico – attestano l’intenzione di mettere in scena da un’angolazione originale il concetto che “le leggi del mare non vanno infrante”, con un evidente riferimento alla politica sugli sbarchi di Salvini e della destra (non va dimenticato il disagio espresso a suo tempo dal comandante della guardia costiera che ribadì la necessità di rispettare le regole del mare, intese come regole supreme di civiltà), un po’ l’intero film dimostra di essere uno specchio rovesciato della logica che questa da decenni cerca di inculcare nella testa degli italiani: la lingua (o il colore della pelle) come una questione identitaria fondamentale.

Il sommergibile si trasforma invece in una sorta di melting pot claustrofobico dove l’italiano è una delle tante lingue insieme al fiammingo, al veneziano e al napoletano. Non solo, ma il film evidenzia con chiarezza che nulla è più bello e rigeneratore per lo spirito degli esseri umani di un gruppo di persone di paesi diversi che simpatizza e fraternizza liberamente, cosa ai limiti dell’impossibile in guerra, proprio come qui.

Una tregua come un’oasi dove gli esseri umani tornano tali e la guerra perde senso: ma l’oasi è fragile e si dissolve presto. Certo, i militari italiani non sono sempre stati brava gente, basti pensare ai crimini compiuti nelle guerre coloniali, ma ogni situazione è diversa e questo non deve impedire di rispettare chi serve il proprio paese mantenendo l’onore. Ma soprattutto quest’opera si immerge nella guerra fascista per sovvertire dal di dentro buona parte dell’ideologia reazionaria veicolata dalle destre.

Ma in verità Comandante è anche un gran film di atmosfere, di visioni raggelate dalla qualità quasi pittorica dove emerge malgrado tutto una visione a favore dell’uomo e contro la guerra, un film che crediamo sarà bello rivedere anche nei prossimi anni.

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