Tra le tante sorprese della politica internazionale, una delle più inattese è la metamorfosi della Spagna da paese machista a frontiera del progresso in materia di diritti civili e sociali. Il 16 febbraio 2023 il parlamento spagnolo ha approvato in via definitiva la Legge organica per la tutela dei diritti sessuali e riproduttivi e la garanzia dell’interruzione volontaria della gravidanza, che tra i vari provvedimenti introduce anche un congedo di tre giorni, sovvenzionato dallo stato, per chi soffre di dismenorrea, il termine che identifica la sofferenza causata dalle mestruazioni.

La Spagna è il primo paese occidentale ad adottare il cosiddetto congedo mestruale, ma non è il primo in assoluto. I paesi dell’Asia orientale sono arrivati con anticipo sul resto del mondo: in Cina, Corea del Sud, Giappone, Taiwan e Vietnam è già possibile usufruire di questa tutela.

Ora una nuova proposta di legge potrebbe arrivare anche in Italia (ne era stata annunciata una nel 2016, che però non ha avuto seguito) per iniziativa dell’Alleanza verdi e sinistra (Avs). Si tratterebbe di due giorni di congedo al mese, in aggiunta ai giorni di malattia già previsti dai contratti nazionali di lavoro, di cui potrebbe usufruire chi ogni mese deve affrontare crampi dolorosissimi, nausea, diarrea, crollo della pressione e altri disturbi invalidanti.

Sopportare e resistere

Già da un po’ si registra movimento intorno a questo tema: a gennaio del 2023, la Rete degli studenti medi del Lazio ha ripreso un’iniziativa autonoma del liceo Nervi di Ravenna che permette alle studenti che hanno patologie associate al ciclo come vulvodinia, endometriosi e dismenorrea di assentarsi da scuola senza che queste assenze siano conteggiate alla fine dell’anno e finiscano per esporle al rischio di una bocciatura. La richiesta degli studenti laziali è di applicare questo modello a tutte le scuole della regione.

La proposta di legge firmata dai parlamentari di Avs prevede tutele sia per chi studia sia per chi lavora, ma è destinata a scontrarsi con diversi ostacoli, prima di tutto culturali, a partire dal tabù che circonda le mestruazioni e, più in generale, il funzionamento dei corpi Afab (Assigned female at birth, assegnati al genere femminile alla nascita). Un tabù sintomatico della misoginia di cui è intrisa la cultura patriarcale e che rende difficile affermare il diritto a una medicina di genere che metta quei corpi al centro della ricerca clinica e farmacologica.

Se vuoi la parità devi soffrire più di un uomo. Non meno. Non uguale. Di più

Un articolo pubblicato sul Journal of Women’s Health nell’agosto del 2019 riporta che almeno il 70 per cento delle donne tra i 15 e i 25 anni soffre di dismenorrea, percentuali che tendono poi a decrescere con l’età, assestandosi intorno al 25 per cento. Una sofferenza che causerebbe, secondo altri studi, una perdita di circa nove giorni di lavoro o studio all’anno: nei casi più gravi, i giorni di malattia riconosciuti non sono sufficienti per coprire le assenze causate da un fenomeno che si verifica puntuale una volta al mese, per molti anni.

Eppure non sono poche le persone – uomini e donne – che pensano che un congedo specifico per i disturbi mestruali sarebbe un arretramento per la parità, come se venire incontro a un problema fosse di per sé disdicevole. Esiste un’idea diffusa dell’esperienza femminile in cui la sofferenza è parte dell’essere donna.

Saper sopportare, tenere duro e resistere (a qualsiasi cosa: dolore fisico e psicologico, ma anche alle ingiustizie, alle discriminazioni, alle molestie) è una dimostrazione di forza per quello che per moltissimo tempo è stato chiamato “il sesso debole”: stringere i denti e andare a lavorare anche se i crampi ti impediscono di stare dritta e un assorbente dura al massimo un’ora e mezza è considerato del tutto normale. Se vuoi la parità, insomma, devi soffrire più di un uomo. Non meno. Non uguale. Di più.

Il congedo mestruale non assicura un privilegio e non prevede l’assegnazione automatica di giorni di malattia a ogni mestruazione: offre piuttosto una copertura (peraltro, con ogni probabilità, ristretta alle lavoratrici dipendenti) di cui è possibile avvalersi quando se ne ha bisogno, sfruttando anche la possibilità di ricorrere al lavoro da remoto, che abbiamo imparato a conoscere durante la pandemia.

Esigenze specifiche

È utile ricordare, a questo punto, che qualsiasi questione che riguardi la salute riproduttiva femminile si estende in automatico anche alle persone non binarie e agli uomini trans che non si sono sottoposti alla rimozione dell’utero e delle ovaie. Qualsiasi formulazione della legge che non riconosca questa realtà è destinata a creare delle discriminazioni, non tra maschi e femmine ma tra persone che hanno in comune l’apparato riproduttivo ma non l’identità di genere.

Questo dato potrebbe creare un altro ostacolo al cammino legislativo del provvedimento: una formulazione inclusiva potrebbe essere bloccata dagli stessi rappresentanti che all’epoca della presentazione del ddl Zan votarono contro la sua approvazione al senato perché introduceva il concetto di “identità di genere”, pensato per tutelare donne e persone trans contro aggressioni e discorsi d’odio. È ragionevole aspettarsi che il riconoscimento dell’esistenza di uomini con le mestruazioni in un provvedimento di legge sarebbe sufficiente per decretarne la morte.

Oltre a tutto questo, la confusione legislativa, le rigidità burocratiche e la mancanza di sensibilità intorno alle identità trans rendono già molto complesso l’accesso alle cure mediche, come per esempio gli screening oncologici o il vaccino contro il papillomavirus.

È verosimile ipotizzare che una legge che non sappia andare oltre il binarismo di genere possa inavvertitamente tagliare fuori chi ha le mestruazioni ma non si identifica come femmina. E sopra ogni cosa, come sempre, pende la resistenza dei conservatori al governo a prendere in considerazione qualsiasi tutela che preveda un costo per lo stato: figuriamoci una che riconosca che i corpi che possono generare hanno delle esigenze specifiche. ◆

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