In settimana tutti i fili più importanti della politica statunitense – l’autoritarismo di Trump, la sua strategia internazionale, le sue difficoltà in politica interna – si sono intrecciati nella “questione venezuelana”. Partiamo dall’inizio.

Da settembre gli Stati Uniti hanno condotto una serie di attacchi, nel mar dei Caraibi e nell’oceano Pacifico, contro imbarcazioni provenienti dal Venezuela e accusate di trasportare droga, uccidendo quasi novanta persone. Nella prima di queste operazioni, il 2 settembre, l’esercito ha lanciato un missile contro una barca su cui viaggiavano undici persone. Quando il fumo si è diradato e si è capito che c’erano due sopravvissuti aggrappati al relitto, è stato lanciato un secondo missile, che li ha uccisi. La ricostruzione, pubblicata in esclusiva dal Washington Post il 28 novembre, ha alimentato i dubbi già forti sull’offensiva di Washington nella regione, portando il congresso a chiedere chiarimenti.

L’amministrazione Trump difende la legittimità dell’operazione sostenendo che gli Stati Uniti sono in guerra contro i narcotrafficanti, e dunque le imbarcazioni sospettate di trasportare droga, con tutte le persone a bordo, possono essere considerate obiettivi militari. Riguardo all’episodio specifico, dopo il primo attacco i due sopravvissuti avrebbero cercato di comunicare via radio con altri affiliati del “cartello” per salvare se stessi e il carico di droga, quindi erano da considerarsi ancora combattenti invece che naufraghi indifesi, e di conseguenza anche la loro eliminazione sarebbe stata un atto legittimo.

Un’idea senza senso

Gli esperti di diritto e molti parlamentari pensano che questa tesi non stia in piedi, e sostengono che l’uccisione dei due sopravvissuti potrebbe essere una violazione evidente del diritto internazionale, che vieta di prendere di mira intenzionalmente i combattenti feriti.

Ma c’è un problema più ampio che rischia di passare in secondo piano se ci si concentra solo sul secondo missile del 2 settembre: è l’idea stessa che gli Stati Uniti siano in guerra con i narcotrafficanti a non avere senso. La pretesa di applicare le leggi di guerra a un fenomeno criminale come il traffico di droga non ha basi giuridiche. Da sempre Washington affronta il narcotraffico in mare attraverso la guardia costiera, che intercetta le imbarcazioni sospette, arresta gli equipaggi e li porta davanti ai tribunali federali.

Il narcotraffico, spiegano gli esperti, non può essere equiparato a un attacco armato contro gli Stati Uniti, a maggior ragione in questo caso, visto che il fentanyl, la droga sintetica che secondo Trump minaccia gli americani, non passa dal Venezuela. Una volta smontato il presupposto iniziale, l’intera campagna di attacchi nei Caraibi si riduce semplicemente a una serie di omicidi.

Le implicazioni di questa vicenda sono così inquietanti da spingere anche alcuni repubblicani a prendere le distanze, un ulteriore indizio del progressivo indebolimento della presa di Trump sul partito. E come è successo dopo l’attacco ai siti nucleari iraniani, la possibilità di una guerra con il Venezuela sta già spaccando il movimento Maga.

A rendere tutto più inquietante c’è il fatto che queste operazioni (l’ultima, il 4 dicembre, ha ucciso quattro persone) vanno di pari passo con la campagna di pressione sempre più asfissiante contro il regime venezuelano di Nicolás Maduro. Gli Stati Uniti stanno mettendo in campo il più imponente rafforzamento militare nei Caraibi dai tempi della crisi dei missili di Cuba del 1962: migliaia di soldati, droni avanzati, caccia, cacciatorpediniere e incrociatori con missili guidati, e soprattutto la portaerei Uss Gerald Ford con il suo gruppo d’attacco. Elicotteri delle forze speciali hanno operato a meno di cento miglia dalla costa venezuelana, e Trump ha autorizzato anche operazioni segrete della Cia all’interno del paese.

Il 29 novembre il presidente ha dichiarato che lo “spazio aereo sopra e intorno al Venezuela” dovrebbe essere considerato chiuso, anche se non ha spiegato cosa significhi concretamente e anche se Washington non sembra aver intrapreso misure concrete per imporre una no-fly zone sul paese sudamericano.

Negli stessi giorni alcune fonti vicine al quotidiano The Miami Herald hanno riferito di una telefonata fra Trump e Maduro, avvenuta il 21 novembre, in cui il primo ha offerto al secondo la garanzia di un’uscita sicura verso un paese terzo per sé e per la famiglia in cambio di dimissioni immediate. Maduro ha rifiutato l’offerta. Trump ha anche annunciato che le operazioni militari contro il cosiddetto Cartel de los soles, indicato da Washington come organizzazione terroristica, si allargheranno ad attacchi di terra. Dato che secondo gli Stati Uniti lo stesso Maduro è a capo del cartello, le operazioni potrebbero anche includere attacchi contro il governo e l’esercito venezuelani.

