I viaggi che Dhiaa Kareem ha fatto nel suo paese dal 2008, non li vorrebbe fare nessun cittadino iracheno o di qualsiasi altro paese. Da Bassora a Mosul, da Halabja a Babel, passando per il Sinjar e Tikrit, sulle rive del fiume Tigri, sempre alla ricerca di fosse comuni.

“Il lavoro da fare è molto: prima bisogna individuare i siti e delimitare lo spazio perché non sia calpestato. Poi organizzare la missione per scavare e trasportare i resti nel camion frigorifero verso Baghdad, dove saranno esaminati dagli antropologi forensi”, dice Kareem, che guida la squadra del dipartimento incaricata di trovare le fosse comuni. Con lui, c’è un’équipe di medicina legale, supervisionata da Zeid al Yousif e Yasmine Mund­her. “Stiamo via intere settimane, lavorando dall’alba al pomeriggio”. In piedi di fronte al sito di Badush, vicino a Mosul, Kareem indica lo spazio ai margini di un torrente secco nel deserto in cui il gruppo Stato islamico (Is) ha seppellito più di seicento corpi di prigionieri sciiti nel giugno 2014, i primi giorni della conquista di Mosul. Scavando tra i resti, hanno trovato di tutto; anche degli scorpioni.

“Ci occupiamo delle fosse comuni della guerra tra Iran e Iraq degli anni ottanta, di quelle della prima guerra del Golfo del 1990-1991 e delle sparizioni forzate degli oppositori politici di Saddam Hussein. Cerchiamo anche le vittime del genocidio dei curdi. Fino ad arrivare all’invasione statunitense del 2003, alla guerra civile irachena tra il 2006 e il 2008 e infine alle più recenti ma numerosissime fosse comuni usate dall’Is – ne abbiamo identificate 202 – e al genocidio della popolazione yazida”, conclude Kareem. “Ne avremo ancora per anni”.

Gli antropologi forensi lavorano all’alba nella fossa comune di Badush

Violenza multipla

Non c’è mese che non siano impegnati, divisi in squadre, a scavare la terra o a raccogliere il dna dei familiari delle persone scomparse. Perché è quello il fine ultimo nel riesumare i resti: restituire alle famiglie i corpi dei loro cari. Secondo le stime della Croce rossa, il numero dei dispersi in Iraq potrebbe arrivare fino a un milione: la cifra più grande a livello mondiale in un singolo paese. Non si tratta di un genocidio né dei massacri di un regime o di una guerra, ma di più di quarant’anni di conflitti e sparizioni forzate in una violenza che non ha risparmiato nessuna famiglia irachena.

Donne yazide durante una cerimonia per l’apertura di una fossa comune a Kojo, il 15 marzo 2019

Ad aspettare nell’aula magna del dipartimento della sanità a Babel c’è Mariam (è uno pseudonimo). Quando arriva il suo turno, si alza e comincia il passaggio da una scrivania all’altra, accolta dai componenti del gruppo di medicina legale di Baghdad. Alla prima scrivania, fornisce i suoi dati. Alla seconda, quelli del figlio: riempie una scheda con l’aiuto della dottoressa Mundher. “Abbiamo parlato al telefono più volte, ma ci siamo incontrate per la prima volta durante la raccolta del dna”, racconta Mundher, che ricorda ogni nome. “Non tutti hanno la possibilità di venire a Baghdad ed è faticoso con i mezzi pubblici. Per questo li raggiungiamo noi”. All’ultima scrivania l’aspettano due medici: preleveranno dal dito di Mariam una goccia di sangue, che un giorno potrebbe farle riavere il corpo del figlio.

Il custode del deposito della direzione legale medica di Baghdad, Ahmad Muhammad Abdallah, che lavora da quattro anni sull’identificazione delle vittime delle fosse comuni. Nelle scatole ci sono resti e vestiti di persone morte durante la prima guerra del Golfo del 1991

Sperando che sia l’ultima

Arrestato per una lite finita in un omicidio, il figlio di Mariam faceva parte di un gruppo di prigionieri sciiti, uccisi dall’Is dopo essere stati divisi dai sunniti. “Mi avevano chiamato dicendo che i jihadisti li avevano liberati e che sarebbe tornato a casa. Da allora non ho avuto più nessuna notizia”, dice la madre, con gli occhi pieni di lacrime che non vengono giù. Nel maggio 2021 le Nazioni Unite hanno riconosciuto che, oltre al genocidio degli yazidi, con i massacri di Speicher e Badush l’Is ha compiuto un tentativo di genocidio anche della comunità sciita. Alcune famiglie definiscono questi massacri come la Srebrenica degli sciiti. A Babel i dispersi non sono una novità. “Un mio zio partito negli anni ottanta come soldato contro l’Iran non è mai più tornato”, confida Mariam, a riprova di come negli ultimi quarant’anni le storie del paese e delle sue famiglie si mescolano. “Chissà se un giorno troveremo anche il suo corpo”.

Una donna russa, accusata di far parte dell’Is, con la figlia nel tribunale penale di Baghdad, il 15 maggio 2018

Dopo anni di lavoro Dhiaa Kareem, Yasmine Mundher e tutti i componenti della squadra hanno raggiunto un alto livello di professionalità e competenza, grazie anche alla formazione che hanno fatto in Iraq con la Commissione internazionale per le persone scomparse (Icmp), la Croce rossa internazionale e, dopo la sconfitta dell’Is, una squadra investigativa dell’Onu, che ha cominciato il suo lavoro nel 2019 con gli scavi delle fosse comuni yazide nel Sinjar.

Detenuti accusati di legami con il gruppo Stato islamico in una prigione controllata dalle Forze democratiche siriane (una coalizione guidata dai curdi) ad Al Hasakah, in Siria. Sono in maggioranza siriani e iracheni, ma ci sono anche persone di altri paesi. Non sono stati processati e i loro presunti reati rischiano di restare impuniti. Allo stesso tempo le famiglie non hanno loro notizie

Gli esperti internazionali provenienti dall’Argentina e da altri paesi del mondo sono stati al fianco degli iracheni. E con loro, Kareem e i suoi compagni non hanno viaggiato solo in Iraq: “Siamo stati all’Aja, in Bosnia e a Cipro, per studiare vari tipi di fosse comuni, che presentano sfide diverse, come qui, in ogni sito”. Kareem ha solo una speranza: che la prossima fossa che scaverà in Iraq possa essere l’ultima. ◆

Un uomo accusato di far parte dell’Is davanti al giudice della corte penale di Baghdad, il 3 maggio 2018. Non ha un avvocato e si dichiara innocente. Altri imputati, sotto tortura, hanno confessato di essere jihadisti
Alcuni leader spirituali yazidi celebrano l’apertura della prima fossa comune a Kojo, liberando delle colombe bianche, il 15 marzo 2019

Questo progetto di Marta Bellingreri e Alessio Mamo, cominciato nel 2017, è arrivato finalista al Pictures of the year nella categoria longterm World understanding award e al 6 MOIS award for photojournalism.

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Questo articolo è uscito sul numero 1468 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati