Cultura Libri
Monogamia
382 pagine, 18,50 euro

Le storie di Sue Miller hanno una qualità prismatica. Spesso l’autrice presenta i personaggi da più punti di vista, ritraendoli come li vedono gli altri. Nell’avvincente e meticoloso Monogamia, Miller mostra come l’amore, la perdita e l’accumulo di saggezza possono spostare questi angoli di visuale. Al centro del romanzo c’è il matrimonio tra Annie, una fotografa, e Graham, un omone rabelaisiano che possiede una libreria a Harvard square. Miller analizza la loro unione e le sue tragiche conseguenze con profonda simpatia e distacco forense. Graham è una figura carismatica ma imperfetta: generoso, amorevole, ma anche esigente e presuntuoso. La fedeltà coniugale è una promessa che non riesce a mantenere. Non aiuta il fatto che sia cresciuto nella Cambridge degli anni sessanta, quando la monogamia era considerata una camicia di forza e la sperimentazione sessuale era ampiamente approvata. L’intricata narrazione in terza persona si alterna tra Annie e Graham, prima di espandersi per includere le prospettive dei due figli di Graham e della sua prima moglie, Frieda. Anche gli amici intimi e gli amanti, passati e presenti, compaiono nella storia. Miller usa l’espediente della memoria – a volte recuperata, spesso inaffidabile – per spostarsi nel tempo, dando vita a flashback che completano la storia dei personaggi. Apprendiamo che il primo matrimonio di Graham è finito per via delle sue molte avventure extraconiugali. Frieda aveva accettato l’idea di un matrimonio aperto. Ma il suo entusiasmo era svanito rapidamente e alla fine aveva lasciato il marito, solo e sconsolato. Quando Graham incontra Annie, sette anni dopo, si potrebbe pensare che questo improbabile playboy abbia imparato la lezione. Ma non è così, e poi Annie ha uno spirito decisamente più libero di quello di Frieda. In ogni caso il romanzo non parla solo di matrimonio, è affascinato anche dal mistero della personalità umana, plasmata dal passato ma a volte in grado di trascenderlo.
Julia M. Klein,The Boston Globe

Cento notti
256 pagine, 18,00 euro

Raggiunta la mezza età, Irene, la protagonista di Cento notti, fa un bilancio della sua vita: “Le mie basi esistenziali non sono state Sigmund Freud o William Shakespeare, ma i capezzoli, la spirale delle orecchie, le caviglie, il clitoride, le gengive o la bocca dell’ano”. Luisgé Martín incarna questa visione nella robusta figura di una sessuologa madrilena che narra la sua storia, in gran parte in prima persona, dall’infanzia alla soglia dei sessant’anni. Irene cerca un rimedio alle sue incertezze giovanili andando a Chicago per studiare psicologia. Integra la sua formazione teorica con una ricerca empirica basata sull’analisi delle relazioni con gli uomini con cui va a letto. Prende nota nei suoi quaderni di questi rapporti, che includono anche la prostituzione, e attraverso le sue indagini cerca di avvalorare alcune ricerche sui mammiferi: la comparsa di nuovi partner sessuali aumenta l’eccitazione e quindi determina il desiderio erotico. È vero anche per la specie umana. La causa non è spirituale, ma ha a che fare con la secrezione di un neurotrasmettitore. La donna lo dice senza mezzi termini: “L’amore, in termini chimici, è un’overdose di dopamina”. In seguito Irene diventa un’investigatrice, lavora per l’Fbi e crea un’agenzia investigativa in Spagna. Le sue indagini e le sue attività di instancabile imprenditrice vanno di pari passo allo studio condotto a Harvard e finanziato da un multimilionario commerciante di rose – Adam Galliguer, il sofisticato e presuntuoso amante della protagonista – su vari aspetti della sessualità: castità, fedeltà e promiscuità. L’indagine antropologica conferma che la stragrande maggioranza delle persone è sessualmente infedele al proprio partner. Il romanzo combina la speculazione erotica con un complesso artificio narrativo in cui il sesso influenza una galleria di personaggi. La mescolanza di godimento e dolore, e il fondo nichilistico, in qualche modo incoerente con il vitalismo travolgente della donna, conferiscono al libro una dimensione tragica.
Santos Sanz Villanueva,
El Español

Creature luminose
396 pagine, 22,00 euro

Il romanzo d’esordio di Shelby Van Pelt parla di come ci si sente quando l’amore ti viene portato via, per poi ritrovarlo nei luoghi più inaspettati. La parte migliore è narrata da Marcellus McSquiddles, un polpo gigante del Pacifico che non solo pensa e sente come gli esseri umani, ma sa anche forzare le serrature, uscire dalla sua vasca all’acquario per andare a fare spuntini notturni e fare da sensale segreto della città. Il libro si divide in due storie che alla fine convergono. La prima è quella di Tova Sullivan, che ha settant’anni e da poco è vedova. Quando non pranza e non spettegola con tre amiche di lunga data, fa volontariato come custode notturna all’acquario e parla con Marcellus mentre fa le pulizie. La seconda storia riguarda Cameron, un trentenne musicista dilettante e lavoratore saltuario, la cui madre fannullona lo ha lasciato con la zia in un parcheggio per roulotte in California quando aveva nove anni e non è più tornata. Dopo troppe relazioni fallite e lavori persi, Cameron va a Sowell Bay alla ricerca del padre, che non vede da tempo, per fargli pagare gli alimenti arretrati. I lettori più attenti potrebbero intuire dove si andrà a parare. Ma questo non sminuisce l’effetto della storia. Il viaggio di Cameron non è la cosa che spicca di più: ciò che rende il libro così memorabile e tenero è la rappresentazione che Van Pelt fa di Tova e della sua insistenza nel voler invecchiare con grazia.
Alexis Burling,
The Washington Post

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1468 - 8 luglio 2022
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