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Donald Trump vuole mettere le mani sul petrolio del Venezuela

La raffineria El Palito a Puerto Cabello, Venezuela, 21 dicembre 2025. (Matias Delacroix, Ap/LaPresse)

La vincitrice del premio Nobel per la pace, María Corina Machado, ha partecipato in videoconferenza a un incontro organizzato a Miami, negli Stati Uniti, con un gruppo di imprenditori e politici, tra cui il presidente statunitense Donald Trump. “Vi parlo di un’opportunità da 1.700 miliardi di dollari”, ha spiegato il mese scorso la leader dell’opposizione venezuelana, poche settimane dopo aver vinto il premio grazie alla sua opposizione a Nicolás Maduro, leader autocratico del paese.

Machado ha messo in risalto le enormi riserve di petrolio e gas del Venezuela – “Le apriremo tutte, dall’estrazione al raffinamento, a tutte le aziende interessate” – oltre ai minerali e all’infrastruttura elettrica. L’oppositrice aveva già parlato del “potenziale infinito” del suo paese per le aziende statunitensi in un podcast con il figlio più grande del presidente, Donald Trump Jr. Il suo messaggio ha suscitato forte interesse.

Il presidente Trump e i suoi collaboratori hanno dichiarato pubblicamente che le operazioni militari e le pressioni nei confronti di Maduro hanno come obiettivo quello di proteggere gli statunitensi dal traffico di droga. Ma in realtà il Venezuela non è un produttore di droga e le sostanze che passano dal paese sono dirette soprattutto verso l’Europa. Dietro le quinte, l’amministrazione Trump ha preso di mira i giacimenti di petrolio del Venezuela, i più ricchi del pianeta.

L’importanza di queste risorse è evidente nelle trattative segrete tra i funzionari statunitensi e Maduro e nelle conversazioni tra i collaboratori di Trump, Machado e altri rappresentanti dell’opposizione venezuelana.

In passato Trump aveva espresso pubblicamente il suo desiderio di mettere le mani sulle riserve petrolifere venezuelane. In un discorso rivolto ai repubblicani in North Carolina nel 2023, quattro anni dopo aver sostenuto i tentativi di rovesciare Maduro durante il suo primo mandato, Trump aveva dichiarato: “Quando ho lasciato la Casa Bianca il Venezuela era vicino al collasso. Avremmo assunto il controllo del paese e di tutto quel petrolio. Sarebbe stato proprio dietro l’angolo”.

Il ruolo del petrolio nell’aumento delle tensioni tra Maduro e Trump è stato confermato dall’operazione con cui l’esercito statunitense ha sequestrato una petroliera che viaggiava nel mare dei Caraibi trasportando greggio verso Cuba e la Cina. Trump ha dichiarato che avrebbe trattenuto il carico anche se la decisione dal punto di vista legale è abbastanza discutibile. Trump ha anche annunciato sui social media che gli Stati Uniti bloccheranno tutte le petroliere sanzionate che entreranno e usciranno dal Venezuela.

Le priorità di Washington

Tutto questo ha segnato un’improvvisa escalation nella campagna contro Maduro portata avanti da Trump negli ultimi mesi, di cui hanno fatto parte decine di attacchi contro imbarcazioni al largo delle coste venezuelane, in cui sono morte almeno 95 persone. Molti esperti di diritto ritengono che le operazioni statunitensi siano illegali.

Il Venezuela e il suo petrolio sono al centro di due delle priorità strategiche fissate recentemente da Trump: il dominio delle risorse energetiche e il controllo dell’emisfero occidentale. Il Venezuela possiede circa il 17 per cento delle riserve di petrolio conosciute, ovvero più di trecento milioni di barili, il quadruplo rispetto agli Stati Uniti. Nessun paese è coinvolto nell’industria petrolifera venezuelana più della Cina, superpotenza di cui Washington vorrebbe ridurre l’immensa presenza nel mercato occidentale.

“Quando Trump ha parlato del Venezuela e di altri paesi paragonabili nella produzione di greggio, ha sempre sottolineato l’importanza per gli Stati Uniti di avere accesso alle risorse petrolifere”, sottolinea Francisco R. Rodríguez, professore dell’università di Denver.

Trump ha parlato ripetutamente della possibilità di accaparrarsi le risorse naturali tipo il petrolio come ricompensa per gli interventi militari statunitensi in terra straniera. La frase “Ho sempre detto ‘prendete il petrolio!’” è stata un elemento ricorrente durante la sua campagna presidenziale del 2016.

Nel corso del suo primo mandato, Trump aveva dichiarato che si sarebbe “tenuto il petrolio siriano” in cambio della presenza dei soldati statunitensi nel paese. Inoltre, il presidente ha sostenuto che gli Stati Uniti avrebbero dovuto prelevare petrolio dai giacimenti iracheni e libici come forma di risarcimento per le operazioni militari che avevano rovesciato i regimi dei due paesi.

Il cerchio si stringe intorno a Nicolás Maduro
Negli attacchi statunitensi contro le imbarcazioni venezuelane sono morte più di settanta persone. E Washington sta pensando di destituire il presidente del Venezuela.

In un’autobiografia, l’ex consulente per la sicurezza nazionale John R. Bolton ha scritto che nel 2019 Trump aveva ordinato ai suoi collaboratori di assicurasi che Juan Guaidó, all’epoca leader dell’opposizione venezuelana, si impegnasse a garantire agli Stati Uniti un accesso al petrolio del paese (escludendo la Cina e la Russia) nel caso in cui fosse riuscito a strappare il potere a Maduro grazie a una campagna sostenuta da Washington. Nel suo libro, Bolton parla di “un passo molto azzardato”.

Anche Maduro considera il petrolio venezuelano come una risorsa geopolitica importante. I leader del paese si affidano infatti all’acquisto del petrolio da parte della Cina per fare fronte alle sanzioni economiche imposte dalla prima amministrazione Trump e mantenute dall’ex presidente Biden. Ad aprile la vicepresidente del Venezuela, Delcy Rodríguez, è andata a Pechino per chiedere ai leader cinesi di investire di più nell’industria petrolifera del suo paese e di aumentare gli ordini di greggio. La Cina compra già l’80 per cento del petrolio venezuelano.

Negli ultimi mesi, di fronte all’ostilità di Maduro e al ruolo della Cina, i collaboratori di Trump hanno cercato di trovare il modo di consentire alle aziende statunitensi di accedere al petrolio venezuelano, secondo funzionari ed ex funzionari.

Richard Grenell, inviato speciale che si occupa di Venezuela e presiede ilKennedy center, ha guidato la trattativa per trovare un accordo con Maduro. Il leader venezuelano ha presentato un’offerta a Trump che comprendeva l’apertura dell’industria petrolifera agli statunitensi, al di là dell’accesso limitato garantito alla Chevron, che opera nel paese con una licenza appena rinnovata da Washington.

Trump ha respinto la proposta perché altri consulenti lo hanno convinto che Maduro fosse inaffidabile e stesse solo cercando di guadagnare tempo. I sostenitori di questa tesi, guidati dal segretario di stato e consulente per la sicurezza nazionale Marco Rubio, spingono per rovesciare Maduro con la forza, sostenendo che un leader conservatore e orientato verso il libero mercato – ovvero Machado – favorirebbe le aziende statunitense e limiterebbe gli investimenti cinesi. In una telefonata dello scorso novembre, Trump ha invitato Maduro a dimettersi, ma il leader venezuelano si è rifiutato di lasciare il potere in tempi brevi nonostante l’assembramento di forze militari statunitensi nel mare dei Caraibi e le minacce ripetute di Trump di colpire non solo le imbarcazioni ma anche obiettivi all’interno dei confini venezuelani.

Lo scopo del sequestro della petroliera e delle nuove sanzioni contro il settore petrolifero venezuelano è quello di piegare Maduro, dimostrandogli che gli Stati Uniti sono disposti a soffocare la prima fonte di guadagno del paese, spiegano alcuni funzionari ed ex funzionari dell’amministrazione.

Secondo alcuni funzionari americani, con ogni probabilità gli Stati Uniti intercetteranno presto altre petroliere che trasportano greggio venezuelano. Washington potrebbe giustificare di nuovo queste azioni sostenendo che le imbarcazioni trasportano petrolio estratto in Iran, paese sottoposto a sanzioni più severe rispetto al Venezuela.

Negli ultimi anni è successo raramente che gli Stati Uniti sequestrassero una petroliera straniera. Edward Fishman, ex specialista di sanzioni per conto del dipartimento di stato, sottolinea che in ogni occasione Washington ha giustificato le proprie azioni con il sospetto che il petrolio iraniano fosse usato per finanziare i guardiani della rivoluzione islamica, la forza militare iraniana che la prima amministrazione Trump ha inserito nell’elenco delle organizzazioni terroriste.

Un aumento dei sequestri delle petroliere che trasportano petrolio venezuelano potrebbe spingere le aziende petrolifere internazionali a evitare il paese, provocando una forte perdita di guadagni per Caracas, spiega Tom Warrick, ex funzionario del dipartimento di stato che ha lavorato anche come avvocato nel settore petrolifero.

“La strategia dell’amministrazione Trump è chiara: vogliono prendere di mira il flusso monetario”, spiega Warrick. “Il Venezuela dispone di una quantità di contante ridotta, dunque la perdita delle petroliere farà male, in tempi abbastanza brevi”. Trump non ha ammesso pubblicamente che l’obiettivo della sua campagna è quello di garantire alle aziende statunitensi una fetta più consistente del petrolio venezuelano, ma secondo alcune fonti ne ha parlato spesso in privato.

Nei mesi scorsi i funzionari americani hanno negoziato con Maduro la possibilità di estromettere le aziende petrolifere russe e cinesi dal Venezuela e assegnare a quelle statunitensi un ruolo maggiore. Negli ultimi anni la Cina ha ridotto i propri investimenti diretti nell’industria petrolifera venezuelana. Le fonti riferiscono che Maduro era sembrato interessato all’idea di ottenere un maggiore coinvolgimento da parte degli statunitensi, ma ha sempre fatto presente di non avere intenzione di cedere il potere. Per questo motivo le trattative sono sempre fallite.

Trump ha autorizzato la Cia a condurre operazioni segrete in Venezuela. Il presidente potrebbe decidere di rovesciare Maduro con la forza, utilizzando il servizio di sicurezza come testa di ponte o ricorrendo all’esercito (o entrambe le cose). Tuttavia, molti esperti di questioni venezuelane ritengono che un’azione simile creerebbe una situazione caotica nel paese.Un Venezuela in preda all’instabilità potrebbe complicare i piani delle aziende statunitensi che vogliono ingrandire la propria presenza nel paese.

Bisogna ricordare che nessuna grande azienda petrolifera occidentale è entrata immediatamente in Iraq o in Libia dopo gli interventi militari statunitensi che hanno rovesciato quei governi, innescando in entrambe i casi una guerra civile. Sono passati anni prima che le grandi aziende cominciassero a operare nei due paesi. Di contro, le aziende cinesi hanno firmato contratti per sfruttare i giacimenti nel sud dell’Iraq già durante la guerra civile, e in generale hanno mostrato una maggiore tolleranza rispetto ai rischi legati alle attività nelle zone di conflitto.

Le grandi aziende statunitensi potrebbero cambiare i loro piani a seconda che la pressione di Washington su Caracas e un qualsiasi intervento militare nel paese creino una situazione stabile o caotica. “Le aziende petrolifere statunitensi lavorano in aree pericolose, ma ciò non toglie che alla fine saranno interessate esclusivamente ai profitti”, spiega Oliver B. John, ex diplomatico americano che ha lavorato nei paesi del Golfo.

La Chevron opera in Venezuela da un secolo ed è l’unica azienda statunitensi rimasta nel paese quando il governo di Caracas, alcuni decenni fa, ha costretto le aziende occidentali a diventare partner di minoranza in joint venture con l’azienda statale Petróleos de Venezuela S. A. (Pdvsa). Le aziende statunitensi sono state molto presenti in Venezuela fino agli anni settanta, prima che i leader venezuelani mettessero il settore sotto il controllo dello stato, creando la PDVSA sull’onda dei movimenti democratici e nazionalisti. Il leader socialista Hugo Chávez ha inserito la nazionalizzazione dell’industria petrolifera nella costituzione venezuelana non appena conquistato il potere, nel 1999.

Machado ha spiegato come vuole rimodellare l’industria petrolifera nel caso in cui riuscisse a conquistare il potere. A giugno, in un intervento in videoconferenza al Council of the Americas, un’associazione di imprenditori con sede a New York, ha promesso che avvierebbe “un processo di privatizzazione”, aprendo l’azienda statale agli investimenti privati. L’obiettivo del piano di Machado è quello di portare la produzione a tre milioni di barili al giorno entro dieci anni, triplicando il ritmo attuale.

Tuttavia, la nazionalizzazione del settore è molto apprezzata dai venezuelani. Secondo Rodríguez “privatizzare l’industria petrolifera venezuelana sarebbe una mossa controversa in molti sensi”. Le difficoltà del settore si sono intensificate dopo che le sanzioni imposte dalla prima amministrazione Trump hanno ostacolato le operazioni in tutto il paese, anche nelle raffinerie che possono lavorare il petrolio con un alto contenuto di zolfo, una caratteristica tipica del greggio venezuelano. La joint venture a cui ha partecipato la Chevron ha usato le raffinerie di petrolio lungo la costa del golfo del Messico. L’ingresso di altre aziende statunitensi in Venezuela potrebbero trarre vantaggio da questo meccanismo.

La più grande azienda straniera che investe e opera in Venezuela è la China national petroleum corporation (Cnpc), un’azienda statale che fa parte di una joint venture con la Pdvsa. Dal 2019, però, la Cnpc ha assunto un ruolo più defilato per evitare di violare le sanzioni statunitensi. L’anno scorso un’azienda privata cinese, la China concord resources corporation, ha firmato un contratto ventennale con la Pdvsa per investire più di un miliardo di dollari nei giacimenti venezuelani.

Oggi il petrolio venezuelano diretto in Cina è il risultato degli acquisti da parte di aziende private cinesi, spiega Rodríguez. In passato, invece, era usato come pagamento per i prestiti fatti a Caracas. Tuttavia, il Venezuela ha smesso di pagare anni fa (nel 2020 il debito ammontava a 19 miliardi) e così la Cina ha chiuso i rubinetti.

Secondo Margaret Myers della Johns Hopkins university, esperta di rapporti tra la Cina e l’America Latina, i funzionari e i dirigenti cinesi hanno assunto un atteggiamento sempre più prudente rispetto al Venezuela, ma allo stesso tempo hanno continuato a cercare il modo di collaborare con il governo Maduro. “Da parte cinese c’è un forte disincanto”, spiega Myers. “Ma in generale a Pechino sono determinati a non fare troppi cambiamenti”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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