11 novembre 2017 13:27

Non ci vuole molto per spaventare i libanesi. Più di molti altri sono passati attraverso guerre e intrighi. Ma da una settimana tre stati d’animo dominano a Beirut: l’umiliazione, la rabbia e la paura. La paura è quella di ritrovarsi di nuovo in un conflitto cominciato in casa loro da potenze straniere che non vogliono affrontarsi direttamente.

Le dimissioni a sorpresa il 4 novembre del primo ministro libanese Saad Hariri sono andate storte a molti abitanti di Beirut. Si tratta infatti di uno scenario senza precedenti: Hariri ha annunciato le sue dimissioni da un paese straniero, l’Arabia Saudita, senza informare preventivamente i suoi collaboratori a Beirut e da allora non ha più parlato.

Per la maggior parte dei libanesi non c’è dubbio sul fatto che sia stato il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Mbs) a costringere Hariri alle dimissioni, nello stesso momento in cui organizzava la sua “notte dei lunghi coltelli” a Riyadh arrestando per corruzione diversi membri della famiglia reale.

Alcuni ritengono che Hariri sia trattenuto come un “ostaggio”a Riyadh, anche se si è recato per breve tempo ad Abu Dhabi e ha incontrato alcuni diplomatici. L’assenza di notizie preoccupa il Libano. Mercoledì sera l’aereo del primo ministro è rientrato a Beirut, ma ci sono volute diverse ore per sapere che Hariri non era a bordo.

“Ho provato un profondo senso di umiliazione”, confida un esponente importante della società civile libanese, che fa il confronto con l’occupazione militare siriana del Libano fino al 2005, periodo durante il quale tutte le decisioni venivano prese a Damasco. “La situazione oggi è la stessa ma senza i soldati: un paese straniero si permette di cacciare il nostro primo ministro come si licenzia un dipendente”.

Questa reazione è rivelatrice del fatto che le dimissioni forzate e la durissima dichiarazione di Hariri contro le ingerenze iraniane non hanno provocato quello sperato sussulto di orgoglio contro l’Iran. Per ora invece al centro di tutte le critiche c’è l’Arabia Saudita, anche tra chi è di solito molto critico nei confronti dell’Iran e del suo alleato libanese, gli hezbollah.

A dimostrazione di questa rabbia, il ministro dell’interno Nohad Machnouk, proveniente dal Movimento del futuro del primo ministro dimissionario, ha reagito alle voci secondo le quali l’Arabia Saudita vorrebbe sostituire Hariri con il fratello maggiore Bahaa, uomo d’affari a Riyadh, dichiarando che i sunniti libanesi non sono “del bestiame che si può trasferire da una stalla a un’altra”.

“Gli intrighi del pretendente saudita alla successione al trono, nonostante la loro atmosfera shakespeariana e lo stile enfatico in cui si immaginano le contorsioni di corpi evanescenti su sfondi rosso-oro, non ha nulla di romantico”, scrive il quotidiano di lingua francese L’Orient Le Jour in un editoriale dal titolo “Ratto dal serraglio”, con riferimento al gran serraglio, l’edificio ottomano che ospitava la sede del governo.

In assenza di informazioni, i libanesi si lanciano in grandi congetture e temono una nuova guerra tra Israele e Hezbollah

La crisi è presente in tutte le discussioni, in tutti gli sguardi, anche se la vita continua. I bar del quartiere di Gemayzeh sono ancora pieni e giovedì sera c’era una festa molto chic nel centro città, ricostruito dopo la guerra civile da Rafic Hariri, il padre del primo ministro dimissionario ucciso nel 2005.

“Si ha l’impressione di essere alla vigilia della prima guerra mondiale, quando potenti forze avanzavano verso il conflitto per ricomporre i rapporti di forza e la mappa del mondo”, spiega un uomo vicino al governo che non riesce ancora a capacitarsi di quello che è successo. Bisogna dire che il contesto di quello che in tempi normali sarebbe l’ennesima crisi di un governo libanese è particolarmente difficile.

