Cultura Schermi
Cry macho –Ritorno a casa
Stati Uniti 2021, 104’. In sala
Cry macho (dr)

Milo, “un vero cowboy” a sentire il suo capo Howard (Dwight Yoakam). La sua missione è attraversare il confine fra Texas e Messico per recuperare Rafo (Eduardo Minett), il figlio tredicenne di Howard, che sta con la madre inaffidabile e opportunista. Nel viaggio si portano dietro anche Macho, il gallo da combattimento di Rafo. Eastwood e Minett funzionano meravigliosamente: due cavalieri solitari che hanno molto da imparare l’uno dall’altro. “Ti arrabbi troppo. Non ti fa bene”, dice Rafo a Mike. Ma dietro la scorza del vecchio c’è semplicemente un uomo forte, silenzioso, la cui durezza è temperata dalle buone maniere, dai valori familiari e dalla passione per gli animali. “Questa storia del macho è sopravvalutata”, dice a Rafo. È commovente vedere Clint Eastwood, a novantun anni, in uno stato d’animo così riflessivo.

Clint Eastwood fa ancora bella figura con il cappello da cowboy in testa. Nel suo ultimo film, un road movie delicato, Eastwood interpreta Mike Milo, “un vero cowboy” a sentire il suo capo Howard (Dwight Yoakam). La sua missione è attraversare il confine fra Texas e Messico per recuperare Rafo (Eduardo Minett), il figlio tredicenne di Howard, che sta con la madre inaffidabile e opportunista. Nel viaggio si portano dietro anche Macho, il gallo da combattimento di Rafo. Eastwood e Minett funzionano meravigliosamente: due cavalieri solitari che hanno molto da imparare l’uno dall’altro. “Ti arrabbi troppo. Non ti fa bene”, dice Rafo a Mike. Ma dietro la scorza del vecchio c’è semplicemente un uomo forte, silenzioso, la cui durezza è temperata dalle buone maniere, dai valori familiari e dalla passione per gli animali. “Questa storia del macho è sopravvalutata”, dice a Rafo. È commovente vedere Clint Eastwood, a novantun anni, in uno stato d’animo così riflessivo.

Simran Hans, The Guardian

Scompartimento n. 6
Seidi Haarla, Jurij Borisov
Finlandia / Russia / Estonia / Germania 2021, 107’. In sala
Scompartimento n. 6 (dr)

Ai giorni nostri al cinema domina la complessità. Trame e universi che s’intrecciano. Tutto per agguantare lo spettatore che scappa da ogni parte. A volte però, all’improvviso, un’opera si affida alla semplicità e colpisce dritto al cuore. Scompartimento n. 6, secondo lungometraggio del finlandese Juho Kuosmanen – che da outsider si è aggiudicato il gran premio della giuria a Cannes – è quel tipo di opera. Liberamente tratto dal romanzo di Rosa Liksom, il film non fa altro che accompagnare due personaggi (che non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro) durante un lungo viaggio e mostrare il rapporto che si costruisce tra di loro, un passo per volta. Laura (Seidi Haarla), studente finlandese di archeologia appena piantata in asso dalla sua compagna, parte in treno da Mosca per andare a Murmansk, sopra il circolo polare artico, a vedere delle antichissime incisioni rupestri. Divide lo scompartimento con Ljoha (Jurij Borisov), partito per andare a lavorare in una miniera, un giovane rozzo reso ancora più molesto dalla vodka che tracanna. La distanza che c’è tra loro gli darà l’occasione di sfuggire dai rispettivi cliché e avvicinarsi: due sfollati sentimentali che insieme affrontano l’inverno russo così come la glaciazione dei loro cuori. Il viaggio annulla ogni barriera sociale e culturale. Un antico ideale democratico degno di Frank Capra, trasportato ai confini d’Europa.

Mathieu Macheret, Le Monde

Il colore della libertà
Lucas Till, Brian Dennehy
Stati Uniti 2020, 105’. In sala

In un inizio spaventoso, ma anche destabilizzante ci viene presentato Bob Zellner (Lucas Till), giovane dell’Alabama, nipote di un klansman, diventato attivista del movimento per i diritti civili nell’Alabama dell’inizio degli anni sessanta. La sceneggiatura di Barry Alexander Brown, montatore di molti film di Spike Lee, basata sul libro di memorie dello stesso Zellner, riesce un po’ ad alleggerire il peso dei cliché. Ma rimane il fatto che raccontare la storia di un bianco, trattato violentemente ma che protesta da una prospettiva di relativa sicurezza confinando gli attivisti neri in ruoli secondari, oggi suona come una proposta ideologicamente discutibile. A parte questo il film è ragionevolmente avvincente.

Ben Kenigsberg, The New York Times

L’uomo dei ghiacci. The ice road
Liam Neeson
Stati Uniti 2020, 109’. In sala

Una ventina di operai rimangono bloccati in una miniera in Canada, a causa di un’esplosione. Un gruppo di camionisti è ingaggiato dai proprietari della miniera per portare una testa di pozzo necessaria a liberare gli operai, guidando attraverso un lago ghiacciato la cui superficie durante il mese di aprile comincia a sciogliersi. Tra i camionisti c’è Mike (Liam Neeson), appena licenziato da un’altra azienda per aver picchiato un collega che aveva insultato il fratello, veterano dell’Iraq. La premessa poteva far pensare a qualcosa di simile al capolavoro di Henri-Georges Clouzot, Vite vendute (1953), e al suo remake Il salario della paura (1977) di William Friedkin. Invece si trasforma nell’ennesimo ripetitivo film con Liam Neeson.

Bilge Ebiri, Vulture

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1438 - 3 dicembre 2021
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