01 ottobre 2017 12:56

“Mosul è oggi come una scultura d’argilla interamente distrutta da mani enormi”. Così Ghaith Abdul-Ahad (The Guardian) descrive quello che rimane della città irachena dopo che ne è stata dichiarata la liberazione dall’ISIS nello scorso luglio. All’incontro “Mosul. Una ferita aperta”, moderato da Tonia Mastrobuoni (La Repubblica), hanno partecipato anche Caroline Abu-Sada (Msf) e la corrispondente di guerra freelance Francesca Mannocchi.

All’Undicesima Edizione del Festival di Internazionale a Ferrara si mostra come, anche nel caso dell’Iraq, la complessità di una tragedia venga facilmente seppellita sotto cumuli di disinformazione e propaganda. Questo conflitto è stato spesso paragonato alla II guerra mondiale come numero di morti, ma quantificare realmente le perdite è impossibile. “È una guerra che si svolge totalmente tra i civili”, afferma Ghaith Abdul-Ahad. “Tutti quelli catturati negli ultimi giorni dopo la liberazione della città di Mosul sono stati giustiziati. Ovunque, giù dai tetti, per strada. Nessuno si è salvato. E’ stata un’orgia di uccisioni”.

Il giornalista del Guardian spiega come ormai si tratti di ISIS contro Iraq e non più di sciiti contro sunniti. “Non c’è alcuna volontà nel risparmiare i civili: secondo l’esercito iracheno chiunque sia rimasto a nella città dopo l’avanzata della Stato Islamico è colpevole”, sottolinea Caroline Abu-Sada, capomissione di Medici Senza Frontiere a Mosul. L’Iraq aveva uno dei migliori sistemi sanitari del Medio Oriente, ma ora ha collassato. Anche le poche altre organizzazioni che erano riuscite ad operare a Mosul se ne sono andate. Msf resiste, ma è da tempo nel mirino dell’esercito iracheno perché curare i civili, senza scin da che parte si trovino, significa aiutare il nemico. “Voi che li curate siete dalla parte della morte, noi della coalizione irachena siamo dalla parte della vita”. Questa è la visione presentata a Caroline della loro missione umanitaria per salvare i civili.

“La cosa che mi ha più colpito di questa guerra”, racconta Francesca Mannocchi, “è che verso la fine tutti hanno perso ogni pudore nel raccontare le cose: ‘per noi donne e uomini vanno ammazzati tutti’ mi ha riferito un colonnello, davanti alle telecamere. Anche nell’animo di chi è testimone di questa guerra è saltata la distinzione tra soldati e civili”. La giornalista da anni ricerca in Iraq le testimonianze di donne e bambini, mogli e figli dei combattenti, con tutte le difficoltà che l’accesso a queste informazioni comporta. “Le famiglie di DAESH non sono mai state considerate innocenti. E i loro nemici sono diventati vendicatori”. Francesca racconta dei campi di rifugiati attorno a Mosul in cui famiglie di vittime vivono accanto a quelle dei carnefici: “è una bomba a orologeria”.

I giovani combattenti educati da ISIS sono infatti ancora più puri e idealisti dei loro predecessori. Nelle loro parole, le azioni guerra non vengono mai chiamate missioni suicide ma “di martirio”. E non si tratta solo della de-radicalizzazione dei bambini. “Noi giornalisti ci siamo chiesti poco come l’ISIS abbia rappresentato per le donne un momento di emancipazione e gratificazione”, riflette Francesca, spiegando come questo non si declini solo nel combattimento: per una ragazza di 16 anni significa un ruolo più dominante, maggiore libertà e dignità, un motivo per essere orgogliosa. “Queste donne sono fiere di essere vedove di martiri. E madri di martiri.”

Quello che emerge è quindi che la guerra civile in Iraq sia tutt’altro che finita, “sta solo entrando in una nuova fase”, evidenzia Ghaith. “L’ISIS è stato sconfitto. Ma non c’è una volontà politica per la pace. Finché questa generazione armata che è emersa dai precedenti anni di conflitto non deciderà di smettere”. Si parla di circa 70-80 gruppi militari ben armati e organizzati: “abbiamo sconfitto l’ISIS ma abbiamo creato di peggio.” Ora in Iraq la cosa importante saranno le conseguenze del referendum in Kurdistan, con la vittoria dei sì per l’indipendenza al 92,7% proclamata lo scorso 26 settembre. Secondo Ghaith si tratterà di uno spostamento della base di conflitto “da settaria a regionale”.

Come sostiene Francesca Mannocchi, è importante per chi fa giornalismo trovare una strada per uscire dal sensazionalismo che domina nei nostri media occidentali ed entrare più a fondo nel quotidiano: nelle vere cause e motivazioni di chi è stato costretto a restare in Iraq. Di cosa abbia rappresentato l’arrivo dello Stato Islamico in un paese in mano a un governo corrotto e sostenuto dalle potenze occidentali. “Dobbiamo evitare la banalizzazione dalla nostra parte del mondo che ci ha fatto accettare passivamente il concetto che contro l’ISIS vale tutto”, sottolinea la giornalista. ”Smettere di perpetrare una narrazione in cui loro sono mostri contro i quali tutto è lecito. In questo starà la vera sconfitta di ISIS”.

Alice Pelucchi, studentessa del Master di Giornalismo e Comunicazione scientifica dell’Università di Ferrara, volontaria all’ufficio stampa del festival

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