Algoritmi in grado d’identificare una persona da come batte i tasti su una tastiera, nuove tecnologie di riconoscimento facciale, sistemi di navigazione per droni o per la guida di veicoli sottomarini superveloci: sono solo alcuni esempi delle centinaia di studi utilizzabili in campo militare condotti da università italiane insieme ad atenei cinesi. L’allarme è già stato lanciato dalle agenzie d’intelligence di tutta Europa: da quando gli Stati Uniti hanno limitato l’ingresso di scienziati cinesi nel paese, si stanno moltiplicando le collaborazioni accademiche tra la Cina e il vecchio continente, specialmente in settori legati all’alta tecnologia e ancora relativamente nuovi, come veicoli a guida automatica, intelligenza artificiale, tecnologie aerospaziali.

Ma in cosa consiste di preciso il rischio? Secondo molti analisti il più grande è che queste tecnologie finiscano nelle mani delle forze armate cinesi. Un altro è che possano rafforzare i sistemi di sorveglianza di massa usati dalla Cina spesso commettendo gravi violazioni dei diritti umani, in particolare contro le minoranze etniche.

Anche se la consapevolezza dei pericoli che queste attività comportano sta aumentando, fino a oggi i controlli sulle collaborazioni accademiche in Europa sono stati minimi. Anzi, afflitte da una costante carenza di fondi e d’investimenti, le università europee sono state più che pronte a offrire una sponda alle ambizioni di Pechino e solo recentemente alcuni paesi hanno riconsiderato il loro atteggiamento.

L’inchiesta China science investigation, realizzata da undici testate giornalistiche europee guidate dall’olandese Follow the Money e da Correctiv, ha raccolto e analizzato più di 350mila studi scientifici condotti insieme da università cinesi ed europee, dal 2000 a oggi.

Se la condivisione di conoscenze e tecnologie a livello internazionale è un principio fondamentale della scienza riconosciuto dall’Unione europea, che definisce il concetto di open science una priorità, una parte minoritaria ma importante dei 350mila studi analizzati è stata portata avanti grazie all’aiuto di scienziati e istituzioni direttamente legati all’Esercito popolare di liberazione. Per la precisione, sono stati individuati 2.994 studi di questo tipo, ma la cifra reale è probabilmente più alta, dato che non è stato possibile determinare con certezza il rapporto di alcune istituzioni cinesi con le forze armate. La tabella di marcia era stata delineata con precisione già sei anni fa. Al congresso dell’Associazione cinese per la scienza e la tecnologia, che si è tenuto a Pechino nel maggio 2016, Xi Jinping aveva promesso che la Repubblica popolare cinese sarebbe diventata uno dei paesi più innovativi del mondo entro il 2020 e un riferimento per il settore entro il 2030; nel centesimo anniversario della sua fondazione, cioè nel 2049, sarebbe stata riconosciuta come una potenza scientifica globale. La Cina è stata considerata per decenni poco più di un enorme serbatoio di manodopera a basso costo per fabbricare prodotti ideati in occidente, oggi però non c’è dubbio che le aspirazioni di Xi non solo sembrano realistiche, ma sono anche in gran parte già realizzate.

Genova, aprile 2022 (Dagmar Schwelle, Laif/Contrasto)

Grandi ambizioni

Fin dall’inizio degli anni duemila, una serie di riforme industriali e fiscali ha dato un forte impulso alla ricerca scientifica cinese. “Nel 2019 la Cina è stata il primo paese per numero di richieste di brevetti internazionali, con oltre 58mila domande”, scrive Lorenzo Mariani, ricercatore dell’Istituto affari internazionali (Iai), nel suo rapporto L’iniziativa belt and road e l’internazionalizzazione della potenza cinese in campo scientifico: il caso dell’Italia. “Il numero dei brevetti presentati alle autorità nazionali non è da meno: nel 2020 sono state registrate (…) all’incirca 3,6 milioni di istanze di concessione. Recentemente il paese ha superato gli Usa per numero di articoli di ricerca prodotti, con il 19,9 per cento degli studi sottoposti a referaggio (valutazione di terzi, ndr) e pubblicati nelle riviste scientifiche a livello globale”.

