27 giugno 2014 12:01

(Retronaut)

Ero ancora tutto felice per aver trovato quella parola giapponese, tsundoku, il vizio di accatastare più libri di quanti sia umanamente possibile leggere, ed ecco che già ne scopro un’altra non meno bella: autobibliografia, ossia la storia di una vita raccontata attraverso i libri che l’hanno segnata e accompagnata. Genere pericoloso per un bibliomane, sulla cui testa incombe lo spettro di una rivelazione terrificante: che l’autobibliografia non sia poi così diversa dall’autobiografia, e che gli incontri con parallelepipedi di carta siano stati tutto sommato più importanti di quelli con gli esseri in carne e ossa, ancorché rilegati in pelle.

Ho trovato questa parola sul risvolto di copertina di un libro pubblicato in questi giorni da Adelphi, I libri nella mia vita di Henry Miller, e mi sono immerso nella lettura. Dopo due pagine ho avuto il primo brivido.

Miller esordisce dicendo che dobbiamo passare meno tempo con i libri: “Chi cerca la conoscenza o la saggezza, farebbe meglio ad andare direttamente alla fonte. E la fonte non è il dotto o il filosofo, né il maestro, il santo, o l’insegnante, ma la vita stessa - la diretta esperienza della vita”. Pare semplice, poi però aggiunge: “Quando dico vita, penso naturalmente a qualcosa di diverso da quello che intendiamo oggi. Penso alla vita di cui parla D.H. Lawrence in Luoghi etruschi”. Nota a piè di pagina: “1. Etruscan Places, Martin Secker, London, 1932. Vedi le pagine 88-93”.

Vediamo se ho capito bene: non bisogna leggere troppo, bisogna uscire all’aria aperta e vivere; ma per capire cosa s’intende per vivere bisogna prima di tutto andare nella più vicina biblioteca e cercare un libro del 1932. Non se ne esce. La via di fuga dal labirinto di carta è lastricata di carta. Ora, senz’altro Miller ha molto vissuto, e un maligno dirà che avrebbe fatto bene a vivere persino di più alleggerendo di qualche libbra Sexus, Plexus e Nexus. Ma per altri questo circolo vizioso - inseguire la vita leggendo libri sulla vita - può essere fatale. Come spezzare il perverso legame tra letteratura e impotenza a vivere? Mollare tutto e andare a trafficare armi in Abissinia, come Arthur Rimbaud?

Forse il self-help per Bibliomani Anonimi non basta, meglio tentare con la psicoanalisi. Io per esempio sto creando una nuova pila di libri, che comincia così:

Edmund Bergler, The Writer and Psychoanalysis (Doubleday 1950)

Pochi si ricordano di questo psicoanalista austroamericano che sapeva scegliersi temi magnifici (lo scoprii per un libro sul gioco d’azzardo, The Psychology of Gambling, Hill & Wang 1957). Qui Bergler parla del blocco dello scrittore davanti alla pagina bianca: “Il poveruomo tempera la matita per prendere appunti, poi trova che la punta non è ancora abbastanza acuta; la macchina da scrivere lo fissa con un’espressione di rimprovero; semplicemente non è dell’umore giusto, ma lo sarà domani (salvo che quel domani non arriva mai); prova una leggera nausea e deve prima curare il suo stomaco turbato; vorrebbe bere qualcosa, ma un bicchiere tira l’altro, e più bicchieri lo rendono sonnolento; indulge in fantasie di grandezza, si compiace di traguardi mai raggiunti, e alla fine di tutto questo attorcigliarsi e rigirarsi sente solo una profonda depressione”. Sostituite la macchina da scrivere con il computer, la matita da temperare con la posta da controllare, aggiungete alcune ore di social network, e ne viene un ritratto piuttosto familiare, non vi pare? Peraltro, è una descrizione molto simile a quella che Evagrio Pontico dava del monaco accidioso che legge svogliatamente i testi sacri, negli Otto spiriti della malvagità. Le teorie di Bergler non vi guariranno da nulla; ma partono da una premessa che, vera o falsa, mi pare magnifica: che ogni opera letteraria sia un’arringa che lo scrittore prepara davanti a un oscuro tribunale interiore.

Henri Sztulman, Jacques Fénelon, La curiosité en psychanalyse (Privat 1981)

“La curiosità non è un concetto psicoanalitico”, annunciano i curatori di questo volume che nasce da un convegno tenuto a Bordeaux. E in effetti nelle mie pigre ricerche ho trovato solo un altro libro interamente dedicato al tema, che però non mi sento di raccomandare (Roger Dorey, Le désir de savoir, Denoël 1988). Volete davvero scoperchiare il vaso di Pandora e sapere cosa vi spinge a leggere e accumulare libri? Preparatevi a fare i conti con Freud e le teorie sessuali infantili, voyeurismo e sadismo, gorgoni decapitate, la camera da letto dei genitori, i sogni d’autopsia, Barbablù, Leonardo da Vinci, il Mistero della camera gialla di Gaston Leroux, la Kabbalah. Non c’è una sola ipotesi che sia del tutto persuasiva, e in più la bibliomania può uscirne solo aggravata. Io per esempio sono stato costretto a ordinare di corsa un romanzo di Louis-René des Forêts che si chiama La chambre des enfants (Gallimard 1960).

Francesco Attena, Psicopatologia della carriera universitaria (Philos 1995)

Dopo lo scrittore e il lettore, il professore. Attena, docente di medicina a Napoli, compose vent’anni fa un trattatello scientifico-umoristico sui disturbi della personalità indotti dalla vita accademica. La psicopatologia universitaria era affrontata rigorosamente in alcune sezioni (Quadri clinici, Etiopatogenesi, Diagnosi, I deliri accademici, Terapia e prevenzione), dove era possibile trovare risposta a domande davvero cruciali. Per esempio: perché alcuni professori a un certo punto della carriera cominciano a indossare i sandali? Il narcisismo professorale e le altre patologie si possono curare con il semplice elettroshock o bisogna chiamare in causa le teorie psicoanalitiche di Alfred Adler sul nesso tra complesso d’inferiorità e volontà di potenza? E come si spiega quella tipologia di delirio accademico che Attena chiama “delirio bellico”, ossia la faida tra scuole rivali? Il caso vuole che proprio in questi giorni l’editore Solfanelli pubblichi un libro di Filippo Di Forti che si chiama Immaginario della coppola storta. Approccio psicoanalitico alla mafia. Non so se riuscirò a leggerlo a ridosso del trattatello di Attena. Non vorrei imbattermi in qualche vaga analogia.

Guido Vitiello insegna alla Sapienza di Roma. Oltre che con Internazionale, collabora con il Corriere della Sera, il Foglio e il Sole24Ore. Ha un sito: UnPopperUno

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