31 dicembre 2016 12:14

“Guarda quella montagna laggiù”, mi dice Peter. “È il monte Greylock, guardalo bene”. Me lo ripeterà più volte. Il Greylock, alto poco più di mille metri, si staglia in lontananza dietro gli alberi che delimitano la tenuta dove siamo appena arrivati: Arrowhead, la casa di Herman Melville.

La vista dalla strada fra New York e Pittsfield, nella parte del Massachusetts più lontana dal mare, non dev’essere molto diversa da quella che si presentava a Melville e a sua moglie Lizzie quando, nel 1850, fecero lo stesso percorso. Fatto oggi, tra quei boschi innevati, è uno di quei viaggi che danno un qualche significato in più all’espressione “America profonda”. Ho provato invano a resistere alla tentazione di spiare su internet come sono andate le elezioni nel Berkshires: a Trump è andato il 26 per cento dei voti. A pensar male si fa peccato. L’atmosfera sonnacchiosa della zona è quella di un luogo che pare aspettare i villeggianti primaverili ed estivi per ravvivarsi, ma che, allo stesso tempo, di quei villeggianti farebbe volentieri a meno.

Quando decise di trasferirsi a Pittsfield, Melville conosceva già la zona. Da ragazzino ci aveva trascorso le vacanze più volte, a casa degli zii. Nel 1838 aveva insegnato per qualche tempo in una scuola locale e lì si era rifugiato con la famiglia per sottrarsi all’epidemia di tifo che stava colpendo New York. Ma c’era anche un’altra ragione per cui Melville aveva deciso di trasferirsi lì: da quelle parti abitava anche Nathaniel Hawthorne, che aveva già pubblicato La lettera scarlatta, con il quale Melville aveva un’intesa fuori dal comune.

Quando arrivò a Pittsfield, Melville aveva scritto cinque romanzi, ispirati per lo più alle sue rocambolesche esperienze da marinaio (e bisessuale, tratto su cui i suoi biografi tendono a concordare). I primi due – Typee e Omoo – erano stati best seller, mentre gli altri tre avevano avuto un successo scemante. Per la sua carriera, il sesto libro sarebbe stato decisivo. A lui sarebbe andata male. A noi no: quel sesto libro sarebbe stato Moby Dick.

Il giorno prima
In autunno e in inverno Arrowhead è chiusa al pubblico. È servito un messaggio con il cappello in mano perché uno dei volontari che la custodiscono si offrisse di accompagnarmi a visitarla lo stesso. È Peter, un signore sulla sessantina nato e vissuto a New York prima di lasciarla per Pittsfield, proprio come Melville. In auto mi racconta che, ogni volta che aveva un colloquio di lavoro, si metteva sotto la camicia una maglietta con scritto “I would prefer not to”, preferirei di no. Nel piccolo e rimediato negozio all’ingresso della casa c’è anche un’altra maglietta: “What would Queequeg do?”.

Il giorno prima della visita ad Arrowhead, il personale della locale biblioteca pubblica mi permette di trascorrere un po’ di tempo nella Herman Melville memorial room, dove sono esposti libri, lettere, manoscritti, ritratti e fotografie di Melville. C’è anche un disegno di com’era ai tempi dello scrittore la piazza – oggi più che altro una rotonda trafficata – dove si affaccia quella biblioteca, Park square. In mezzo c’era un albero che era stato colpito da un fulmine che, senza ucciderlo, lo aveva smembrato verticalmente. Melville attraversava regolarmente quella piazza, ed è così che scrisse della cicatrice che attraversa il volto di Achab: “Somigliava alla cicatrice perpendicolare prodotta a volte nel tronco alto e dritto di un grande albero, quando il fulmine vi guizza sopra lacerante, e senza svellere un solo rametto spella e scava la corteccia da cima a fondo prima di scaricarsi per terra, lasciandolo vivo e verde ma segnato”. Al posto di quell’albero, oggi c’è una piccola targa.

Dopo un hamburger in un diner da America profonda e un film in un multisala dove sono l’unico spettatore, trascorro la notte in una grande ed economica casa in legno trovata su Airbnb. La proprietaria mi ha lasciato sul tavolo della cucina una letterina prestampata in cui mi dice che, scegliendo casa sua, la sto aiutando a pagarsi il corso da massaggiatrice. Non la incontrerò.

A Pittsfield i Melville abitavano a casa dei loro parenti. Ma Melville voleva una casa tutta per loro

La mattina, Peter si offre di passare a prendermi in città e accompagnarmi con la sua macchina ad Arrowhead, una decina di chilometri fuori. C’inoltriamo nei boschi, dove della neve del giorno precedente rimane solo qualche chiazza. Durante il tragitto mi emoziona infantilmente pensare che la persona seduta accanto a me ha in tasca la chiave della casa dove Herman Melville scrisse Moby Dick.

Quel Moby Dick che da piccolo avevo letto e riletto in una versione per bambini, da cui John Huston trasse il film con Gregory Peck che avevo visto tante volte, e che ha ossessionato e ossessiona me e altri lettori proprio come la balena bianca ossessionerà per sempre il capitano Achab.

Essere ossessionati dalle ossessioni, per così dire, può avere come effetto collaterale un numero non trascurabile di ore di pullman per poter guardare attraverso la finestra di fronte alla scrivania dov’è stato scritto quel libro. “È il monte Greylock, guardalo bene”.

Dentro la casa
Arriviamo. La casa è in legno, due piani, non molto grande, rettangolare, con un camino in mezzo, dall’architettura piuttosto spartana e dotata di una rimessa rossa nel retro. È stata costruita nel 1780. Non appare molto diversa dalle altre della zona, se non fosse per il colore con cui è stata dipinta. Mi spiega Peter che fu proprio Melville, che non amava l’idea di abitare in una casa biancastra, a creare quel tipo di giallo, tutt’oggi noto come “Melville gold”. Ma, mentre Peter me ne parla, è l’isolata montagna in lontananza alle sue spalle ad attirare la mia attenzione. “È il monte Greylock, guardalo bene”.

Quando si trasferirono a Pittsfield, i Melville abitarono dai loro parenti. Ma lui voleva una casa tutta per loro. È per questo che un giorno, all’improvviso, comprò quella tenuta. Fu un acquisto impulsivo: in realtà non poteva permetterselo, e poté firmare il contratto solo grazie all’aiuto del suocero e a una serie di prestiti che non sarebbe mai riuscito a onorare. Appena traslocato, Melville volle cambiare nome alla proprietà. Prese spunto dalle tante punte di frecce indiane che trovò arando il campo di fronte alla casa: chiamò la tenuta Arrowhead, ed è così che si chiama ancora.

La strada che vi passa di fronte è una strada secondaria e poco frequentata. I conducenti delle poche auto non sembrano curarsi molto del cartello in legno con una balena bianca che segnala Arrowhead. Ma, ai tempi di Melville, quella era la strada principale per Pittsfield, e di carrozze e cavalli non dovevano passarne pochi. Quello di Arrowhead era un isolamento relativo, insomma. E questo vale anche per la vita domestica: Melville viveva con una decina di familiari, e visti gli spazi non ci doveva essere molta riservatezza. La sua camera da letto era un passaggio obbligato per raggiungere quelle dei figli, della madre di Lizzie e quelle delle sue sorelle, Augusta ed Helen. La confusione non mancava. Nei suoi piani, lo scrittore avrebbe voluto costruire lì una nuova casa con una torretta, ma non ebbe mai i mezzi finanziari per realizzarli. In ogni caso, in tutto quel viavai, poteva contare su uno spazio tutto per lui: lo studio, al centro del primo piano.

Gli occhiali da lettura di Herman Melville nella sua casa a Pittsfield, Massachusetts, 2006. (Michael Christopher Brown, Magnum/Contrasto)

Melville aveva cominciato a pensare a Moby Dick nel 1849. In quello stesso anno, aveva attraversato l’oceano sulla nave Southampton. A un certo punto del viaggio, si accorse di “un uomo in mare, con la testa sotto le onde” e gli lanciò una corda. L’uomo in mare la rifiutò, come rifiutò l’aiuto degli altri marinai. Si allontanò dalla nave, poi di lui rimasero solo delle bolle. Melville scrisse nel suo diario: “Mi colpì l’espressione del suo volto. Era allegra”. Nel romanzo che stava cominciando a immaginare, di volti che sparivano fra le onde ce ne sarebbero stati molti, ma nessuno sarebbe sembrato allegro.

Durante quel viaggio, il 13 novembre, a Londra, Melville assistette all’esecuzione pubblica di due persone. Oltre a lui, nel pubblico di fronte al patibolo c’era anche Charles Dickens, ma l’uno non sapeva della presenza dell’altro. Al ritorno a New York, Melville cominciò a pensare al trasferimento a Pittsfield. Quando prese possesso di Arrowhead, aveva già in testa molto del vasto sapere che avrebbe riversato nel suo romanzo: sapeva tutto di navigazione e di balene, si era ben informato sul naufragio della nave Essex, conosceva la storia della balena albina Mocha Dick, aveva riletto tutto Shakespeare, aveva ben impressi in mente i quadri di Turner ed era preoccupato quanto bastava per immaginare lo stato d’animo che spinge Ishmael a imbarcarsi: “Ogni volta nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso”.

Appena sveglio, Melville andava a dar da mangiare al cavallo e alla mucca, per la quale raccoglieva e spezzettava una zucca raccolta dal campo. Poi tagliava la legna. Il lavoro agricolo nel grande campo sotto casa era importante, visto che per Melville la scrittura non fu mai una reale fonte di guadagno. Dopo qualche ora, saliva nel suo studio e si metteva a scrivere, fino a metà pomeriggio. Copriva la serratura della porta con un panno per non essere spiato. Ai suoi familiari non permetteva di disturbarlo. Il pranzo dovevano lasciarglielo in un vassoio di fronte alla porta. Lo avrebbe mangiato su una piccola scrivania diversa da quella, intoccabile, su cui scriveva.

Venti polari e uccelli rapaci
Nelle sue sessioni di scrittura, la prima cosa che Melville faceva era rileggere quello che una delle due sorelle aveva trascritto per lui la sera prima. Chiedeva loro di copiare in una grafia più chiara le parole, ma non la punteggiatura: quella l’avrebbe aggiunta lui. Scrisse il romanzo in un impeto per lui inusuale, e doveva spesso andare in una fabbrica della vicina cittadina di Lee a comprare più carta. Lizzie raccontava che dopo le ore passate a lavorare a Moby Dick scendeva di sotto “in una sorta di stato allucinato”.

Melville consegnò all’editore il manoscritto nel luglio del 1851, un anno dopo essere arrivato ad Arrowhead. Nel settembre del 1851, quando l’editore stava per stampare il libro, Melville scrisse all’amica (amante, secondo lo studioso Michael Shelden) Sarah Morewood: “Quando uscirà non lo comprare, non lo leggere. Attraverso il libro soffia un vento polare e uccelli rapaci vi volteggiano sopra”. Ad Arrowhead, i libri divennero due: alla storia di un ragazzo che va per mare per scacciare la propria malinconia si aggiunse quella di un capitano ossessionato e votato tanto al titanismo quanto all’estinzione.

In autunno Moby Dick venne stampato e il 18 dicembre di quello stesso anno ne arrivò qualche copia anche nella piccola libreria di Pittsfield. Melville ne portò una copia a Hawthorne: è a lui che lo aveva dedicato.

Andò male. Di Moby Dick non si vendettero nemmeno tutte le tremila copie della prima tiratura. Quando, nel dicembre del 1853, quelle invendute bruciarono nell’incendio del magazzino della casa editrice, a nessuno importò un granché. Il Pequod traghettò Melville verso l’oblio. Non solo: dopo qualche anno, il figlio maggiore si sarebbe suicidato e il secondo sarebbe morto di tubercolosi. Quella di Herman Melville è una biografia triste.

