04 ottobre 2016 17:30

Se c’è un tema da affrontare, quando si parla di crisi dell’Europa, è quello che riguarda i giovani. La generazione che si affaccia adesso al mondo del lavoro, infatti, si trova in una situazione di innegabile difficoltà, tra mancanza di occupazione e crisi delle prospettive. Ne parlano a Ferrara il sociologo Ilvo Diamanti e la ricercatrice Virginia Maestri, intervistati da Eric Jozsef di Libération e James Politi del Financial Times.

Sebbene ci sia generale accordo nel constatare che la situazione odierna dei giovani non sia idilliaca, c’è qualche disaccordo sulle cause e, soprattutto, sulle responsabilità: non troppo tempo fa alcuni esponenti politici hanno chiamato i giovani “bamboccioni”, mentre altri giustificano la loro immobilità sociale con la crisi, o con il fallimento della generazione precedente. Eric Jozsef quindi chiede agli ospiti quale sia la realtà dei fatti.
Diamanti prende la parola e afferma che in Europa quella giovanile è una questione perché «la vecchia Europa è vecchia», e l’Italia in questo campo ha certamente il primato. Inoltre, gli italiani sotto i trent’anni stanno lasciando il paese in massa: 100.000 all’anno secondo gli ultimi dati, ed è una cifra certamente sottostimata. «Quando io ero giovane, i giovani erano una metafora del futuro; e dov’è il futuro adesso? Alle nostre spalle», chiosa. Maestrisi addentra nell’argomento proponendo delle dovute distinzioni tra nord e sud Europa, che non vivono la stessa situazione per quanto riguarda le politiche giovanili. Nel sud dell’Europa la disoccupazione tocca livelli drammatici, ma ancora più sconfortante è il dato sull’inattività: «un italiano su quattro non studia, non ha lavoro e non lo cerca nemmeno», e questo è preoccupante in quanto testimonia una completa mancanza di partecipazione alla vita della società. «Il fatto che i giovani si spostino all’estero, di per sé, è positivo», continua; «il problema non è l’andare, quanto il non poter tornare».

James Politi si riallaccia al problema dell’ansia che colpisce le nuove generazioni per parlare di un grande assente dal dibattito degli ultimi decenni: lo scontro generazionale. Se questa generazione di figli è già consapevole di non poter raggiungere la ricchezza dei padri, ci dobbiamo aspettare che ad un certo punto faccia scoppiare questo conflitto? Diamanti, per rispondere, riporta alcuni dati di sondaggi da lui commissionati il cui scopo era scoprire fino a che età ci si sente ‘giovani’, e quando ‘vecchi’. Dai sondaggi è emerso che ci si sente giovani anche fino a 50 anni, e vecchi ad 84. «Quando è dunque che ci si sente veramente adulti? Tra i 50 e gli 84? Prima la maturità era un’età cercata, un obiettivo, mentre adesso si è perso il valore dell’invecchiare; una società che si sente sempre giovane non si pone il problema dell’innovazione». Il sociologo continua poi affermando che l’unico vero esempio di conflitto generazionale in atto nel nostro presente è quello portato dai terroristi europei, tendenzialmente immigrati di seconda generazione, che appartengono alla classe media, e che oppongono la religione della jihad a quella “normalizzata” dei genitori. Al contrario, i giovani italiani non sentono il bisogno di svincolarsi perché la famiglia è rimasta l’unica vera istituzione, da cui dipendono ancora completamente; d’altro canto, i genitori non sentono nessun bisogno di lasciar andare i figli perché sono in preda alla «paura di ritrovarsi vecchi e soli»: «come fa ad esserci conflitto generazionale se manca una generazione?». Virginia Maestri aggiunge che questa situazione di stallo, in cui i figli sembrano appoggiarsi indefinitamente ai genitori, funziona adesso ma non funzionerà per sempre, perché «noi non avremo case o capitali da lasciare ai nostri figli per tamponare la situazione».

Eric Joszef propone quindi un’ultima questione riguardo al “momento di cambio di rotta”: quand’è che la tendenza al raggiungimento di un maggiore benessere, all’autonomia e all’emancipazione economica ed ideologica verso la generazione precedente si è trasformata nel suo contrario? «Se si vanno a rileggere alcuni vecchi sondaggi degli anni ’50 si possono trovare delle cose incredibili», risponde Diamanti, «tra cui una spiccata domanda di autonomia, in un’epoca di cambiamenti, da parte di una generazione che era stufa di replicare il modello di famiglia patriarcale proposto per secoli dalle generazioni precedenti».
Il bisogno di distacco è aumentato progressivamente fino a sfociare nelle proteste del Sessantotto, per poi tornare bruscamente indietro per la generazione nata negli anni ’70 ed ’80. «In un mio libro, ho chiamato i giovani cresciuti negli anni ’90 “La generazione invisibile”: per la prima volta, infatti, i giovani erano aspecifici, non avevano valori diversi dai loro genitori ma erano esattamente uguali a loro»; «molti giovani, ancora oggi, preferiscono andarsene dall’Italia piuttosto che accendere questo conflitto», conclude. Maestri ribatte infine che i responsabili di questa aspecifità non sono i giovani presi in esame, ma piuttosto quelli venuti prima di loro, che hanno lasciato il mondo in determinate condizioni ed evitano il conflitto con la scusa che sono stati loro a fare il Sessantotto: «c’è bisogno di un’inversione di prospettiva da parte della generazione che ci ha preceduto, e che adesso deve decidersi a rinunciare a qualcosa».
Alice Marsili

pubblicità

Iscriviti alla newsletter

Riceverai per email le novità su ospiti, workshop e incontri del festival.

Iscriviti