“Puoi farlo risalire all’Africa. Fino alla fonte”. L’ha detto Alloysious Massaquoi, uno dei tre musicisti del trio scozzese Young Fathers per spiegare il filo conduttore del nuovo disco Heavy heavy. Massaquoi è nato in Liberia e si è trasferito in Scozia da bambino. Il suo compagno di gruppo Kayus Bankole invece è nato in Nigeria, cresciuto negli Stati Uniti ed è tornato in Africa poco prima di cominciare i lavori del nuovo album. L’eredità africana traspare più che mai in Heavy heavy, ma come al solito quando si tratta della musica degli Young Fathers tutto è più complicato di quello che sembra. L’altro musicista del trio, G Hastings, ha spiegato: “Quando ascolti flussi di musica provenienti da tutto il mondo, dagli aborigeni australiani che usano i didgeridoo ai bordoni nella musica celtica, capisci che c’è un filo che li attraversa tutti. Un filo che dall’antichità si è trasformato in musica pop e perfino in cose come i Kraftwerk. C’è qualcosa di cui tutti gli umani hanno bisogno”. Oltre che il disco più africano degli Young Fathers, Heavy heavy è anche il loro lavoro più gioioso. Dall’inizio (la radiosa apertura di Rice) alla fine (il finale strozzato di Be your lady) molte delle canzoni sono una festa celestiale, organica ma ultraterrena, che sbanda verso l’euforia. Questo è un disco complesso, che però non si rinchiude nell’avanguardia inavvicinabile. Nonostante la sua densità, non c’è da sorprendersi se Heavy heavy ci farà sentire più leggeri.
Chris Deville, Stereogum
Meglio conosciuto come leader dei Black Keys (e rivale di Jack White), Dan Auerbach con il suo progetto parallelo The Arcs ha dimostrato di avere prospettive più ampie. Nonostante conservi un po’ del garage rock della sua band principale, questo gruppo suona unico grazie alla fusione di soul, rnb e psichedelia. E in Electrophonic chronic sfoggia tutta la sua versatilità e bravura con questi generi. Il disco è anche un tributo a Richard Swift, il talentuoso componente del gruppo morto nel 2018. Il primo brano, Keep on dreamin’, rende subito l’idea di quello che ascolteremo, con la voce grezza e toccante di Auerbach sostenuta perfettamente dagli strumenti. In particolare è interessante il lavoro con le chitarre, con assoli emozionanti. A questi elementi si aggiunge anche il senso dell’umorismo e il gusto per il gioco come in Heaven is a place. Electrophonic chronic è fantastico, perché riesce a essere moderno e rétro. È un ascolto obbligato per chi ama il rock, il funk e il soul e per tutti coloro che cercano un lavoro appagante, sia musicalmente sia emotivamente.
Joey Willis,Glide Magazine
Compiuti ottant’anni, il pianeta Pollini continua a girare intorno alla stella Beethoven. Dopo aver pazientemente finito l’integrale delle sonate, il pianista italiano sembra ripartire per la stessa strada, in concorrenza diretta con il leggendario album delle ultime cinque sonate, che nel 1977 diede il via alla sua prima avventura beethoveniana. Il nuovo cd è il seguito logico di quello del 2019, che aveva una rilettura radicale delle ultime tre sonate. Qui ritroviamo la stessa intransigenza, ma nel tentativo di rispettare il più possibile il metronomo (impossibile?) di Beethoven il pianista non trova la serenità che poteva arrivargli dalla maturità e realizza due esecuzioni tese all’estremo. È impressionante soprattutto il senso di angoscia e inquietudine di questo nuovo Pollini. Un esempio è l’inizio dell’op. 101, di solito radioso, o il devastante fragore dell’allegro della Hammerklavier, che non ci lascia neanche il tempo di respirare. Nelle fughe finali si resta colpiti dal coraggio di un interprete che si espone a rischi sempre enormi. Ma resta il rimpianto per il suo vecchio istinto da architetto, oggi sostituito da queste letture a sepolcri scoperchiati che risultano meno esemplari di quelle una volta. Ci sono momenti folgoranti, vere lezioni di pianoforte, e rendono ancora più amaro il “manuale del pessimismo” che ci presenta il grande maestro in questa sua stagione autunnale.
Laurent Muraro, Diapason
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