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L’Arabia Saudita resta una dittatura nonostante le riforme

Gedda, Arabia Saudita, 21 giugno 2018. (Sean Gallup, Getty Images)

Gioia e orgoglio per le donne saudite che finalmente hanno avuto il permesso di guidare. Contentezza per i concessionari che prevedono tanti nuovi affari. E sgomento per le famiglie del milione e quattrocentomila autisti, quasi tutti provenienti dall’Asia meridionale, che guadagnavano circa mille dollari al mese scarrozzando in giro le donne saudite. Tuttavia per cambiare l’Arabia Saudita servirà molto altro.

Poco prima che la guida diventasse legale per le donne, sono state arrestate diciassette attiviste che avevano protestato per anni contro il divieto di guidare. Otto sono state liberate, ma le altre potrebbero essere processate in un tribunale speciale contro il terrorismo e vedersi inflitte pesanti condanne. La mano destra sa cosa fa la mano sinistra? Certo che sì.

Consentire alle donne di guidare rientra nel progetto del principe ereditario Mohammed bin Salman finalizzato alla conquista del sostegno popolare attraverso la modernizzazione di alcuni aspetti della vita quotidiana. Dare l’impressione di arrendersi alle pressioni popolari di sicuro non rientra nel suo programma. Il cambiamento deve sembrare piuttosto una concessione elargita, non un cedimento di fronte alle proteste.

È un’iniziativa meno spettacolare rispetto alla campagna contro la corruzione condotta l’inverno scorso, che ha portato alla detenzione di 56 importanti esponenti della famiglia reale e uomini d’affari (nel miglior albergo della capitale) finché non hanno “restituito” parte dei loro guadagni illeciti.

L’idea che Mohammed bin Salman stia liberalizzando il sistema saudita è una fantasia

Tutta la vicenda pare abbia fruttato 100 miliardi di dollari al governo, anche se nessuno dei ladri ha visto un’aula di tribunale, men che meno una prigione. Il messaggio però era lo stesso: io sto dalla parte della gente comune e faccio le cose giuste, ma decido io quando e come.

L’idea che Mohammed bin Salman stia aprendo il sistema saudita è una fantasia. Dopo aver messo da parte in modo spietato tutti i pretendenti al trono - suo padre, re Salman, ha 82 anni ed è malato – ha centralizzato il potere come mai in passato. L’Arabia Saudita era una monarchia tradizionale, profondamente conservatrice che ha sempre garantito alle élite la possibilità di esprimersi. Adesso è una dittatura.

Mohammed bin Salman è noto per essere un uomo impulsivo e uno dei suoi errori più grandi è stato quello di invitare l’inviato speciale delle Nazioni Unite Ben Emmerson a visitare il paese affinché riferisse sul modo in cui al suo interno si conciliava la necessità di prevenire il terrorismo con il rispetto per i diritti umani. Emmerson è tornato all’inizio di maggio. Il suo rapporto è stato insolitamente sincero per essere un documento ufficiale, e in una successiva intervista è andato ben oltre quanto aveva scritto.

Al Guardian ha riferito come le norme antiterrorismo saudite siano scritte in modo tale da criminalizzare qualsiasi forma di dissenso. La tortura nelle carceri saudite è un luogo comune, i funzionari colpevoli non vengono puniti e l’Arabia Saudita “sta vivendo la più spietata repressione del dissenso politico mai sperimentata dal paese negli ultimi decenni”.

“Le notizie sulla liberalizzazione dell’Arabia Saudita sono completamente fuori luogo”, ha detto Emmerson. “Il sistema giudiziario adesso è completamente sotto il controllo del re ed è privo di qualsivoglia parvenza di indipendenza rispetto all’esecutivo. In parole povere, non esiste alcuna forma di separazione dei poteri in Arabia Saudita, né libertà di espressione, stampa libera, sindacati efficienti o una società civile funzionante”.

Fallimenti internazionali
I successi riportati da Mohammed bin Salman nel reprimere il dissenso interno lo hanno inoltre reso fin troppo sicuro di sé riguardo le sue doti di politica estera. Ha convocato il primo ministro libanese Saad Hariri a Riyadh e lo ha costretto a dimettersi, salvo poi vedere Hariri tornare al potere in alleanza con Hezbollah, un gruppo islamista sciita che Mohammed bin Salman detesta con tutto se stesso.

Ha dichiarato un blocco ai danni del piccolo ma ricchissimo vicino dell’Arabia Saudita, il Qatar, per costringerlo a chiudere il canale televisivo Al Jazeera, il più influente notiziario in arabo, e a spezzare i suoi legami con l’Iran, il paese che Mohammed bin Salman detesta più di qualsiasi altro. Un anno dopo Al Jazeera è viva e vegeta e il Qatar si è ulteriormente avvicinato all’Iran.

Il suo più grosso abbaglio lo ha preso lanciando un intervento militare nella guerra civile in Yemen per sconfiggere gli houthi, una tribù sciita che ha conquistato la maggioranza del territorio yemenita e che a suo parere (errato) è controllata e armata dall’Iran.

I bombardamenti aerei dell’Arabia Saudita hanno ucciso migliaia di persone, i suoi alleati degli Emirati Arabi Uniti hanno migliaia di soldati sul campo e tre anni dopo i primi attacchi gli houthi controllano ancora le aree più popolose dello Yemen, compresa la capitale.

Non è proprio il Vietnam dell’Arabia Saudita, visto che i sauditi non hanno truppe sul campo e gli emiratini fanno ricorso in larga misura a mercenari stranieri, ma l’intervento in Yemen è molto costoso, profondamente imbarazzante e senza possibilità di vittoria. Nel lungo periodo, potrebbe significare la rovina di Mohamed bin Salman.

In Arabia Saudita la ricchezza è stata ampiamente condivisa più che nella maggioranza dei paesi ricchi di petrolio, e per la maggioranza che non si interessa alla politica la vita è ancora piuttosto bella. Persino per le donne le cose stanno piano piano migliorando: il 60 per cento dei laureati sauditi sono donne, e adesso possono addirittura guidare. Oggi però il paese è guidato da un dittatore volubile e troppo sicuro di sé.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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