20 ottobre 2016 17:40

Un’adolescente di tredici anni viene stuprata da un branco di sette giovani uomini per tre anni. Se la passano a turno, regista l’ex ragazzo di lei che la offre ora a un amico ora a un altro. Del branco fa parte il figlio di un noto mafioso, ma anche il fratello di un poliziotto in servizio a Milano. La ragazza subisce, in una condizione che il gip definirà “di recalcitrante rassegnazione”, per passività, per vergogna, per paura: è sotto ricatto, i sette la minacciano di mettere in rete le foto intime che le hanno scattato. Non parla, se non con una cugina che mantiene il segreto, ma ogni tanto scoppia a piangere e fa dei gesti autolesionisti, di cui nessuno sembra accorgersi. Finché a scuola non le danno un tema sui suoi genitori, lei finalmente mette nero su bianco che ce l’ha con loro perché non si sono mai accorti di quanto sta male, e lascia la brutta copia del tema sulla sua scrivania, dove la madre lo vede, lo legge e di nuovo chiude gli occhi: stavolta la figlia le racconta tutto “tranne i particolari”, ma lei si cuce la bocca, per paura del discredito in cui quella rivelazione può gettare la famiglia, o più banalmente per paura della famiglia mafiosa che quella rivelazione mette sotto accusa. Sono le insegnanti della ragazza, invece, a capire e a denunciare, e infine si muove anche il padre.

Accade a Melito Porto Salvo, pochi chilometri da Reggio Calabria, e la bomba scoppia poco meno di due mesi fa, quando, dopo un’inchiesta di più di un anno, i sette vengono arrestati e accusati di violenza sessuale di gruppo aggravata, atti persecutori, lesioni personali, favoreggiamento, detenzione di materiale pedopornografico e quant’altro. Il caso diventa mediatico: c’è l’orrore dei fatti, e c’è lo scandalo del silenzio di chi sapeva e ha taciuto. Il primo viene prima del secondo, ma il secondo fa più scandalo del primo; più che il branco fa notizia l’omertà, e l’omertà diventa l’atto d’accusa rivolto all’intera comunità. Il fatto, gravissimo senza dubbio, che alcuni – forse molti e comunque troppi, la madre in testa – sapessero e abbiano taciuto diventa nei titoli “tutti sapevano, nessuno ha parlato”. La fiaccolata in solidarietà della ragazza convocata a Melito da Libera e altre associazioni – 400 persone secondo alcuni, mille secondo altri su diecimila abitanti – da segnale positivo di una pur minoritaria reazione diventa prova provata d’indifferenza generalizzata, complici le avvilenti dichiarazioni del parroco (“purtroppo non è un caso isolato, c’è molta prostituzione in giro”, ergo la colpa non è dei maschi che violentano ma delle donne che si concedono) e di un altro sacerdote (“sono tutti vittime di questa società, anche i ragazzi”, ergo il contesto sociale è un’attenuante dei violentatori). Finché un’intervista televisiva di Tagadà a Stefania Gurnari, la madre di un bambino che dieci anni fa, sempre a Melito, fu colpito per sbaglio da un proiettile mafioso e anche allora nessuno vide e nessuno parlò, fa giustizia dello stereotipo: lei che da dieci anni parla e combatte e resta nel suo paese per cambiare le cose è lì in carne e ossa a dimostrare che non è vero che tutti tacciono, e che a Melito come ovunque nel mondo c’è chi subisce e c’è chi si solleva, chi si conforma e chi si ribella, ci sono i violenti e ci sono i giusti, e le giuste.

Venerdì mattina lo dirà la manifestazione contro la violenza che porterà in piazza istituzioni, centri femministi antiviolenza, scuole, università, sindacati: non a Melito Porto Salvo, com’era stato programmato all’inizio, ma a Reggio Calabria, uno spostamento di pochi chilometri voluto dalla magistratura a tutela della vittima e della correttezza del percorso processuale – decisione opinabile, che poco o nulla toglie all’esposizione mediatica della ragazza e molto invece all’effetto di sostegno a lei e a chi sta con lei che avrebbe avuto nelle strade in cui i fatti e i misfatti sono accaduti. Meritoriamente convocata dalla presidenza della regione, che l’ha accompagnata con impegni amministrativi concreti a favore dei centri antiviolenza e delle case-rifugio che in Calabria come altrove sono costantemente a rischio di chiusura, la manifestazione servirà a dire che in Calabria non c’è nessuna comunità omertosa per definizione, a dare alle istituzioni nazionali rappresentate dalla ministra Maria Elena Boschi, dalla presidente della camera e dalla presidente della commissione antimafia, l’occasione per battere un colpo, a inaugurare una campagna di comunicazione, informazione e formazione antiviolenza spalmata su tutta la società civile, a mostrare che, come scrive il blog suddegenere, il femminismo non si è mai fermato a Eboli. Servirà se non sarà solo una risposta di civiltà alle atrocità di Melito Porto Salvo, ma l’atto inaugurale di un percorso di autocoscienza capillare, maschile in primo luogo, che non diluisca le responsabilità nell’alibi dell’arretratezza sociale o culturale.

Un branco di maschi è un branco di maschi, a qualunque latitudine e di qualunque colore essi siano, abbiamo scritto lo scorso gennaio su queste pagine a proposito delle molestie sulle donne durante il capodanno di Colonia. Valeva allora contro la scusante – o l’aggravante, secondo i punti di vista – della specificità culturale degli immigrati, vale adesso contro la scusante o l’aggravante della cultura oppressiva e omertosa di Melito Porto Salvo, vale a Ravenna dove pochi giorni dopo i fatti di Melito una ragazza viene stuprata in una discoteca e le sue amiche filmano indifferenti la scena e la mandano su WhatsApp. La questione, prima che sociale, è maschile, a Melito come altrove. Il movente, lo sanno bene le amiche che con questo hanno a che fare quotidianamente nei centri antiviolenza, è sempre lo stesso, il tentativo violento di ridurre a cosa una donna e a possesso un rapporto. E se c’è una responsabilità di chi sa, la responsabilità prima resta di chi fa. Non è vero che gli stupratori sono anch’essi vittime di una società ostile, e non è neanche vero che nelle comunità che essi sfregiano sono tutti e tutte ugualmente responsabili.

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