Molti romeni probabilmente non hanno mai sentito parlare di Cerignola, ma quasi certamente avranno assaggiato qualcosa che proviene da quella zona. Cerignola, in provincia di Foggia, ha poco meno di sessantamila abitanti ed è circondata da vigneti, oliveti e campi di pomodoro o grano. Con una superficie di 593 chilometri quadrati è il terzo comune più esteso d’Italia, dopo Roma e Ravenna. A Cerignola l’agricoltura è ovunque. Le strade del centro sono attraversate dai trattori già dalle cinque del mattino, mentre le stazioni di servizio in periferia si riempiono all’alba di persone che si fermano per un caffè prima di andare al lavoro. Ci sono molti negozi di utensili agricoli e molti depositi. Le autostrade che passano vicino alla città sono trafficate da camion che trasportano prodotti – lavorati o freschi – verso i supermercati di tutta Europa.
Nella zona sud di Cerignola c’è il Piano delle fosse del grano, centinaia di fosse quadrate, con un bordo in pietra, costruite nel quattrocento per conservare grano, semi di lino e mandorle. Ogni fossa ha un cippo su cui sono scolpite le iniziali del proprietario. Sembra di stare in un cimitero.
Vent’anni di esodo
Nel centro della città ci sono due negozi romeni: Cotnari e Corvin. Il pomeriggio i lavoratori, con il viso bruciato dal sole, entrano per comprare il salame Victoria, il dolce Biancaneve, le birre Ciucaș o Ursus in lattina e quelle Neumarkt in bottiglia di plastica, il liquore dolce di amarene, i sottaceti o una scheda telefonica. Incontro Ciprian Dumbravă, un uomo robusto di 35 anni, tra gli scaffali di Cotnari. È appena tornato dalla raccolta dell’uva ed è stanco morto. Ha le mani gonfie, arrossate e screpolate.
Dumbravă viene dal distretto romeno di Bacău. Da quando è arrivato in Italia, dieci anni fa, lavora nell’agricoltura. Dei connazionali gli hanno trovato un lavoro, ma poi non l’hanno pagato. Dopo ha avuto dei datori di lavoro italiani e razzisti. Ha condiviso la casa con altri quattordici romeni. E nonostante un’ernia cervicale, dovuta ai pesi che ha trasportato, ha continuato a lavorare. La sua storia fa parte dell’esodo dei romeni in Italia, durato circa vent’anni. Molti hanno lasciato il loro paese per lavorare nel settore edile, nell’assistenza domiciliare o nell’agricoltura. Con il passare degli anni sono stati raggiunti dalle famiglie o hanno avuto figli in Italia, e intanto si sono costruiti una casa in Romania.
Le ragioni per andarsene
In Italia nel 2013 lavoravano più di 930mila romeni, che rappresentavano il 21,2 per cento dei lavoratori stranieri. Alla fine del 2019 la comunità romena era formata da un milione e 145mila persone: il gruppo più numeroso di stranieri, quasi tre volte gli albanesi, al secondo posto.
Oggi, invece, molti romeni preferiscono altri paesi. Dal 2018 al 2021 la percentuale di quelli che vivono in Italia è diminuita del 4,4 per cento. E la tendenza non si ferma.
I carabinieri ci guardavano subito le mani: se non avevi i calli voleva dire che andavi a rubare. Se li avevi ti lasciavano in pace
Il calo si fa sentire nell’agricoltura. In Puglia il numero dei lavoratori romeni permanenti e stagionali è in forte diminuzione. I dati del ministero del lavoro e delle politiche sociali italiano, diffusi dal consolato generale di Romania a Bari, mostrano che nel primo trimestre del 2021 circa 5.600 romeni avevano nuovi contratti di lavoro regolarmente registrati, il 22,6 per cento in meno rispetto allo stesso periodo del 2020. Sempre nel primo trimestre del 2021 i romeni con nuovi contratti stagionali registrati erano circa cinquemila, il 17,7 per cento in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
È una tendenza che va avanti dal 2020, quando in Puglia i lavoratori romeni a cui erano stati attivati nuovi contratti e gli stagionali erano rispettivamente circa 14mila e 7.800, cioè il 16,6 e il 14 per cento in meno rispetto al 2019.
“I primi ad arrivare sono stati i tunisini, poi i romeni. Ora ci sono i senegalesi”, spiega Dumbravă. La strada su cui ci troviamo è piena di suoi connazionali, dice. Il loro numero è sceso molto quattro anni fa. Sono rimasti quelli che qui a Cerignola hanno la famiglia e contratti di lavoro a tempo indeterminato.
