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Omicidi mirati in Afghanistan contro la generazione che vuole la pace

Il funerale di una delle tre giornaliste uccise a Jalalabad, Afghanistan, 3 marzo 2021. (Parwiz, Reuters/Contrasto)

La mattina del 4 marzo una giovane dottoressa afgana stava andando al lavoro nella città di Jalalabad, 80 chilometri a est di Kabul, quando è stata uccisa da un ordigno esplosivo piazzato sotto la sua auto. Due giorni prima, nello stesso settore, tre giovani giornaliste di età compresa tra 20 e 25 anni e dipendenti di un’emittente locale avevano perso la vita in due incidenti separati. Tre mesi prima, Malala Maiwand, 26 anni, presentatrice della stessa emittente, Enikass-Tv, era stata assassinata mentre si trovava al volante della sua auto.

Questi omicidi e molti altri sono chiaramente mirati, e provocano l’ennesimo aumento della tensione in Afghanistan. Gli obiettivi non sono casuali: giornaliste, attiviste per i diritti umani, leader della società civile, giovani istruiti e altri rappresentanti di questa nuova generazione che alimenta una speranza per l’Afghanistan e che gli assassini vogliono distruggere.

Gli attentati di Jalalabad sono stati rivendicati dal ramo afgano del gruppo Stato islamico, che in questo modo ha voluto rilanciare rispetto alle altre forze islamiste (al Qaeda e i taliban) responsabili di altri atti di violenza.

Trattativa in stallo
Ma perché proprio ora? L’Afghanistan è al termine di un ciclo, quello della “guerra senza fine” condotta dagli Stati Uniti da quasi vent’anni, a partire dagli attentati dell’11 settembre 2001 organizzati da al Qaeda nella sua roccaforte afgana.

Un anno fa l’amministrazione Trump aveva stretto un patto con i taliban, la principale forza d’opposizione armata del paese, aprendo la strada alla fine della guerra. All’epoca era stata anche fissata una data per la partenza degli ultimi soldati statunitensi: maggio 2021, ovvero tra poco più di due mesi.

L’Afghanistan resta prigioniero delle logiche di guerra

Attualmente è in corso un difficile negoziato tra afgani a Doha, in Qatar, per stabilire le modalità del dopoguerra americano. Ma la trattativa è in stallo. A Washington, inoltre, l’amministrazione Biden ha congelato qualsiasi decisione in attesa di rivalutare la situazione sul campo.

Questa incertezza è all’origine dell’aumento della violenza, dell’intimidazione e della paura.

L’Afghanistan resta prigioniero delle logiche di guerra, ed è comprensibile. Ormai da 40 anni il paese non conosce altro che il conflitto armato: sovietici, americani e alleati della Nato, lotte intestine, terrorismo…

Ma al contempo sta crescendo una nuova generazione che aspira a qualcosa di diverso, dal team di robotica composto esclusivamente da donne che ottiene grandi risultati alle giovani dottoresse e giornaliste che sono state uccise perché troppo “occidentalizzate”.

Fatima Gailani, una delle quattro negoziatrici afgane presenti a Doha per la trattativa con i taliban, ha lanciato un appello a questi ultimi dopo gli omicidi delle tre giornaliste. I taliban hanno negato di aver partecipato agli attentati, ma la negoziatrice ha chiesto che condannino la carneficina e contribuiscano a costruire un Afghanistan in cui i giovani istruiti abbiano un loro posto. Il problema è che i calcoli di alcuni e i dogmi di altri continuano a imporre una logica di guerra che impedisce di voltare pagina. L’Afghanistan non ha finito di contare i suoi morti.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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