05 maggio 2016 13:08

Cos’è. È un film di Roland Emmerich (Stargate, Independence day, Godzilla, 2012) che racconta la nascita del movimento di emancipazione del popolo lgbt alla fine degli anni sessanta al Greenwich village di New York, sancito dagli scontri con la polizia cominciati la notte del 27 giugno 1969 dopo una retata allo Stonewall Inn di Christopher street.

La storia è raccontata dal punto di vista di Danny (Jeremy Irvine), belloccio dell’Indiana in fuga dal padre, da un amore proibito e dall’omofobia dei contadini, che viene adottato da un gruppo di marchette di qualsiasi etnia, forma e gradazione di genere (dal ragazzetto in jeans alla trans in lungo), mentre cerca di trovare se stesso e iscriversi alla Columbia university. Si lega prima a Ray (Johnny Beauchamp) e poi al politicizzato Trevor (Jonathan Rhys Meyers), ma comincia soprattutto a fare esperienza di vita e a frequentare lo Stonewall, gestito dal violento Ed Murphy (Ron Perlman), che fa affari con i poliziotti corrotti e l’alta società viziosa.

Il film è scritto da Jon Robin Baitz e fotografato da Markus Förderer.

Stonewall

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Com’è. È un film di Emmerich, un regista che è passato alla storia per la capacità di schiacciare le sfumature con tale convinzione da produrre film catastrofico-avventurosi che sembrano della parabole al neon, e paradossalmente a modo loro funzionano. In questo caso abbiamo il protagonista inventato che porta lo spettatore che non sa nulla di Stonewall in un mondo torbido ma affascinante, ripreso e fotografato con l’intento di rimanere sempre pop ed emotivo, e allo stesso tempo lasciare perdere la verità esatta dei fatti e quel verismo degli ambienti che è tipico del cinema civile. Qui si racconta un fatto importante per il movimento lgbt e non solo, lo si fa con intenzione personale – Emmerich è una delle persone apertamente gay più in vista di Hollywood – militante, ma allo stesso tempo si trasforma tutto nel parco a tema di quello che è successo al Greenwich village in quei mesi. Non è il primo film su quei fatti né il migliore. È certamente il più mainstream.

Perché vederlo. Si dice spesso che la vera parità tra uomo e donna non ha a che fare con l’arrivo al vertice di una donna dal curriculum eccezionale, ma al contrario ci sarà parità quando al vertice arriverà una donna mediocre (così come ci sono tanti uomini mediocri ai vertici) che finalmente sarà trattata come un uomo. Allo stesso modo, Stonewall sancisce la normalità hollywoodiana del tema lgbt, perché lo tratta come una qualsiasi trama da filmino inconsistente. Si tratta ovviamente di una qualità di sponda, ma è comunque una qualità.

I protagonisti sono bianchi e rispettabili, mentre i non bianchi sono delle matte urlanti dalla battuta pronta

Perciò Stonewall si guarda con un livello di disimpegno che i film che si occupano di questi temi non conoscono, anche perché un racconto così sciatto e insieme rispettoso di storie gay forse non c’è mai stato. La faciloneria estetica finisce anche per dare corpo a un impianto meno retorico rispetto a tanti film civili brutti e sovraccarichi (Selma - La strada per la libertà, per citarne uno).

Johnny Beauchamp è molto convincente, e anche il protagonista Jeremy Irvine se la cava. Infine si vede una Manhattan marcia, oggi abbastanza inimmaginabile, che è sempre interessante. Se non si sa proprio niente della storia, Stonewall è un bignami accettabile.

Perché non vederlo. Nonostante tutta la buona volontà, Emmerich è sempre Emmerich. Così abbiamo canzoni diegetiche (diffuse da un juke box o da una radio) che i protagonisti ascoltano come fossero inni di quei momenti, uscite in realtà mesi o anni dopo i fatti. Molti eventi e personaggi sono stati piegati a un racconto più semplice e addomesticato rispetto alla verità storica, anche a costo di svarioni molto discutibili, a cominciare dall’idea per cui i protagonisti dei fatti sono bianchi e “rispettabili” nell’aspetto, mentre i non bianchi sono delle matte urlanti dalla battuta pronta. Anche la sceneggiatura ci mette del suo, perché le dinamiche tra i protagonisti faticano a uscire dalla dicotomia dramma/farsa.

Insomma, tutto si muove talmente tanto su binari dritti e oliati da non risultare credibile o emozionante. C’è poi il mistero degli scontri con la polizia, momento propriamente spettacolare del film e centrale nella vicenda, che Emmerich riprende male, senza energia, tanto che risulta una fase molle, molto meno vibrante del resto (già non proprio esplosivo). La sceneggiatura non è nemmeno sufficientemente delirante da far fare a questo film il giro completo del gusto, fino a diventare un cult come Showgirls.

Una battuta. Tutti finocchi qui. Una volta c’erano poeti e mafiosi, ora solo froci.

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