09 ottobre 2014 18:15

*Operatori sanitari a Freetown, in Sierra Leone, il 7 ottobre 2014. (Florian Placheur, Afp) *

Ecco due aspetti positivi del virus dell’ebola. Primo: difficilmente potrà mutare in una forma in grado di diffondersi per via aerea, come hanno fatto altri virus in passato. Secondo: le persone che hanno contratto l’ebola non sono contagiose durante il periodo dell’incubazione (tra 2 e 21 giorni). Solo quando sviluppano sintomi identificabili, soprattutto la febbre, possono infettare gli altri, e il contagio avviene esclusivamente attraverso il trasferimento di fluidi corporei.

Ed ecco tre aspetti negativi. Primo: per “fluidi corporei” in questo caso si intende anche una microscopica goccia di sudore, e il minimo contatto può essere sufficiente a trasmettere il virus. Secondo: il tasso di mortalità tra le persone contagiate è del 70 per cento. Terzo: di recente il centro per il controllo delle malattie del governo statunitense ha dichiarato che entro gennaio i casi potrebbero essere 1,4 milioni.

Considerando che oggi il numero di casi conclamati è di appena 7.500, questa previsione suggerisce che il numero di contagi stia raddoppiando ogni settimana. È quella che si definisce crescita esponenziale: non 1, 2, 3, 4, 5, 6 ma 1, 2, 4, 8, 16, 32. Se posizionate un chicco di grano sulla prima casella di una scacchiera, due sulla seconda, quattro sulla terza e via di seguito, il grano di tutto il mondo finirebbe prima di arrivare all’ultima casella, la sessantaquattresima.

La crescita esponenziale finisce sempre per rallentare, il problema è quando. Un vaccino potrebbe rallentarla. Il gigante farmaceutico britannico GlaxoSmithKline ne sta già sviluppando uno, ma è ancora alla fase iniziale della sperimentazione. I ricercatori lo stanno testando su alcuni volontari per verificare eventuali effetti collaterali.

Se non ce ne saranno di particolarmente gravi, il vaccino sarà somministrato agli operatori sanitari in Africa occidentale. Un processo che normalmente dura anni è accelerato al massimo e migliaia di dosi del vaccino (destinate agli operatori sanitari) sono già in fase di produzione. Tuttavia prima della fine dell’anno non sarà possibile verificare se il vaccino garantisce o meno un sufficiente grado di protezione dal virus.

Se tutto andrà per il verso giusto bisognerà produrre milioni di dosi e distribuirle tra la popolazione dei paesi dove l’ebola è già un’epidemia (Liberia, Sierra Leone e Guinea), o addirittura decine di milioni di dosi se la malattia si sarà già diffusa in paesi più popolosi come la Costa d’Avorio, il Ghana o peggio ancora la Nigeria, che ha 175 milioni di abitanti.

Fino a quando un vaccino non sarà disponibile in grandi quantità, l’unico modo di fermare il contagio esponenziale nei paesi colpiti è isolare le vittime, un compito particolarmente difficile in aree rurali con pochissime strutture mediche. In Liberia vivono 4,2 milioni di persone, ma all’inizio dell’emergenza c’erano solo 51 dottori e 978 infermiere e levatrici, e da allora molti sono morti o hanno lasciato il paese.

Non è necessario trovare e isolare tutte le persone contagiate per interrompere la crescita esponenziale. Isolarne il 75 per cento appena diventano contagiose basterebbe a ridurre drasticamente la diffusione del virus. Ma in questo momento, nei tre paesi più colpiti, solo il 18 per cento dei malati si trova nei centri di cura (dove naturalmente la maggior parte di loro morirà).

L’azione più importante intrapresa finora è stata l’invio di tremila soldati statunitensi in Liberia con l’obiettivo di costruire 17 grandi ospedali da campo e istruire cinquecento infermiere. Il Regno Unito ha deciso di inviare duecento nuovi letti d’ospedale in Sierra Leone, e nei prossimi mesi ne arriveranno altri cinquecento. Cuba ha inviato 165 operatori sanitari, la Cina ne ha mandati sessanta e la Francia ha messo a disposizione diverse equipe per aiutare la Guinea.

Fatta eccezione per l’intervento statunitense in Liberia, però, tutte queste iniziative sono clamorosamente inadeguate. A nove mesi dalla conferma del primo caso di ebola, in Guinea, stiamo continuando ad agire senza successo. Perché? I paesi sviluppati non rischiano forse anch’essi se il virus continuerà a diffondersi?

A quanto pare i loro governi pensano di no. Di sicuro sono convinti che anche senza un vaccino i sistemi sanitari occidentali riuscirebbero a isolare rapidamente gli infetti e a scongiurare un’epidemia. Per questo motivo considerano l’aiuto minimo che stanno inviando in Africa occidentale un atto di carità e non qualcosa di vitale importanza. Probabilmente hanno ragione, ma potrebbero anche sbagliarsi.

“Sono più preoccupato per tutti gli indiani che lavorano nel commercio o nell’industria in Africa occidentale”, ha dichiarato in un’intervista a Der Spiegel il professor Peter Piot, l’uomo che per primo ha identificato il virus dell’ebola nel 1976. “Basterebbe che uno di loro fosse contagiato e tornasse in India durante l’incubazione per visitare i parenti e, una volta che si presentano i sintomi, si recasse in un ospedale pubblico”.

“In India medici e infermieri non indossano guanti protettivi. Sarebbero contagiati immediatamente e diffonderebbero il virus”. A quel punto avremmo un’epidemia di ebola in un paese con più di un miliardo di abitanti, di cui svariati milioni viaggiano all’estero ogni anno. A quel punto qualsiasi speranza di confinare la malattia in Africa e combatterla fino quasi a debellarla, come abbiamo fatto nelle precedenti epidemie, sarebbe perduta.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it