La vita è diventata più cara, dice Dumbravă. Il suo calcolo è semplice: “Qualche anno fa con 50 euro andavo al supermercato e riempivo due borse della spesa. Oggi con la stessa cifra ne riempo a stento una”. Ma le ragioni per andare via sono altre. I romeni sono stanchi delle pessime condizioni di lavoro e di essere sottopagati o pagati in nero. Gli abusi che hanno subìto dai datori di lavoro italiani in questi anni gli hanno fatto decidere di partire. Poi è arrivata la pandemia che ha rimodellato il mercato del lavoro europeo, aumentando le incertezze.
Gheorghe Cozachevici è tornato in Romania nel gennaio 2018, dopo diciotto anni in Italia. “Nel duemila non avevi tanto da scegliere. Non eravamo ancora cittadini comunitari, non avevamo i documenti in regola. I carabinieri ci guardavano subito le mani: se non avevi i calli voleva dire che andavi a rubare. Se li avevi ti lasciavano in pace”, racconta. I primi tre anni ha lavorato nell’agricoltura, in provincia di Latina, dove è rimasto. “L’agricoltura era il settore peggio retribuito, ma all’inizio non avevamo scelta, anche perché non conoscevamo la lingua”.
Il lavoro era pesante e ai limiti della legalità, ma chi era uscito dal comunismo romeno non aveva grandi aspettative. Quando nel 2007 la Romania è entrata nell’Unione europea, Cozachevici – che nel frattempo era passato al settore edile – è entrato nella Cgil (Confederazione generale italiana del lavoro, il più grande sindacato italiano), per aiutare i suoi connazionali. I problemi maggiori erano al sud, dove molti romeni lavoravano nel settore agricolo in condizioni di schiavitù.
Lentamente la comunità romena ha preso coraggio. “All’inizio abbassavamo la testa. Oggi ci sono ancora persone che lavorano in nero, ma la maggior parte ha cominciato a rendersi conto che poi avrà bisogno della pensione, quindi chiede i contributi previdenziali. Negli ultimi tempi ha cominciato a pretendere maggiori diritti”. Molti sono bravi artigiani e hanno capito che in altri paesi possono guadagnare di più. Alcuni sono rientrati in Romania e sono pagati meglio, spiega Cozachevici. “Tra quelli che conosco, molti sono andati in Germania o nel Regno Unito”, aggiunge.
Cozachevici è tornato nella sua città natale nel distretto di Suceava, dove è riuscito a costruirsi una casa con i soldi guadagnati all’estero in anni di lavoro. Nel 2020 si è candidato alla carica di sindaco ed è arrivato secondo per numero di preferenze. Da gennaio lavora con un’organizzazione romena, la Federazione generale dei sindacati di famiglia. Spiega che la gente ha un grande bisogno di conoscere i suoi diritti quando torna in Romania. Vent’anni di sfruttamento sono bastati.
Straordinari non pagati
Camelia Cutolo è un’avvocata romena e si è stabilita in Italia diciassette anni fa. Il suo studio è a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Ogni anno segue una quarantina di cause di lavoro, e molte riguardano i romeni. “Lo sfruttamento c’è in tutti i settori in cui lavorano i romeni”, afferma.
Nell’agricoltura i problemi riguardano soprattutto le ore di straordinario non retribuite. “Per legge non puoi lavorare più di sei ore e mezza al giorno. Ma si lavora almeno otto ore, anche sedici ore”, racconta. In estate la giornata di lavoro comincia alle cinque del mattino, in inverno alle sette, aggiunge Ciprian Dumbravă. Dopo la pausa pranzo, si continua fino alla sera. “Lavori sei ore, torni a casa, ti riposi, fai una doccia, e se vuoi dopo pranzo fai ancora tre ore”.
A Cerignola la stagione agricola non finisce mai. Quando alla fine di settembre ci siamo incontrati, Dumbravă aveva appena terminato la raccolta dei pomodori, e l’uva stava maturando. Ma cominciava la raccolta delle olive. E poi, subito dopo Natale, ci sarebbero state la pulizia dei vigneti, la legatura delle viti e la zappatura negli interfilari per preparare il terreno alla stagione successiva. In primavera sarebbe stato il turno della raccolta dei carciofi.
Durante i primi anni in Italia, è stato difficile per Dumbravă trovare un impiego. La diffidenza dei datori di lavoro italiani era il vero ostacolo da superare, più dei ritmi di lavoro o della nuova lingua. Condivideva la casa con altre quindici persone perché era difficile trovarne una per sé: molti italiani avevano paura ad affittare ai romeni.
