Cultura Suoni
The boy named If
Elvis Costello (Mark Seliger)

Il trentaduesimo album di Elvis Costello dimostra che siamo sempre di fronte a uno dei più grandi autori britannici di canzoni. The boy named If continua il momento d’oro cominciato nel 2018 con Look now, e lo fa con una veemenza e una concentrazione che fanno pensare ai suoi successi di critica e pubblico dei primi anni ottanta. L’album parte a tutta velocità con Fare­well, ok e non molla mai fino a Mr. Crescent, dodici pezzi dopo. A causa della pandemia la band ha registrato a distanza, ma con tutto il vigore di un gruppo che suona guardandosi dritto negli occhi. Costello falcia le corde della sua vecchia Fender Jazzmaster, tira fuori qualche assolo efficacissimo e canta forzando il registro più acuto, con il suo tipico stile da mitragliatrice. Negli anni novanta alcuni fan hanno mollato Costello, stanchi dei suoi continui cambiamenti di genere musicale. Questo è il disco che li farà tornare indietro.

Daryl Easlea,
Record Collector

The overload

L’ascesa degli Yard Act durante la pandemia è stata inaspettata. In meno di tre anni un gruppo di sperimentatori sonori anticapitalisti è diventato il tesoro delle major, in un periodo in cui l’industria della musica dal vivo era inesistente. Nel suo album di debutto, The overload, la band è riuscita a creare un suono particolare che è abbastanza fresco da rendere qualsiasi confronto senza senso, ma che al tempo stesso ricorda la maggior parte delle epoche del post punk. Il suono degli Yard Act si basa sullo spoken word e su testi culturalmente critici che non fanno alcuno sforzo per nascondere l’accento del West Yorkshire del cantante James Smith, il tutto supportato da una strumentazione post punk. Il punto di riferimento immediato per la maggior parte degli ascoltatori saranno senza dubbio i Blur, in particolare Parklife. Tuttavia le cadenze di Smith suonano più simili a qualcosa scritto da Mike Skinner di The Streets o perfino da John Cooper Clarke. Ma c’è una gamma impressionante di stili in tutto l’album, dalla batteria digitale africana e il coro synthpop anni ottanta di Payday ai riff jazz e le melodie alla Gorillaz di Land of the blind. In tutto l’album Smith critica il capitalismo e la vita quotidiana britannica con la satira e l’umorismo nero. Molte delle attuali band indie rock e post punk ricordano il periodo di successo del genere negli anni duemila. Gli Yard Act occupano un posto simile ai Black Country, New Road e ai Black Midi nel mantenere il prefisso “post” nel post punk attraverso uno sperimentalismo dilagante. Ma gli Yard Act hanno le canzoni più orecchiabili.

Ethan Stewart,
PopMatters

Archive material
Silverbacks (Full Time Hobby)

Con Archive material questo quintetto di Dublino ha trovato un modo piacevole di usare la pandemia come un prisma che riflette la monotonia e le stranezze vissute da tutti noi negli ultimi due anni. Anche se la casa discografica aveva consigliato al gruppo di aspettare tempi migliori prima di lanciare il disco di debutto, i Silverbacks hanno deciso comunque di uscire nel luglio del 2020 con Fad, ricevendo critiche molto positive. Quello che colpisce di più dei Silverbacks è la capacità di fondere armoniosamente diversi stili, anche nello spazio di pochi secondi. Le chitarre alla Gang of Four e Television aggiungono un po’ di pepe, mentre la bassista Emma Hanlon ricorda Cate Le Bon quando canta in un paio di pezzi. In generale tutto il lavoro è pervaso dall’abrasività ereditata dai Sonic Youth e procede in maniera imprevedibile. Da un punto di vista tematico al centro di Archive material ci sono le persone, con i sentimenti scaturiti dalla pandemia. Un album affascinante e un bel passo avanti per la band irlandese.

Jamie Wilde,
Clash

Dvořák: opera per pianoforte solo

Non è virtuosistico come Smetana, non è emozionante come Chopin, non è toccante come Grieg: anche se ci offre un’inesauribile vena melodica e qualche capolavoro, l’opera per piano solo di Antonín Dvořák non è certo la parte più importante del corpus del compositore boemo che, ottimo violinista, violista e organista, era un pianista di livello mediocre. Qui però Ivo Kahánek non scivola mai nella routine e sfoggia sempre uno charme all’altezza del grande Rudolf Firkušný, che di Dvořák ci ha lasciato qualche registrazione sparsa. Mette sensibilità, personalità e immaginazione in ogni piccolo pezzo, e lascia che ogni momento di queste cinque ore di musica porti con sé il suo sottile profumo slavo.

Nicolas Derny,
Diapason

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1445 - 28 gennaio 2022
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