Nella primavera del 1853, mentre gli alberi attorno alla casa di Arrowhead ricominciavano a prendere colore, Melville era ormai dimenticato da lettori ed editori. I critici continuavano a ridicolizzare i suoi ultimi lavori, la sua situazione finanziaria continuava a essere disastrosa, l’amico Hawthorne se n’era andato dal Berkshires, la depressione era incombente e i rapporti con i familiari pessimi. In un tale disastro, cosa resta da fare? Scrivere un capolavoro come Bartleby lo scrivano.

La forza politica di Melville
La potenza dei significati politici ed esistenziali nelle opere di Melville è ancora dirompente. Non è un caso che, a commento dell’undici settembre e di quello che sarebbe seguito, siano stati in così tanti ad averlo evocato, insieme ad Achab. Ma le letture politiche di Melville risalgono ad ancora prima. C’è chi scrisse che il bianco della balena lo avremmo visto nell’immagine del fungo atomico a Hiroshima e a Nagasaki. Nelle pagine di Sulla rivoluzione, Hannah Arendt ha indicato Melville come un profeta che ci aveva avvertiti dell’avvento dei totalitarismi.

Per molti, la monomania ossessiva di Achab si sarebbe reincarnata in quella di Hitler per gli ebrei, ma anche in quella di George W. Bush per Osama bin Laden e per Saddam Hussein. Un paio di giorni dopo l’attentato al World trade center, Edward Said scrisse sull’Observer che le emozioni poco lucide che si stavano concentrando sulla figura di Bin Laden avrebbero senz’altro portato a una guerra simile alla caccia di Achab a Moby Dick. Da Achab avremmo dovuto imparare che, in simili battaglie contro il male, si finisce per diventare il riflesso di ciò che si odia. E invece, come lui, rimaniamo in balia della nostra incapacità di capire il significato della nostra sofferenza e di quella del mondo. A poco serve proiettare tutto quel male in una balena bianca, ognuno ha la sua.

Dopo aver visitato la sala – con il camino a cui Melville avrebbe dedicato il racconto Io e il mio camino – e la trafficata camera da letto, arriva finalmente il momento di passare nello studio. Mentre lo stiamo per fare, Peter mi dice che “il pavimento in legno è quello originale”: agli scricchiolii provocati dai miei passi presto subito un’attenzione diversa.

La scrivania è posizionata di fronte a una finestra. Dopo avermi spiegato la storia del mobilio conservato e della piccola camera da letto che lo scrittore aveva allestito esclusivamente – e ossessivamente – per le visite di Hawthorne, Peter mi dice di nuovo del monte Greylock, e mi suggerisce di osservarlo dalla posizione esatta da cui lo osservava lo scrittore quando era alla scrivania. Eseguo senza troppe domande. Nel prepararmi per il viaggio avevo letto che quel monte era servito da ispirazione per il libro, ma sapevo anche che, al momento di arrivare ad Arrowhead, probabilmente Melville aveva già in testa buona parte del romanzo: quella della montagna mi era sembrata una trovata buona per la brochure turistica trovata nella desolata stazione locale dei bus. Mi sbagliavo.

“Guarda il Greylock”, mi ripete ancora Peter. Lo accontento. E mi viene da deglutire.

Oltre il campo non più coltivato di Arrowhead e oltre il bosco, mi accorgo che il profilo della montagna, con la sua doppia cima innevata e la nebbia ai suoi piedi, è una balena bianca che sorge dalla schiuma del mare. “La vedi?”, mi chiede Peter. Deglutisco ancora.

Quello che aveva scritto Hawthorne in una lettera appare subito sotto un’altra luce: Melville stava sempre da solo “a dare forma alla gigante concezione della sua balena bianca, mentre la forma gigante del monte Greylock incombe su di lui dalla finestra del suo studio”. Melville stesso aveva scritto in una lettera che a guardare il campo di casa sua dalla finestra dello studio gli pareva di guardare fuori “dall’oblò di una nave in mezzo all’Atlantico”, con “una specie di sentimento di mare qui in campagna”.

Rispondo a Peter che sì, la vedo. A ognuno la sua balena bianca.

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