Non era semplice neanche fidarsi degli altri romeni: c’erano i cosiddetti caporali, che se la intendevano con gli italiani e sfruttavano i connazionali. In cambio di un posto di lavoro e di un passaggio in auto fino ai campi, i caporali trattenevano buona parte della paga giornaliera. A volte non pagavano affatto. Un giorno il caporale, che gli aveva trovato il lavoro, gli ha detto che il padrone non gli aveva dato i sessanta euro che gli spettavano. Mentiva: non voleva pagarlo.
Neanche un euro per curarsi
Per altri romeni è stato ancora peggio. Maria N. viene da un comune del distretto di Iași ed è arrivata in Italia nel 2008. Dopo aver lavorato tre anni come assistente familiare ha trovato un lavoro con suo marito. Sono stati presi in un’azienda agricola vicino a Cerignola. Appena arrivati il datore di lavoro gli ha ritirato i documenti d’identità, dicendogli che gli servivano per fare il contratto di lavoro. Maria e suo marito dovevano raccogliere le cipolle per 2,5 euro all’ora. Sono stati sistemati in un garage con altri tre romeni.
“Negli ultimi tempi i romeni hanno imparato a pretendere che siano riconosciuti i loro diritti”, dice l’avvocata Camelia Cutolo
Cominciavano a lavorare alle sei del mattino e continuavano ininterrottamente fino all’una, senza avere neanche un po’ d’acqua. Poi riprendevano nel pomeriggio, fino alle dieci di sera. “Ci controllavano”, racconta Maria. “Non ci potevamo fermare neanche cinque minuti, e se cominciava a piovere, dovevamo rimanere lì e finire”. Quando l’azienda non aveva bisogno di loro, il padrone li “affittava” ad altri italiani. Non erano pagati, se non una volta alla settimana e solo quanto bastava per comprarsi lo stretto necessario. Dopo un mese si sono ribellati e per punizione sono stati lasciati una notte in aperta campagna. Sono stati trovati dai carabinieri. Solo dopo il loro intervento il padrone li ha pagati quanto doveva.
Un altro problema sono i frequenti incidenti sul lavoro, per i quali i romeni non ricevono sempre l’indennità. Lidia e Marian Creţu sono di Bacău e abitano con i tre figli a Cerignola. Marian ricorda i primi anni in Italia. “Sono arrivato con un amico e ci hanno sistemato in una cantina. Per un letto singolo pagavo cento euro. Ho dovuto dare cento euro anche a chi mi ha trovato lavoro”. Marian pagava una sorta di tassa per poter lavorare. Per tre mesi non ha visto un contratto. Ha avuto un incidente sul lavoro e per due settimane non è riuscito ad alzarsi. Non ha ricevuto neanche un euro per curarsi.
Le basse paghe che gli agricoltori italiani danno ai romeni spesso spiegano i prezzi bassi dei prodotti sugli scaffali, dice Emilia Bartoli Spurcaciu, che lavora all’Istituto nazionale confederale di assistenza (Inca-Cgil) in Romania. “È anche una forma di dumping sociale”, continua Bartoli Spurcaciu. Le aziende agricole italiane non riuscirebbero ad avere prezzi così bassi per i loro prodotti e a essere competitive in Europa se dovessero pagare 52 euro per sei ore e mezza di lavoro, più i contributi previdenziali. Così molte non offrono contratti di lavoro regolari, concedendo ai lavoratori benefici minimi. Bartoli Spurcaciu cerca di aiutare i romeni che hanno lavorato o lavorano in Italia, spiegandogli quali sono i loro diritti e come ottenerli, anche quando tornano in Romania.
Nel 2016 l’Italia ha cominciato a contrastare in modo più deciso il caporalato con una legge che inasprisce le pene: in caso di flagranza c’è l’arresto, la confisca dei beni dell’azienda agricola e altre sanzioni. Per molti agricoltori, però, il caporalato è un sistema che concilia domanda e offerta di lavoro. “Quando i frutti sono maturi e bisogna raccoglierli in pochi giorni servono centinaia di lavoratori per un periodo breve. Lo stato non riesce a stabilire regole che favoriscano un punto d’incontro tra domanda e offerta”, spiega Bartoli Spurcaciu.
Lo sfruttamento in agricoltura ha molte forme. Letizia Palumbo, ricercatrice al Migration policy centre a Fiesole, da dieci anni studia l’impiego dei lavoratori stranieri in Sicilia. Si è occupata delle donne della provincia di Ragusa, dove migliaia di migranti lavorano nelle serre, raccolgono frutti e legumi tutto l’anno. A volte nel caso delle donne c’è un doppio sfruttamento: lavorativo e sessuale. Cosa che non capita agli uomini, spiega la ricercatrice.
La responsabilità nei confronti della famiglia gioca un ruolo cruciale in queste dinamiche, spiega Palumbo. Molte donne che lavorano a Ragusa hanno portato con loro i figli dalla Romania. “Spesso i datori di lavoro violenti hanno usato i bambini per minacciare le donne o per renderle più vulnerabili”. Uno dei racconti più drammatici che le hanno fatto è quello di una donna sola con due bambini che abitavano con lei nell’azienda agricola, in una zona isolata. “Non c’erano mezzi di trasporto e i bambini dovevano andare a scuola. Il datore di lavoro si è offerto di portarli in macchina. Ma in cambio ricattava la madre e abusava di lei”. All’inizio la donna ha accettato la situazione, ma poi ha cercato di scappare. Quando l’uomo l’ha saputo ha smesso di darle acqua o cibo. Alla fine lei e i figli sono riusciti a fuggire grazie all’aiuto di una ong locale.
“Negli ultimi tempi i romeni hanno imparato a pretendere che siano riconosciuti i loro diritti”, dice l’avvocata Camelia Cutolo. Chi non è riuscito a ottenerli si è rifatto una vita altrove.
Molti romeni che abitavano a Cerignola si sono trasferiti, dice Ciprian Dumbravă. Alcuni fanno una stagione in Nordeuropa e poi tornano a Cerignola, perché ormai sono più legati all’Italia che alla Romania. Nell’Europa settentrionale gli vengono offerte condizioni di lavoro migliori e inoltre ricevono aiuti dallo stato, cosa che non succede in Italia, dove il costo della vita si è alzato. “È normale che ognuno vada dove sta meglio”, afferma.
I sostituti
Senza i romeni, il fabbisogno di manodopera a Cerignola e in altri comuni della zona è alto. Gli agricoltori locali cercano di sopperire con i lavoratori africani che arrivano in Italia via mare. In mancanza di uno status legale, molti africani vivono in accampamenti improvvisati. Uno di questi si trova vicino a Borgo Mezzanone, nella zona dove prima c’era un aeroporto militare. Ci abitano circa 1.500 persone, in uno scenario apocalittico. Lungo una pista sono stipate baracche, roulotte e tendopoli, occupate in maggioranza da uomini provenienti da Senegal, Mali o Gambia. Alcune baracche sono state trasformate in negozi, e davanti a locali improvvisati testine d’agnello cotte in fogli d’alluminio attirano potenziali clienti. Dalle casse esce musica reggae. La sera arrivano auto da cui scendono cinque o sei africani, di ritorno dalla raccolta dei pomodori.
La partenza dei romeni ha cambiato il rapporto di potere tra imprenditori agricoli e lavoratori. I romeni erano più disposti a sopportare le condizioni di lavoro difficili e una paga molto bassa, perché sapevano che si trattava di un impiego temporaneo e che in qualsiasi momento potevano tornare in Romania o trasferirsi in un altro paese. Gli africani, sapendo di dover rimanere in Italia per un periodo più lungo, cercano di ottenere condizioni e paghe migliori, spiega Letizia Palumbo.
“Per i datori di lavoro è meno rischioso assumere in modo irregolare dei cittadini comunitari rispetto agli extracomunitari, che magari non hanno i documenti”, dice Palumbo. Non possono essere multati o perseguiti se fanno lavorare dei romeni, che devono dimostrare alla polizia di essere sfruttati per rivendicare i loro diritti. “Sapendo che è una situazione temporanea e che torneranno in Romania, i romeni sono più disposti ad accettare condizioni di lavoro pessime. Inoltre non fanno molti sforzi per integrarsi, perché sanno che prima o poi torneranno nel loro paese”.
Per gli africani la partenza dei romeni può essere una buona notizia. In un vigneto biologico vicino a Cerignola, italiani e africani lavorano insieme. Qui incontro Alex, del Senegal, che prima si guadagnava da vivere vendendo merce contraffatta nel centro della città. A un certo punto ha avuto a che fare con la polizia e ha smesso. “Erano bei soldi, ma era rischioso”, spiega Alex. “Poi ho cominciato a lavorare nell’agricoltura. Guadagno di meno, ma va bene così”.
Quando dico a uno dei lavoratori italiani del vigneto che sono romeno, lui si mette a ridere e mi dice di conoscere una parola romena: maimu ţ ă (scimmia). Così un suo collega romeno rimproverava Alex, quando lavoravano insieme. All’improvviso il lavoratore italiano comincia a stuzzicare Alex, uno dei migliori lavoratori del gruppo, gridandogli maimu ţ ă. Alex ride imbarazzato. Ormai è da un po’ che nessuno lo chiama così. ◆ edl
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Questo articolo è uscito sul numero 1459 di Internazionale, a pagina 59. Compra questo numero | Abbonati