Mariani nota che, anche se i numeri sono già vicini all’obiettivo dichiarato da Xi nel 2016, il peso di quest’immensa produzione è ancora relativamente basso, almeno rispetto alle ambizioni del colosso asiatico: “L’impatto scientifico delle ricerche cinesi è ancora relativamente modesto, con uno standard di qualità inferiore a quello delle principali economie sviluppate. (…) Mentre negli Stati Uniti i brevetti universitari hanno tassi di commercializzazione tra il 40 e il 50 per cento, quelli cinesi hanno un tasso di industrializzazione del solo 18,3 per cento”.

In questo quadro si capisce perché il governo cinese ritenga fondamentali, tanto da investire risorse significative, le collaborazioni accademiche tra le università cinesi ed europee. Dei circa tremila progetti identificati dall’inchiesta, la maggior parte (2.210) è stata realizzata coinvolgendo l’università nazionale di tecnologia per la difesa (Nudt), la principale università militare cinese. Affiliata direttamente alla commissione militare centrale, una delle più importanti istituzioni di tutta la Cina, la Nudt è uno degli istituti più all’avanguardia, specialmente nei campi delle scienze informatiche, ottiche, delle comunicazioni e aerospaziali. Oltre alla Nudt, ai primi posti per numero di collaborazioni ci sono l’università d’ingegneria informatica, che dipende direttamente dalle forze armate, e l’accademia cinese d’ingegneria fisica, sotto il controllo indiretto della commissione militare centrale e famosa per le ricerche negli armamenti convenzionali, nucleari e laser. Dal lato europeo, le più presenti sono le università del Regno Unito, seguite da quelle dei Paesi Bassi, di Germania e Svezia. L’Italia, almeno secondo le ricerche fatte per quest’inchiesta, è al settimo posto nelle collaborazioni con istituzioni militari cinesi, con appena 123 studi. Eppure è stata tra i primi ad aprire le porte agli scambi accademici con il paese asiatico. Il primo accordo intergovernativo di cooperazione scientifica con Pechino è infatti del 1978 e, secondo i dati del Miur, ci sono state 939 collaborazioni universitarie bilaterali tra i due paesi dal 2007 a oggi.

La portata delle collaborazioni tra università europee e cinesi è un argomento che negli ultimi anni ha agitato le agenzie d’intelligence di tutto il continente. Tra i primi a sollevare il problema sono stati gli olandesi. Nel 2010 l’Aivd, il servizio di sicurezza dei Paesi Bassi, lanciò pubblicamente l’allarme sull’interesse cinese per le tecnologie europee, dichiarando di aver già avvertito aziende e università. I servizi belgi nel 2020 hanno fatto esplicitamente riferimento alla ­Nu­dt, segnalando che da quando gli Stati Uniti avevano irrigidito le regole d’accesso alle loro tecnologie per studenti e atenei cinesi, questi stavano dirigendo il loro interesse verso l’Europa.

Nel febbraio del 2020 sia i servizi danesi sia quelli italiani hanno puntato il dito contro la Cina. La relazione annuale del Copasir, la commissione del parlamento italiano che controlla le attività dei servizi segreti, sottolinea che la presenza di scienziati e studenti cinesi negli atenei italiani è in costante aumento, sia attraverso le collaborazioni tra università sia attraverso gli accordi tra atenei e aziende private cinesi, che nel 90 per cento dei casi sono sotto il controllo diretto o indiretto del Partito comunista cinese. La questione, naturalmente, è politica: secondo il Copasir, “l’alleanza operativa inedita tra Cina, Russia e Iran” è uno degli elementi che porta a considerare la Cina un “avversario strategico” dell’Italia e l’atteggiamento sempre più assertivo di Pechino sul piano internazionale preoccupa il blocco atlantico, che teme le ambizioni globali di Xi Jinping.

Una questione etica

Al di là delle preoccupazioni di ordine geo­politico, però, c’è da considerare l’opportunità di sviluppare tecnologie insieme a un paese che, specialmente dall’ascesa del presidente Xi Jinping, continua a compiere innumerevoli violazioni dei diritti umani. La repressione delle minoranze etniche, la persecuzione di attivisti e giornalisti indipendenti, lo sviluppo di sistemi di controllo e repressione sempre più invadenti basati su sistemi avanzati (come il credito sociale usato in alcune città) sono elementi che lo scambio indiscriminato di tecnologia può aggravare notevolmente.

Un esempio su tutti, riportato da Mariani nel suo rapporto, è quello della tecnologia che l’Italia ha comprato dalle multinazionali cinesi Hikvision e Dahua. Tra il 2017 e il 2019, infatti, sono state acquistate e installate delle telecamere di sorveglianza prodotte da queste aziende negli uffici di 134 procure, negli aeroporti di Roma e Milano, e anche negli uffici della Rai. Sempre dalla Dahua, all’inizio della pandemia, sono stati comprati diciannove termoscanner con tecnologia di riconoscimento facciale per sorvegliare palazzo Chigi. Sembra però che la strumentazione fornita da queste aziende sia usata anche in strutture di sorveglianza nello Xinjiang, la provincia cinese dove la minoranza uigura è oppressa dal regime. Inoltre è stato provato che le telecamere fornite erano dotate di memorie secondarie, in grado di connettersi con server cinesi e trasmettere informazioni, “specifiche tecnologiche che non erano incluse nelle informazioni fornite ai clienti”, riporta Mariani.

Molti degli studi condotti in collaborazione con le istituzioni militari cinesi hanno a che fare con droni e sensori sottomarini o ricerche su intelligenze artificiali connesse. Naturalmente non si può tracciare un rapporto diretto tra questi studi e l’espansione di Pechino nel mar Cinese meridionale, ma è ragionevole ipotizzare un forte legame.

Nel maggio 2017 la rivista specializzata in questioni militari Jane’s Defence Weekly, di proprietà dell’azienda d’intelligence open source Janes Information Services, ha rivelato che l’azienda pubblica cinese China State Shipbuilding Corporation aveva pubblicato i dettagli di una “grande muraglia sottomarina”, un progetto commissionato dalle forze armate.

Da sapere
Collaborazioni intense
I primi dieci paesi dell’Unione europea per numero di collaborazioni in corso con gli istituti cinesi, maggio 2022 (fonte: irpimedia)

Almeno due degli studi analizzati dall’inchiesta “China science investigation” sembrano riguardare direttamente questa infrastruttura. Uno è stato condotto dalla Nudt insieme all’università di Eindhoven, nei Paesi Bassi, ed è una ricerca su sistemi di localizzazione di oggetti sott’acqua, dove i sistemi di gps esistenti non funzionano. L’altro, invece, condotto insieme al Politecnico di Milano, sembra avere implicazioni ancora più strettamente militari. Si tratta di uno studio per migliorare i sistemi di navigazione di oggetti sottomarini che usano la tecnologia della supercavitazione (probabilmente droni o siluri): generando uno strato di vapore o gas intorno all’oggetto si riduce l’attrito dell’acqua, permettendogli di raggiungere velocità fino a 720 chilometri orari. La Russia ha già in uso dei siluri di questo tipo, gli Shkval VA-111. In questi due esempi, come nella stragrande maggioranza di quelli analizzati, i finanziamenti sono arrivati dalla Cina.

Cronica carenza di fondi

Naturalmente il problema di fondo, che apre ogni porta a Pechino, è la costante mancanza di fondi per la ricerca e lo sviluppo nelle università europee. Studenti e dottorandi cinesi, infatti, portano con sé risorse considerevoli a cui è difficile che gli atenei europei rinuncino. L’aveva già denunciato sulle pagine del Corriere della Sera nel 2019 Antonio Tripodi, membro del senato accademico dell’università Ca’ Foscari di Venezia, che accusava il suo ateneo di autocensurarsi su temi non graditi a Pechino (come l’autonomia di Taiwan e del Tibet) per evitare di perdere le risorse che l’Italia non garantiva.

La situazione è la stessa in tutta Europa. La maggior parte dei paesi dell’Unione, infatti, ha continuato per anni a tagliare i finanziamenti alle università e alla ricerca, mentre al contrario la Cina ha promesso un aumento costante del 7 per cento all’anno dal 2021 al 2025, e fino al 10 per cento per settori particolarmente importanti.

Tra questa debolezza endemica e gli allarmi degli analisti è facile passare direttamente dall’ignoranza alla paranoia. “È una sfida cruciale per la nostra epoca”, commenta Lorenzo Mariani. “È difficile capire se debbano prevalere i valori su cui si fonda la cooperazione scientifica o le preoccupazioni per i problemi di sicurezza. Si tratta di una scelta politica: come devono comportarsi le democrazie, visto che ci sono paesi pronti a sfruttare a loro vantaggio i benefici offerti dai valori democratici?”. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1468 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati