Da una parte c’è Rocky Dawuni, star ghaneana nota per il suo stile simile al reggae chiamato “afro-roots”, più volte candidato ai Grammy awards. Dall’altra c’è Kyekyeku, suo fratello minore, chitarrista e cantante e una delle figure principali del revival dell’highlife del Ghana. Il primo ha vissuto a lungo a Los Angeles, il secondo a Bayonne, nel sudovest della Francia. Entrambi pensano al loro paese d’origine quando ne sono lontani, ed è lì che dovevano incontrarsi. Perché la canzone Africa till I die è prima di tutto un inno a questa terra che è stata pioniera nel riconnettersi con i suoi figli sparsi per il mondo e ad accogliere le altre diaspore. Già in epoca coloniale i contingenti caraibici del Commonwealth importarono in Ghana il loro suono di ottoni e la loro musica, il calypso, la cui influenza sull’highlife si sente ancora oggi. Altrettanto decisiva fu quella del jazz, diffusa dai soldati afroamericani di stanza in Ghana durante la seconda guerra mondiale. E poi, naturalmente, c’era Kwame Nkrumah, passato da Londra e dagli Stati Uniti, che è stato uno dei grandi leader e teorici del panafricanismo. Per Rocky Dawuni e Kyekyeku Africa till I die è un’occasione per ricordare la bellezza dell’intero continente, la sua resistenza alle difficoltà trasformata in dolcezza. I due musicisti danno un’immagine dell’Africa diversa rispetto a quelle catastrofiche che vengono diffuse spesso dai mezzi d’informazione.
Vladimir Cagnolari ,
Pam

Rocky Dawuni e Kyekyeku (dr)

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Questo articolo è uscito sul numero 1515 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati