Come faceva il cagnolino Toto nel Mago di Oz, al vertice di Ginevra del 1985 il presidente statunitense Ronald Reagan e il leader sovietico Michail Gorbacëv scostarono la tenda per rivelare la verità che si nascondeva dietro lo spettro terrificante della guerra nucleare a cui i loro paesi si preparavano spendendo centinaia di miliardi di dollari. “Una guerra nucleare non può essere vinta”, dichiararono, “e non dovrà essere mai combattuta”. Tralasciarono, però, l’inevitabile corollario di quelle parole: neanche una corsa agli armamenti nucleari può essere vinta.

Quell’affermazione – quasi unica tra le dichiarazione ufficiali per la sua brutale onestà – riuscì comunque a rafforzare gli argomenti a favore del controllo degli armamenti e i successivi impegni sulla non proliferazione. Decenni di negoziati hanno dato vita a una complessa struttura di trattati, accordi e perfino iniziative unilaterali sul tema delle armi nucleari offensive e difensive di corta, media e lunga gittata, con tanto di disposizioni su verifiche e ispezioni, e perfino sulla possibilità di sorvolare i rispettivi territori per osservare lo stato degli armamenti.

Spesso le due parti hanno rinunciato solo ai sistemi di cui non avevano più bisogno. Ed è successo che il linguaggio degli accordi sia stato motivo di attriti. Negli Stati Uniti, inoltre, il prezzo politico per far ratificare i trattati al senato è stato a volte molto alto. Ma con tutti i suoi limiti, il controllo degli armamenti ha ridotto il numero totale delle armi nucleari in mano alle due superpotenze da sessantamila a circa 11mila (il numero esatto attuale è segreto).

Un occhio solo

In base al trattato più recente, il New start (cioè il Trattato sulla riduzione delle armi strategiche), firmato nel 2010, gli arsenali dei due paesi devono essere limitati a 1.550 testate ciascuno. Il resto delle armi dev’essere conservato in magazzini. Sotto ogni aspetto, la diminuzione delle armi nucleari dell’80 per cento (95 per cento, se si considerano solo le testate schierate) è un risultato importante. O almeno lo era.

Perché da quando gli Stati Uniti si sono ritirati dal trattato anti missili balistici (Abm) nel 2002 – legittimando così il principio che una parte possa abbandonare unilateralmente un accordo quando non lo considera più di suo gradimento – le altre intese sono crollate una dopo l’altra. Nel febbraio 2026 scadrà il New start, l’ultimo mattone rimasto dell’edificio costruito negli anni ottanta, lasciando Washington e Mosca libere da ogni restrizione sugli arsenali nucleari per la prima volta da mezzo secolo.

Con le tensioni tra le grandi potenze che sono tornate a crescere, oggi sembra che stia cominciando una nuova corsa agli armamenti. La nuova era nucleare sarà molto più pericolosa della prima, perché avrà tre protagonisti (oggi c’è anche la Cina), e sarà molto più imprevedibile di quella bilaterale dei tempi della guerra fredda. Inoltre, sarà amplificata dall’avvento delle armi tecnologiche, dell’intelligenza artificiale, della possibile militarizzazione dello spazio e di altre innovazioni.

“Nessuno ci ha ascoltato”, ha detto Putin nel 2018. “Ora ci ascolterete”

Per valutare la portata del pericolo, occorre ricordare la particolare dinamica che regola la corsa agli armamenti nucleari e osservare la follia che spinge a estremi grotteschi perfino le persone coinvolte più ragionevoli. Dal 1950 al 1965 l’arsenale statunitense passò da poche testate a più di 30mila, cioè quasi cinque volte di più di quelle che aveva all’epoca l’Unione Sovietica. La bibbia del nucleare statunitense, allora come oggi, era il piano nazionale per la guerra nucleare Siop (Single integrated operational plan), che elenca i bersagli da attaccare e prevede un determinato livello di certezza della loro distruzione.

Come racconta Fred Kaplan nel suo libro The bomb, Dwight D. Eisenhower fu il primo presidente degli Stati Uniti a immaginare un controllo sulla pianificazione nucleare. Nel novembre 1960 mandò il suo consulente scientifico George Kistiakowsky, accompagnato da un altro esperto di armamenti, George Rathjens, nel quartiere generale dello Strategic air command (Sac) di Omaha, in Nebraska, per una riunione informativa. Rathjens aveva individuato una città sovietica simile a Hiroshima per dimensioni e capacità industriale, e chiese quali armi il Siop avrebbe usato in un eventuale attacco. La risposta fu una bomba con una potenza di 4,5 megatoni, seguita da tre ordigni da 1,1 megatoni. Il totale era 500 volte più potente della bomba da 15 chilotoni sganciata su Hiroshima.

Esaminando le attività del Sac, i due consulenti rimasero perplessi, sconvolti e infine inorriditi. Quando chiesero quanti russi, cinesi ed europei dell’Est sarebbero stati uccisi nell’attacco immaginato dal Siop, la risposta fu 275 milioni, cifra che includeva solo i morti causati dall’esplosione delle bombe. Le vittime del calore, del fuoco, del fumo e del fallout radioattivo non si potevano calcolare con precisione. I morti sarebbero stati quindi molto più numerosi.

Per quanto oggi sembri inconcepibile, la paura dell’Unione Sovietica, il peso del Sac nella dirigenza militare e la determinazione politica di Washington erano così forti da convincere ogni presidente, e il suo dipartimento della difesa, a dettare linee guida molto aggressive, che il Sac poi trasformava in piani d’azione mostruosi.

Alcuni decenni più tardi, con il numero delle testate sensibilmente diminuito, il Siop manteneva la sua linea grottescamente esagerata. Una revisione ordinata dal presidente Barack Obama, per esempio, rivelò che molti bersagli del piano erano in realtà spazi deserti. Secondo l’intelligence statunitense, quei terreni sarebbero serviti per far atterrare i bombardieri russi in caso di distruzione delle basi principali. Stando alla ricostruzione di Kaplan, l’orientamento ufficiale prevedeva che le “basi secondarie dei bombardieri” venissero distrutte, perciò il Siop aveva assegnato diverse testate anche a ciascuno di questi obiettivi.

L’assurdità di una guerra “già messa in conto” non sta solo nella pianificazione, ma anche nelle sue conseguenze operative. Il generale dell’aeronautica statunitense Charles Boyd, pilota di caccia e morto nel 2022 (era mio marito), prestò servizio per qualche tempo in una struttura che avrebbe avuto il compito di lanciare testate nucleari nel caso di una guerra in Europa. A tutti i piloti della squadra fu consegnata una benda oculare bordata di piombo con l’istruzione di indossarla poco prima di sganciare l’ordigno. All’altitudine di volo degli aerei, l’occhio non protetto sarebbe stato accecato dal lampo dell’esplosione. Il pilota avrebbe potuto togliersi la benda e usare l’altro per continuare a volare. Perdere la vista a un occhio non era un grosso problema, perché i piloti sapevano che una missione simile era senza ritorno: non ci sarebbero stati posti dove atterrare in Europa nel pieno di una guerra nucleare.

Sospendere o ratificare

A partire dal 1947, ogni anno il Bulletin of the atomic scientists pubblica l’orologio dell’apocalisse, uno strumento facilmente comprensibile per valutare il rischio di una catastrofe globale, soprattutto nucleare. Nel 1991, dopo la firma del trattato Start 1 – il primo a fare grossi tagli negli arsenali nucleari statunitense e sovietico – l’orologio segnava 17 minuti alla mezzanotte. Nel gennaio 2024 indicava 90 secondi, la distanza minima mai raggiunta dal momento di un’ipotetica apocalisse. Per spiegare la sua decisione, il gruppo ha citato la diffusa e crescente dipendenza dalle armi nucleari, le somme enormi spese per espandere o modernizzare gli arsenali atomici e la minaccia russa di usare le armi nucleari in Ucraina.

Uno dei motivi di preoccupazione è che, dopo essersi affidata per decenni a un modesto deterrente nucleare, la Cina sta rapidamente ampliando il suo arsenale. Si calcola che oggi abbia 500 testate nucleari, che potrebbero diventare mille entro la fine del decennio e forse arrivare ai livelli di Stati Uniti e Russia entro il 2035.

È facile prevedere come si svolgerà e come finirà la nuova corsa agli armamenti

Per ora Washington può solo cercare d’indovinare il motivo delle mosse cinesi. Pechino, infatti, non ha mai voluto partecipare ai negoziati sul controllo degli armamenti, e il governo statunitense ha poche informazioni di prima mano sulla sua strategia nucleare. Forse la Cina si sta preparando a una guerra per Taiwan o più in generale sta cercando d’imporre la sua egemonia sull’Indo-Pacifico. Forse sta rispondendo a quella che considera un’aggressione statunitense. O magari sta semplicemente facendo dei passi che ritiene doverosi per una grande potenza. Più probabilmente per tutte queste ragioni messe insieme.

Anche la Russia ha modernizzato le sue armi nucleari tradizionali. Inoltre, in un violento discorso del 2018, il presidente Vladimir Putin ha presentato nuovi armamenti atomici, definendoli una risposta al ritiro degli Stati Uniti dal trattato Abm e al loro sistema di difesa antimissile, che Mosca contestava energicamente nella convinzione che avesse l’obiettivo non dichiarato di neutralizzare i missili eventualmente lanciati dal Cremlino. Paradossalmente, nonostante gli sforzi e le spese enormi sostenute per decenni, le difese antimissile americane non sono mai state in grado di farlo. Al massimo potrebbero intercettare un piccolo numero di missili nordcoreani, ma in nessun modo un attacco russo su larga scala. La verità è che la decisione di uscire dal trattato Abm si è ritorta contro gli Stati Uniti nel modo peggiore: dal punto di vista della sicurezza non è servita a molto e soprattutto ha fatto infuriare la Russia. Tra le nuove armi annunciate da Putin ci sono una testata planante ipersonica intercontinentale, che può cambiare traiettoria durante il volo; un missile da crociera a propulsione nucleare estremamente veloce e di gittata quasi illimitata; e un siluro sottomarino nucleare in grado di attraversare il Pacifico. “Nessuno ci ha ascoltato”, ha detto Putin nel 2018. “Ora ci ascolterete”.

Eppure, nella prima settimana dopo l’arrivo del presidente Joe Biden alla Casa Bianca, nel 2020, la Russia e gli Stati Uniti avevano annunciato un’estensione di cinque anni del trattato New start a pochi giorni dalla sua scadenza. Ma due anni dopo, in uno scoppio d’ira per il sostegno occidentale all’Ucraina, Mosca ne ha deciso la “sospensione”. Entrambe le parti continuano a rispettare i limiti fissati dal trattato, ma le fondamentali disposizioni per i controlli – scambio di dati, notifiche e ispezioni – sono sospese.

Nel 2023, inoltre, Mosca ha revocato la ratifica del Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (Ctbt) del 1996. La Russia lo aveva ratificato nel 2000, ma un anno prima, con una mossa a sorpresa, il senato statunitense lo aveva respinto, anche se era un’iniziativa americana considerata per anni una priorità nazionale. La revoca russa della ratifica è stata però una risposta non alla marcia indietro di Washington, ma al suo sostegno all’Ucraina.

Il divulgatore scientifico Bill Nye accanto a una rappresentazione dell’orologio dell’apocalisse, 23 gennaio 2024 (Jacquelyn Martin, Ap/Lapresse)

Il Ctbt è stato ratificato da 178 stati, anche se non può entrare ufficialmente in vigore prima dell’adesione di alcuni paesi, come Stati Uniti e Cina. C’è poi un altro aspetto della questione. Nel 1992 il presidente americano George H.W. Bush aveva annunciato una moratoria di nove mesi sui test nucleari: le nuove tecnologie avevano cominciato a fornire i mezzi per garantire la sicurezza e l’affidabilità delle armi atomiche senza dover fare esperimenti esplosivi. Nonostante il senato non abbia mai voluto rivedere la sua posizione sul Ctbt, quella moratoria regge ormai da 32 anni. Fatta eccezione per i test della Corea del Nord, dopo il 1998 non ci sono stati esperimenti in nessun luogo del mondo.

Alzare il livello

Grazie a decenni di impegnativi negoziati, gli Stati Uniti hanno una buona conoscenza delle dottrine, dei dettagli tecnici della pianificazione nucleare russa e delle persone coinvolte. Ma due sviluppi recenti fanno preoccupare. Nel 2022, pochi giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, Putin e il presidente cinese Xi Jinping hanno annunciato una “partnership illimitata” in materia di economia, geopolitica e sicurezza. La Cina, in realtà, ha messo dei limiti al suo impegno, per esempio sulla fornitura di armi da usare in Ucraina, ma l’obiettivo annunciato dai due paesi – mettere fine al primato americano negli affari internazionali – preoccupa profondamente i politici statunitensi. Nel corso della guerra in Ucraina Putin si è anche lanciato in minacce nucleari senza precedenti.

Subito dopo l’invasione, il leader russo aveva alzato il livello di allerta degli armamenti strategici russi. Da allora ha più volte minacciato di usare armi nucleari tattiche (a gittata ridotta, per l’impiego nel campo di battaglia), se riterrà eccessivo il sostegno occidentale a Kiev, e ha poi spostato alcune di queste testate in Bielorussia, ordinando esercitazioni congiunte che ne prevedono l’uso. Infine, il Cremlino ha abbassato la soglia per ritenere ammissibile il ricorso alle armi nucleari. Nonostante questi sviluppi, non c’è dubbio che per la Russia la minaccia di una schiacciante risposta statunitense a qualunque uso del nucleare continui a essere un deterrente efficace.

Washington ha avviato un ambizioso processo di modernizzazione dell’intera triade strategica (aerea, terrestre e navale) che include nuove testate e vettori (bombardieri, sottomarini, missili), oltre a sistemi di supporto e di comando e controllo. Ipotizzando che non ci siano ulteriori sforamenti – cosa improbabile – il costo per sviluppare, costruire e far funzionare i nuovi sistemi sarà di almeno 1.500 miliardi di dollari. A causa di motivi tecnici ed economici, oltre che strategici, sono state proposte diverse alternative per sostituire la componente terrestre della triade. I missili balistici intercontinentali (Icbm) Minuteman sono considerati armi da “primo colpo”, perché si sa dove si trovano i loro silos e quindi devono essere lanciati rapidamente prima che siano attaccati. Per questo motivo sono tenuti in costante allerta, cosa che li rende particolarmente suscettibili a incidenti o errori di calcolo. Dal 2020 il costo previsto di questa parte del programma è cresciuto dell’81 per cento e le scadenze sono slittate. Ma il Pentagono insiste a voler seguire i piani.

L’insieme delle spese per modernizzare e accrescere i tre più grandi arsenali nucleari del mondo, le tensioni, la mancanza di fiducia tra la Russia, la Cina e gli Stati Uniti, e infine i progressi tecnologici destabilizzanti spiegano perché l’orologio dell’apocalisse oggi segna pochi secondi alla mezzanotte. E a quanto pare la lancetta potrebbe spostarsi ancora.

Inizialmente il piano di modernizzazione statunitense non prevedeva d’ingrandire l’arsenale nucleare. I nuovi armamenti dovevano sostituire i vecchi – in alcuni casi molto vecchi – rispettando i limiti fissati dal New start. Ma alla scadenza del trattato mancano appena quattordici mesi, e difficilmente l’accordo sarà prolungato. Per di più, l’arsenale statunitense è stato concepito per essere usato esclusivamente contro la Russia. Finora si è sempre creduto che fosse abbastanza potente anche per affrontare una potenziale minaccia proveniente dalla Cina o da qualunque altro stato. Oggi, però, il progetto di Pechino di dotarsi rapidamente di un grande apparato strategico nucleare e la sua nuova collaborazione con Mosca modificano profondamente la situazione. Gli Stati Uniti devono affrontare non uno, ma due potenze nucleari.

La questione centrale è come rispondere. I politici più aggressivi, quasi per riflesso condizionato, sostengono che bisogna ingrandire l’arsenale. Fino a poco fa, l’amministrazione Biden e molti esperti esterni sostenevano che questo modo di pensare ignora i fondamenti della deterrenza nucleare. “La deterrenza non è semplicemente un gioco di numeri”, ha spiegato il segretario alla difesa Lloyd Austin nel dicembre 2022. “E questo atteggiamento può provocare una pericolosa corsa agli armamenti”.

Sei mesi dopo, il consigliere alla sicurezza nazionale Jake Sullivan è stato più esplicito: “Voglio essere chiaro a questo riguardo: per esercitare una deterrenza efficace gli Stati Uniti non hanno bisogno di accrescere il loro arsenale nucleare cercando di superare il numero totale delle testate degli avversari”.

Un’installazione artistica in un sito cinese per l’arricchimento del plutonio, 21 febbraio 2017 (Wang Zhao, Afp/Getty)

L’indicatore dell’efficacia della deterrenza non è dato dai numeri, ma dalla capacità di causare danni catastrofici ai nemici dopo aver subìto un attacco. E questo dipende a sua volta da quali obiettivi si sceglie di colpire. L’attuale strategia statunitense punta alle forze nucleari dell’avversario, alla sua leadership e alla struttura militare di comando e controllo. Un’altra possibilità sarebbe colpire obiettivi diversi, come le infrastrutture cruciali per uno stato: industrie, porti, trasporti, finanza, reti di comunicazione, governo e forze armate convenzionali. In questo modo si avrebbe lo stesso risultato usando meno testate e causando un numero simile di vittime civili.

Nell’estate del 2024 alcuni funzionari statunitensi segnalavano che la crescente minaccia nucleare potrebbe costringere il paese a sostituire l’idea di modernizzare l’arsenale nucleare con quella di rafforzarlo in modo consistente. Questo porterebbe a “una nuova era nucleare”, ha detto il 1 agosto l’alto funzionario del Pentagono Vipin Narang. “In mancanza di un cambio di rotta” nell’atteggiamento russo e nella traiettoria nucleare di Pechino, ha aggiunto Narang, gli statunitensi potrebbero trovarsi a dover guardare agli anni successivi alla guerra fredda come a una semplice “tregua nucleare”. Per ora, tuttavia, non si sa con certezza se le direttive segrete firmate da Biden a marzo del 2024 prevedano di riorientare la pianificazione nucleare intorno alla Cina. “Abbiamo ripetutamente espresso timori” sulla crescita dell’arsenale cinese, ha detto un portavoce del consiglio per la sicurezza nazionale statunitense, ma nelle nuove direttive “c’è più continuità che cambiamento”.

I negoziati necessari

Alzando il livello della minaccia, il governo americano forse sta cercando di spingere Mosca e Pechino su un percorso diverso, o forse a Washington c’è davvero una nuova linea politica sul tema. Con la rielezione di Donald Trump ci sono pochi dubbi che il paese risponderà aggressivamente a quella che considera una seria minaccia in arrivo dalla Cina. L’estate scorsa Robert C. O’Brien, il quarto e ultimo consigliere per la sicurezza nazionale di Trump ai tempi del suo primo mandato, ha detto che “gli Stati Uniti devono mantenere la superiorità numerica sulle scorte nucleari combinate di Russia e Cina”.

L’obiettivo è però matematicamente irraggiungibile. Nonostante la presunta amicizia tra il presidente Putin e Trump, dopo decenni di accordi per mantenere l’equilibrio degli arsenali tra Stati Uniti e Unione Sovietica, e poi con la Russia, Mosca farebbe di tutto per tenere il passo di Washington. E poi c’è la Cina. Raggiungere il numero di testate cinesi e russe insieme è impensabile, figuriamoci superarlo. Sarebbe una corsa agli armamenti senza fine.

Un missile balistico intercontinentale Jars sulla Piazza rossa di Mosca, il 9 giugno 2023 (Gavriil Grigorov, Afp/Getty)

O’Brien ha invocato anche un ritorno agli esperimenti nucleari, una proposta sconcertante. Dopo aver fatto più di mille test, gli Stati Uniti hanno ben poco da imparare. La Cina, invece, ne ha fatti meno di cinquanta e coglierebbe al volo l’opportunità di riprenderli se Washington commettesse la mostruosità politica di interrompere la moratoria. In breve tempo altri stati seguirebbero l’esempio. Il risultato sarebbe un danno alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti e un forte incentivo alla proliferazione nucleare. Sembra quindi che sia cominciata una nuova corsa agli armamenti, fortemente influenzata da un terzo concorrente – la Cina – e dalle nuove tecnologie. È facile prevedere come si svolgerà e come finirà. Ogni paese spenderà somme enormi per rispondere alle ipotesi più pessimistiche sulle mosse degli avversari. Il dirottamento di fondi da altri obiettivi interni e l’aumento del debito pubblico indeboliranno tutti. Si andrà avanti così fino a quando la paura, tra i leader politici, e forse nell’opinione pubblica, spingerà le menti più lucide verso la diplomazia e il controllo negoziato degli armamenti. Poi si spenderanno altre somme immense per smantellare quello che è stato costruito. Ovviamente ci sono previsioni perfino più cupe di incidenti, errori di calcolo o anche di una guerra nucleare “limitata”, avviata, per scelta o per errore, nell’illusione di poter evitare che finisca in un olocausto globale.

Chi ha la responsabilità di proteggere gli Stati Uniti deve naturalmente prendere in considerazione le informazioni più pessimistiche sugli avversari. Ma deve anche tener conto delle verità che oggi conosciamo sul paese. Quando gli Stati Uniti si abbandonarono alla loro prima smania nucleare, negli anni sessanta, non avevano intenzione di distruggere il pianeta, anche se gli armamenti nucleari che accumularono erano più che sufficienti per farlo. Perfino oggi, con tutte le informazioni storiche che ci sono, è difficile individuare la logica che spinse Washing­ton a creare un arsenale simile.

Anche se devono misurarsi con minacce reali, gli Stati Uniti sono ancora indiscutibilmente il paese più forte fra i tre che partecipano a questa costosa, pericolosa e inutile competizione, e possono cercare di capire come interromperla. Una conclusione negoziata della guerra in Ucraina aiuterebbe a rimuovere gli ostacoli a un dialogo con la Russia. Ma è possibile fare qualcosa ancora prima.

Il generale Christopher Cavoli, comandante supremo della Nato in Europa, che parla russo ed è un esperto di Russia, sostiene che Washington dovrebbe cercare di riattivare le linee di comunicazione che consentirono agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica di sopravvivere alla guerra fredda: “Sapevamo comunicare verbalmente e non verbalmente, creando un sistema in cui le nostre mosse non erano imprevedibili. E lo usavamo per esercitare la deterrenza senza rischi significativi. Sapevamo mandarci dei segnali. Oggi questo si è perso”. Secondo Rose Gottemoeller, capo negoziatrice statunitense per il trattato New start ed ex vicesegretaria generale della Nato, anche se la Russia ha violato il trattato del 1987 sulle forze nucleari a medio raggio (Inf), l’offerta avanzata da Putin nel 2020 suggerisce che c’è una possibilità, per quanto minima, di negoziare un nuovo accordo su questi missili. Anche la Cina potrebbe essere interessata.

Invertire la rotta

Bisogna prestare attenzione anche all’opinione pubblica. Le principali iniziative per fermare la prima corsa agli armamenti furono prese in seguito alle pressioni sui leader politici e i parlamenti. Oggi per l’opinione pubblica la minaccia più immediata non è la guerra atomica, ma la crisi climatica, e chi finanzia le ricerche e le analisi indipendenti ha spostato in quel settore il grosso delle risorse, anche se i motivi per temere una guerra nucleare oggi sono maggiori che in passato.

Il senato statunitense potrebbe cambiare linea sul trattato sulla messa al bando degli esperimenti nucleari. Dopo 32 anni senza test, con la possibilità di garantire l’affidabilità delle armi senza doverle testare e con stazioni di monitoraggio internazionali in grado di individuare anche il più piccolo esperimento in ogni angolo del pianeta, non ci sono più argomenti efficaci contro la ratifica. Che non avrebbe effetti concreti sulla sicurezza statunitense, ma sicuramente forti ripercussioni in tutto il mondo. Probabilmente, infatti, alla ratifica statunitense seguirebbe quella degli altri paesi finora contrari, e questo rilancerebbe gli sforzi globali per contenere il rischio nucleare.

È solo un elenco indicativo. Ci sono senz’altro idee diverse. Il punto è che, anche se per ora i negoziati ufficiali sul controllo degli armamenti sono impossibili per le tensioni geopolitiche con la Russia e la Cina, gli Stati Uniti possono comunque fare dei passi importanti, senza mettere a rischio la loro sicurezza, per interrompere o invertire la nuova corsa agli armamenti nucleari. ◆ gc

Jessica T. Mathews è un’esperta statunitense di relazioni internazionali. Dal 1997 al 2015 è stata presidente del centro studi Carnegie endowment for international peace.

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Questo articolo è uscito sul numero 1593 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati