01 ottobre 2017 13:19

Al Teatro Comunale si parla di amore e tabù sessuali dopo le rivolte delle primavere arabe con Catherine Cornet, Internazionale, che anima il dibattito tra Shereen El Feki giornalista britannica di origini egiziane, autrice di Sex and the citadel e Saleem Haddad, autore di Ultimo giro al Guapa (edizioni e/o, 2016), la storia dell’omosessualità repressa di un giovane di fede islamica. Sul palco sono presenti anche i registi egiziani Ayman El Amir e Nada Riyadh, che hanno diretto Happily ever after, l’originale documentario sulla loro storia d’amore: uno sguardo nella sfera privata di una coppia che si trova a dover superare la contrapposizione tra gli ideali politici di lei, che vuole rimanere in Egitto dopo la rivoluzione per apportare dei cambiamenti significativi e le ambizioni di Ayman, che decide invece di andare negli Stati Uniti per poter proseguire con maggiore libertà i propri progetti cinematografici.

Catherine Cornet invita Saleem Haddad a spiegare al pubblico due termini arabi centrali nelle esperienze della comunità LGBT nei paesi di fede islamica: haram e eib. “La prima rappresenta tutto ciò che è contrario alla religione, mentre il secondo è il concetto culturale di vergogna, dotato di una forte componente sociale che tende a influenzare in maniera anche più preponderante le regole di comportamento”. Saleem ricorda infatti di come haram abbia smesso di essere importante grazie a un passaggio logico razionale che ci fa rifiutare delle proibizioni imposte da una religione in cui smettiamo di credere. Superare l’aib è invece più difficile perché va a toccare tutte quelle tacite dinamiche di accettazione sociale, che mettono a rischio il nostro futuro come membri di una comunità.

Certo le app di chat come Grindr hanno reso per i giovani omosessuali arabi gli incontri più semplici, ma è interessante notare come molti tabù siano in realtà ancora presenti non tanto sul piano di quello che si fa ma di come se ne parla. Sono tante le parole per aib ormai non si possono più pronunciare, quando invece l’arabo antico annoverava ben 1083 verbi per indicare l’atto sessuale: “la politica ha ristretto il nostro vocabolario. Ora se anche la conversazione comincia in arabo, utilizziamo immediatamente l’inglese non appena passiamo a parlare di sesso!”, scherza Saleem.

Alla domanda di Catherine Cornet su come siano cambiati i personaggi femminili nella produzione cinematografica egiziana, Shereen El Feki sottolinea come sia difficile concentrarsi unicamente sulla figura della donna, avulsa dalla cornice storica e culturale in cui è situata. “Negli anni ’50, l’età d’oro del cinema egiziano, le donne erano rappresentate in modo più progressista di oggi, venivano incoraggiate le loro capacità espressive, anche sessuali. In contesto più ampio, l’immagine era quella di un paese con un forte impulso allo sviluppo e all’emancipazione. Nei film di oggi assistiamo invece a un ritorno della donna in cucina, meno libera. Emerge quindi un quadro politico volto all’affermazione di un sistema gerarchico patriarcale”.

Nella rappresentazione dell’omosessualità si riscontra invece un approccio più profondo e sfaccettato oggi. Mentre negli anni ’90 i personaggi gay erano di solito utilizzati nei film come metafora di qualcos’altro, ad esempio della corruzione e del degrado della società, oggi vengono mostrati nella loro complessità, come personaggi a tutto tondo.

Quello che invece ancora non emerge nel cinema arabo è la condizione degli uomini e la crisi della loro mascolinità. “Gli amici mi chiedono sempre perché mi occupo sempre e solo della condizione della donne, “dice Ayman “quando in realtà anche gli uomini del nostro paese si sentono vittime”. Nada evidenzia come ci sia un forte senso di ingiustizia nelle nuove generazioni, alla ricerca di un compromesso che non renda vana l’esperienza delle primavere arabe: “si tratta di egiziani che hanno fatto la rivoluzione e ora non riescono neanche più a trovare la forza per alzarsi dal letto. Sono depressi. I cambiamenti vanno attuati per tutta la popolazione, non si può pensare di allargare il campo dei diritti delle donne senza farlo anche con quello degli uomini”.

Per Saleem la strategia per superare questa fase di frustrazione è di non concentrarsi solo sulle difficoltà, ma anche sugli spazi di resistenza e solidarietà che sono comunque sopravvissuti, sui tanti attivisti della comunità LGBT e non solo che cercano nuovi luoghi e nuovi modi di stare insieme. “Le sfide sono tante, ma sono tante anche le reti e le iniziative che sono nate. Di questo dobbiamo parlare molto. E anche celebrarlo”.
Alice Pelucchi, studentessa del Master di Giornalismo e Comunicazione scientifica dell’Università di Ferrara, volontaria all’ufficio stampa del festival

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