L’allineamento degli astri, per riprendere un’espressione alla moda, è totale: un giovane pretendente al trono saudita ambizioso e decisionista, che ha già al suo attivo l’atroce guerra dello Yemen e la crisi con il Qatar e che vuole restaurare la potenza sunnita contro il grande attivismo dell’Iran sciita nel mondo arabo; un’amministrazione Trump molto contraria all’Iran che ha appena rifiutato di “certificare” l’accordo nucleare concluso con Teheran dall’amministrazione precedente e dal resto del mondo, e che ha dato un assegno in bianco a Mbs; un primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che da anni avrebbe bombardato l’Iran se non fosse stato fermato da Barack Obama (e dai suoi stessi militari) e che dice che bisogna tagliare le ali all’Iran e agli hezbollah prima che diventino troppo potenti, troppo pericolosi per lo stato ebraico dopo il loro successo in Siria.

Di conseguenza, in assenza di informazioni, i libanesi si lanciano in grandi congetture e temono una nuova guerra tra Israele e gli hezbollah dopo quella del 1982 e del 2006, allo scopo di eliminare l’arsenale militare dei miliziani sciiti ricostituito grazie all’aiuto dell’Iran. Gli israeliani sui loro giornali continuano a ripetere che se ci sarà un conflitto non saranno certo i sauditi a dettarne i tempi, ma i libanesi sono convinti della complicità fra Riyadh e Tel Aviv, con la benedizione americana.

I sauditi hanno scelto di scatenare la crisi libanese per far capire bene chi è il boss del mondo sunnita

Bisogna dire che gli hezbollah, che facevano parte della coalizione governativa diretta da Hariri, e che sono alleati del presidente libanese Michel Aoun, si comportano in Libano come se riconoscessero una sola autorità, la loro. La forza militare degli hezbollah è più potente e più esperta – grazie all’impegno decisivo in Siria a fianco di Bashar al Assad – di quella dell’esercito regolare libanese, e i loro ministri fanno di testa loro andando a Damasco senza neanche avvisare il primo ministro.

Probabilmente i sauditi hanno considerato che l’accordo di un anno fa – al quale avevano dato il loro via libera permettendo l’elezione di un presidente dopo che per molto tempo questa poltrona era rimasta vuota e il ritorno di Hariri come primo ministro – non è stato all’altezza delle loro aspettative e che il capo del governo non ha saputo dimostrare abbastanza autorevolezza nei confronti degli alleati di Teheran in Libano. L’elemento scatenante della rabbia saudita sarebbe stata una dichiarazione di Ali Akbar Velayati, consigliere diplomatico della guida suprema iraniana Ali Khamenei, che ha definito la coalizione al potere in Libano un “successo” per l’Iran.

Questa ipotesi è la più probabile e i sauditi, che tengono sotto controllo il clan Hariri grazie ai loro numerosi affari in Arabia Saudita, hanno scelto di scatenare la crisi libanese contemporaneamente all’arresto dei principi “corrotti”, per far capire bene chi è il boss del mondo sunnita.

I libanesi sono preoccupati per il futuro e ripongono qualche speranza di distensione in una mediazione francese, che prima ha preso la forma di intense consultazioni fra l’ambasciatore francese in Libano Bruno Foucher con tutti gli attori politici e religiosi di Beirut, e poi con lo scalo a sorpresa di Emmanuel Macron a Riyadh. I libanesi inoltre sono rassicurati dalla grande calma mostrata da tutte le forze politiche libanesi, compreso il capo degli hezbollah, lo sceicco Hassan Nasrallah.

I più fatalisti pensano però che in questa regione il peggio sia sempre dietro l’angolo e che il Medio Oriente non sfuggirà a un nuovo cataclisma bellico, al quale da diverso tempo si stanno preparando i principali attori regionali. Il primo riflesso dei libanesi più ricchi è stato quello di verificare la disponibilità del loro passaporto e la validità dei visti per la Francia o per il Canada.

In attesa del peggio i libanesi vorrebbero sapere quello che è realmente successo il 4 novembre a Riyadh. In quale altro paese del mondo un primo ministro si dimette senza che nessuno capisca perché?

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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