05 gennaio 2016 14:54

Lo confesso, Steven Spielberg non mi è simpatico. Lo ritengo un regista eccessivamente opportunista, pronto a cogliere gli umori del grande pubblico, milioni di persone tra Stati Uniti e i paesi culturalmente satelliti tra cui l’Italia, e a dargli film sempre costosi e sempre imponenti, calcolati per incassare. Lo confesso, provo invece una grande simpatia per i fratelli Coen, uomini liberi che hanno, come si dice, un loro mondo e non hanno bisogno di saccheggiare quelli degli altri.

Il ponte delle spie

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Probabilmente i primi film di Spielberg, Duel e Sugarland express, gli unici che apprezzo insieme alle grandi favole fantascientifiche di E. T. e Incontri ravvicinati del terzo tipo, sono piaciuti molto ai giovani Coen. All’origine c’era il magistero dei film a basso o bassissimo costo e di genere, onorevole forma di spettacolo povero e popolare, che Spielberg (e Scorsese, Demme e tanti altri) apprese negli anni cinquanta alla scuola di Roger Corman, voltando poi rapidamente le spalle al maestro e buttandosi nello spettacolo miliardario. Duel e Sugarland express avrebbero potuto essere anche film dei Coen degli inizi, di un’inventiva e di una libertà che i due non hanno rinnegato.

Il cinema americano che evoca gli anni cinquanta s’ispira all’iconografia di Life, mai ai più duri film in bianco e nero

Ecco però che l’ultimo film di Spielberg Il ponte delle spie è stato scritto, insieme al giovane britannico Matt Charman, proprio dai fratelli Coen. E anche se nel soggetto e in alcuni rari momenti in cui il film sembra girare al grottesco si sente la loro visione del mondo – quella di Spielberg è debole e conformista, troppo segnata dall’ossessione del successo – lo stile, il modo di raccontare, è totalmente spielberghiano, abile e meccanico. Di non tradizionale ha solo la fotografia polverosa di Janusz Kaminski, tipica però di molto Spielberg (far vedere il pulviscolo negli interni, per esempio, anche se a occhio nudo non lo vediamo), ma non rinuncia mai alle scenografie imponenti e agli zuccherosi finali che glorificano l’uomo qualunque “all American” con cui il grande pubblico, quello statunitense e quello colonizzato dall’american way of life, possa identificarsi. Tra l’altro, è curioso come tutto il cinema americano che continua a evocare gli anni cinquanta e dintorni s’ispiri a Rockwell e all’iconografia pubblicitaria di Life o di Time e mai al duro cinema in bianco e nero dei Lang e degli Hathaway, dei Ray e dei Kubrick.

Un terzo nome ci viene in mente alla visione del Ponte delle spie, ed è quello di Kurt Vonnegut. Sono sicuro che i Coen hanno avuto bene in mente il suo Un pezzo da galera (1979), affrontando una vera storia di spie e controspie di anni ancora caldi della guerra fredda, quando il mondo era diviso in due e vigeva l’equilibrio del terrore. In quel romanzo, con la consueta intelligenza e libertà, Vonnegut evocò l’ambigua vicenda di Alger Hiss, emblematica delle contraddizioni statunitensi del tempo. E dovremmo anche ricordare i romanzi inglesi (formidabili per intelligenza politica e per la loro morale, ugualmente politica) di Graham Greene e di John Le Carré, che hanno esplorato come nessun altro “lo specchio delle spie” del secondo dopoguerra e, nel caso di Greene, anche di prima. Nel Ponte delle spie, proprio come in alcuni romanzi di Greene e Le Carré, il gioco è a tre e non a due: Stati Uniti, Unione Sovietica, e Repubblica Democratica Tedesca. Tra russi e tedeschi ci sono differenze di storia, di visioni, di interessi che la sceneggiatura mette bene in rilievo.

È assai probabile che i Coen conoscano quei libri, ma forse li conosce – o se li è fatti riassumere da uno script boy – anche Spielberg. Il discorso del Ponte delle spie dunque non è nuovo, e ancora di recente registi (quasi sempre britannici) ci hanno ricamato più o meno bene. Spielberg ne fa spettacolo, rubacchiando qua e là ma, grazie ai Coen, con un considerevole acume politico. E il film sta in piedi bene, nonostante certe lungaggini, dosando il racconto minuzioso della trattativa condotta dall’avvocato “qualunque” Tom Hanks (ex Forrest Gump, e né lui né Spielberg né il pubblico lo hanno dimenticato), in patria e nella Berlino della costruzione del muro, con forti momenti spettacolari appena il soggetto lo permette.

È una macchina narrativa efficiente sostenuta dall’importanza del tema: le spie sono mosse dal gusto del rischio o dall’avidità, ma molte anche dalla convinzione di poter servire in questo modo il loro paese e le ideologie che vi dominano. Fanno parte del grande gioco del confronto tra le nazioni, e il ponte che le divide è anche quello per cui si assomigliano tra loro così tanto. I Coen l’hanno capito e probabilmente volevano che altri lo capissero, mentre forse Spielberg pensa ad altro, e sempre alla stessa cosa. È la differenza che passa tra il concetto di regista-autore, convinto, e quello di regista-metteur en scène, retore, di buon mestiere e di ottimo fiuto.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it