Documenta è sempre un’avventura. Ogni cinque anni la città tedesca di Kassel, nell’Assia, si fa portavoce dell’arte mondiale. Gli artisti invadono la città per una mostra a cielo aperto che indica le nuove tendenze. La 15a edizione, in cui una direzione artistica non occidentale ha privilegiato l’etica sull’estetica e la lotta sulla semplice constatazione, si distingue nettamente dalle precedenti.
Di fatto è il collettivo indonesiano Ruangrupa, fondato a Jakarta nel 2000 e conosciuto finora solo dagli esperti della scena asiatica, che ha orchestrato l’evento, rivoluzionandolo: fine dell’eurocentrismo e spazio al dialogo sud-sud. Il collettivo ha cercato di mettere in risalto ogni sorta di resistenza, sociale o politica. Così si balla, si va in skate, si stampano volantini, si gioca, si fa politica: cento promesse per cento giorni di mostra.
Catena collettiva
Alle star acclamate Ruangrupa ha privilegiato il lavoro dei collettivi attraverso una miriade di progetti secondo il principio indonesiano del lumbung, uno spazio comune in cui si condividono i raccolti. Anche se l’iniziativa ha dato vita a qualche polemica e spesso non si sa più chi condivide e cosa, l’effetto valanga dei collettivi che invitano altri collettivi, che a loro volta ne invitano altri, è impressionante. Così il museo Fridericianum è pieno di schizzi con frecce, fumetti e discussioni che svelano le fondamenta di questi gruppi, e solo alla fine si potrà vedere il risultato. Ma Documenta rimane un’avventura per l’istituzione, disposta a mettersi in discussione, e per il pubblico.
Nel corso delle sue passeggiate (consigliamo almeno due giorni, da qui al 25 settembre), il visitatore potrà perdersi fra le tombe dello strano museo della cultura sepolcrale, per poi annusare delle piante in un giardino occupato; sceglierà di aggirarsi nello splendido parco Karlsaue in cerca di un compost nascosto dietro i pini o di rabbrividire davanti a un truculento film kenyano; si troverà in una cantina labirintica piena di oggetti sadomaso; nel segreto di un tunnel si farà agganciare dalla pizia al contrario di Black quantum futurism, a cui dovrà confidare la sua visione del futuro; scoprirà un mondo in miniatura in un albergo anni cinquanta.
Al Grimmwelt, museo dedicato ai fratelli Grimm, vedrà un magnifico cartone animato creato dal collettivo caraibico Alice Yard, in cui creature disneyane si perdono in un paesaggio che ricorda il surrealismo ceco. Al piano terra del Fridericianum il visitatore entrerà nell’asilo nido costruito da Graziela Kunsch, salirà su una torre di guardia medievale in cerca dell’autobiografia di una giovane vietnamita che non troverà mai, aspetterà il treno in una zona industriale infestata da fantasmi, per poi arrivare in un’officina popolata da tende africane in cui risuona musica pop asiatica. Insomma un viaggio sconcertante attraverso la città, ma anche e soprattutto attraverso il mondo e le sue minoranze in lotta.
Nessuna esclusa. Sul prato della Friedrichsplatz c’è un’ambasciata degli aborigeni. Un omaggio è reso alla lotta delle donne algerine e alle prigioniere politiche cubane, evocate nell’Istituto di artivismo Hannah Arendt, allestito da Tania Bruguera. La chiesa di St. Kunigundis ospita un insieme di sculture haitiane, mentre la vivace comunità queer indiana si rivela attraverso una serie di ritratti kitsch allo Stadtmuseum. Nelle ex piscine pubbliche di Hallenbad Ost la scena militante indonesiana mostra tutto il suo talento grafico, mentre sul prato dell’Orangerie una capanna fatta di stracci critica il riciclaggio dei vestiti inviati in Africa da “benefattori” occidentali.
Ma per quanto ricca di spunti, una biennale può racchiudere un intero pianeta in lotta? Le contraddizioni sono molte. Al Fridericianum The black archives evoca i movimenti di emancipazione dei neri nei Paesi Bassi, ma è difficile riassumere una collezione di diecimila opere in tre vetrine. Stesso problema per The Asia art archive, dedicato agli artisti dimenticati dall’India a Hong Kong. Nello squat WH22 le tele di Mohammed Al Hawajri s’ispirano a Guernica _infiltrando le icone dell’arte moderna tra le rovine di Gaza. Intitolata _Guernica Gaza, lascia più di un dubbio su quanto possa essere veramente utile per la causa palestinese.
◆ Un’opera del collettivo indonesiano Taring Padi è stata coperta dopo le proteste di associazioni di ebrei tedeschi e dell’ambasciata di Israele. L’affresco in questione, La giustizia del popolo, montato davanti al Fridericianum, risale al 2002 ed è un’evocazione della resistenza al regime di Suharto. Due figure attirano lo sguardo: un maiale che porta la stella di David e un berretto del Mossad e un uomo con i denti da vampiro con un cappello nero con sopra la sigla delle Ss, sigaro in bocca e riccioli dietro le orecchie appuntite. “Alcuni dettagli di questa opera sono stati male interpretati rispetto al proposito originale”, scrive il collettivo. “Ci scusiamo per le ferite provocate”. Ma le tensioni non si sono placate. “La libertà di espressione artistica ha raggiunto i suoi limiti”, ha dichiarato la ministra della cultura tedesca Claudia Roth. Le Monde
Dalla Biennale a Kassel
Rare le rivelazioni estetiche. Małgorzata Mirga-Tas per esempio, scoperta alla Biennale di Venezia nel padiglione polacco, stupisce di nuovo. L’artista svela nuovi ricami, evocazioni meravigliose del popolo rom. Da non perdere, nel sottosuolo della fabbrica Hübner-Areal la toccante sala dedicata ad Amol K Patil: le sue piccole sculture e i disegni sono altrettanti poemi. Bella prestazione anche del Nhà sàn collective: una ventina di scultori di Hanoi ha dato vita a un giardino in collaborazione con la comunità vietnamita di Kassel. Dietro questo nome si nascondono anche gli autori di una bella installazione, un’area giochi minimalista allo Stadtmuseum.
Al museo di storia naturale Ottoneum, la grande sacerdotessa dell’arte post-internet Hito Steyerl si è fatta notare mettendo in scena una grotta digitale: il suo video, incredibile parabola del neocapitalismo, racconta la storia di un pastore youtuber e di un lupo finito nel metaverso, e culmina con l’invenzione di “formaggi nft” che si scambierebbero con dei cheesecoin. Nel museo dell’Assia Pınar Öğrenci ci porta verso altre vette, intorno a Van in Turchia: un magnifico lavoro di memoria sulle tracce degli armeni scomparsi e dei curdi soffocati dal regime. “Mie montagne, mi mancate”, un canto nostalgico che colpisce al cuore, come molti altri intonati in questa Documenta. Dall’Iraq all’India o a Java si possono ascoltare delle melodie che celebrano il raccolto, canti di dolore, lieder malinconici, canzoni di protesta. Sono loro che ci commuovono, perché è qui che si trova il senso della comunità. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1468 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati