08 febbraio 2016 10:53

È l’anno di grazia 1984 e faccio il primo anno di liceo. L’inverno è una meraviglia, con tanta neve e tanto freddo. La temperatura dentro casa è più o meno la stessa di fuori, senza ovviamente la neve. Ogni volta che mia madre prepara il brodo, con un po’ di buona volontà in casa si potrebbe anche pattinare: sulle pareti in meno di tre ore si crea una sottile pellicola di ghiaccio. Ma abbiamo la fortuna di essere troppo poveri per avere i pattini, e comunque mamma non ci lascia mai camminare per casa con le scarpe.

Cresco a vista d’occhio e non ho più vestiti da mettere. In realtà, non ne ho mai avuti molti. E, a dirla tutta, anche se avessimo più soldi nei negozi non ci sarebbe comunque quasi nulla da comprare. Mio padre ha una vecchia giacca di pelle: mi sta grande, ma la indosso con entusiasmo. Dopotutto è la cosa più calda che abbiamo in casa, oltre al gatto.

L’impianto elettrico della stazione non funziona e mio padre se ne sta seduto con i suoi colleghi ferrovieri sul tetto per controllare con il binocolo i treni che arrivano. Ovviamente l’attività richiede un supplemento alla già abbondante razione di alcool abitualmente consumata dai ferrovieri del nostro condominio. Di conseguenza mio padre è in un permanente stato di torpore alcolico, e non sembra avere bisogno di altre fonti di calore. Io dormo nel letto con mia madre, apprezzando la visita di qualsiasi cugino o cugina di piccole dimensioni che possa contribuire al necessario apporto di calore durante la notte.

In classe sono strategicamente seduto all’ultimo banco, accanto a Laur. Lui è il più alto e io sono il più nero, ma funziona. L’appendiabiti è proprio alle nostre spalle e con tutti i giacconi di montone appesi sulle nostre teste non solo non sentiamo freddo ma, per qualche ora, possiamo anche appisolarci tranquilli nascosti dai cappotti.

La prima ora della giornata è la lezione di francese e all’insegnante piace leggere a voce alta. Rispondo presente e poi mi metto a sonnecchiare con il massimo impegno. In classe fa caldo e la professoressa legge in francese con grazia. Mi addormento sprofondato nei cappotti. Quello di Dana, la bellezza della classe, emana un profumo inebriante.

Fuori c’è la mia principessa bionda, perciò sono tutto felice. Corriamo come dei pazzi fino a farci girare la testa

È una bella giornata. Come sempre, Laur divide con me il pranzo portato da casa. E poi al chiosco della scuola vendono i biscotti con il cioccolato. Finalmente mi sento la pancia piena, cosa che non succede troppo spesso.

Al ritorno da scuola, per strada si stacca il cerotto con cui ho coperto il buco che ho nella scarpa e me ne torno a casa con i piedi bagnati e gelati. Mangio del pane tostato spalmato di margarina e poi me la svigno con le scarpe di mio padre, il quale comunque è ubriaco e dorme.

Intorno al nostro palazzo fervono i lavori per la costruzione di un’autostrada. Fuori c’è anche la mia principessa bionda, perciò sono tutto felice. Corriamo come dei pazzi fino a farci girare la testa e il mio amico Nuțu riesce a cadere in uno dei canali scoperti che si trovano in mezzo alla strada in costruzione. Nuțu è un presuntuoso e la madre è una specie di principessa sul pisello, così l’incidente provoca la felicità delle vocine perfide che mi ronzano nella testa.

Naturalmente tutti quanti, in un sorta di processione funebre, accompagniamo Nuțu a casa. Povero Nuțu, è riuscito a sprofondare completamente nella merda! E indossava pure una tuta da ginnastica nuova di zecca, con la felpa e il cappuccio bianchi.

Arriviamo a casa. Suoniamo alla porta. La madre di Nuțu ci apre, lo guarda, si prende uno spavento e gli sbatte la porta in faccia. Ci mette tre quattro secondi per riaprire la porta al figlio. Lo tratta come se fosse materiale radioattivo, guidandolo a distanza per farlo entrare in casa. Purtroppo non ci fa entrare a vedere il seguito. Mirela le chiede rispettosamente se lo prenderà a botte. La madre di Nuțu ci guarda con lo stesso sguardo che ha mia madre quando si trova di fronte mio padre ubriaco fradicio che se l’è fatta addosso. Così decido di andarmene a passo spedito.

Torno a casa felice e mi metto a raccontare l’accaduto a mia madre. È troppo stanca e parecchio indaffarata per capire quello che le dico schiamazzando. Stranamente abbiamo l’acqua calda e i termosifoni sono tiepidi. Mamma ha fatto la torta di mele e la casa profuma come nelle favole.

Questo è stato probabilmente il più bel giorno del 1984.

Nelle ultime settimane sento che sto girando come una trottola. Ho capito che, nonostante mi stia dedicando a oltranza al lavoro e desideri fare quante più cose buone possibili, il terreno è pieno di buche scoperte. E che prima o poi molto probabilmente sperimenterò sulla mia pelle la sensazione che deve aver provato Nuțu quando è atterrato nella merda.

(Traduzione di Mihaela Topala)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano romeno Dilema Veche.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it