Quale può essere lo sbocco finale di questa campagna d’intimidazione? È tutto così ambiguo che è difficile sbilanciarsi (un’ambiguità che, come succede su altri fronti, a cominciare da quello ucraino, riflette anche lo scontro tra le diverse fazioni dell’amministrazione che si contendono l’attenzione di Trump).

Un tentativo di rovesciare il regime venezuelano sarebbe molto rischioso, perché potrebbe creare un vuoto di potere in cui unità militari rivali, fazioni politiche e gruppi armati cominciano a farsi la guerra per prendere il controllo, una situazione che potrebbe scatenare un’ondata migratoria verso nord, anche verso gli Stati Uniti.

È possibile che la Casa Bianca continui a colpire le imbarcazioni e conduca qualche attacco in Venezuela (per esempio colpendo laboratori, piste clandestine o basi dei gruppi armati sostenuti dal regime) fino a quando, a un certo punto, dichiarerà di aver raggiunto i suoi obiettivi. Allo stesso tempo, la potenza militare mobilitata da Washington è troppo grande per essere ignorata. Alcuni fanno un parallelo con la situazione tra Ucraina e Russia nel febbraio 2022, quando gli esperti pensavano che un’invasione non avesse molto senso dal punto di vista di Mosca, ma era impossibile escludere quella possibilità visto l’enorme dispiegamento di truppe russe al confine.

I prossimi giorni probabilmente ci diranno qualcosa di più. Per ora c’è un’altra domanda a cui provare a rispondere. Cosa vuole Trump dal Venezuela?

Non è un mistero che consideri la politica internazionale come uno strumento per estorcere risorse ad altri paesi (con questo spirito i negoziatori statunitensi hanno condotto le trattative per gli accordi di pace tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda e stanno conducendo quelle tra Russia e Ucraina). Si potrebbe quindi pensare che la Casa Bianca punti alle risorse petrolifere del Venezuela, una narrazione comprensibilmente sostenuta dal regime di Maduro. Ma a ben guardare è una lettura che convince fino a un certo punto.

È vero che il paese sudamericano possiede le più grandi riserve di greggio del mondo – 303 miliardi di barili, circa il 17 per cento del totale globale – ma la sua produzione è crollata da anni e oggi è sotto il milione di barili al giorno. Il petrolio dell’Orinoco, pesante e ad alto contenuto di zolfo, è costoso da estrarre e poco appetibile.

Ed è vero che Trump è molto sensibile al tema del prezzo della benzina, ma va tenuto conto che gli Stati Uniti oggi sono il primo produttore mondiale e non dipendono dal petrolio venezuelano. Inoltre, per rendere efficiente e produttivo il settore petrolifero venezuelano servirebbero investimenti colossali e interventi che durerebbero anni, e coinvolgerebbero non solo aziende statunitensi ma anche europee e cinesi.

E ovviamente non sta in piedi la giustificazione legata alla lotta al traffico di droga, soprattutto alla luce della decisione di Trump di concedere la grazia a Juan Orlando Hernández, ex presidente dell’Honduras che nel 2022 era stato estradato negli Stati Uniti per poi essere condannato a 45 anni per narcotraffico e cospirazione per il possesso di armi. Secondo i procuratori statunitensi, per oltre vent’anni Hernández ha aiutato i cartelli a far arrivare più di 500 tonnellate di cocaina negli Stati Uniti, ha finanziato la propria carriera politica con tangenti, incluso un milione da El Chapo, capo del cartello messicano di Sinaloa, e usato polizia ed esercito per proteggere i narcotrafficanti e garantirne l’impunità.

Il vero obiettivo

Resta quindi un’ultima chiave di lettura, quella legata alla strategia della Casa Bianca nella regione. Tornato al potere, Trump ha ricalibrato l’approccio internazionale degli Stati Uniti mettendo al centro la priorità di controllare l’emisfero occidentale, dopo anni in cui gli sforzi si sono concentrati sull’Asia. Sotto le pressioni dei falchi ossessionati dall’America Latina, in particolare il segretario di stato Marco Rubio, il presidente sta ridefinendo gli equilibri della regione con un misto di pressioni economiche, forza militare e interventi diplomatici.

Diversi funzionari dell’amministrazione hanno ammesso al New York Times che l’obiettivo reale è riaffermare il dominio americano su quella parte del pianeta, assicurandosi risorse, accesso privilegiato ai mercati e una rete di governi allineati. In questa logica, gli Stati Uniti premiano chi coopera – come Argentina, El Salvador, Ecuador e Guatemala, che hanno ottenuto accordi commerciali, benefici diplomatici o addirittura un salvataggio finanziario nel caso di Buenos Aires – mentre puniscono duramente chi si discosta dalla linea di Washington. I regimi autoritari di sinistra di Venezuela, Cuba e Nicaragua sono diventati i principali bersagli, ma anche governi democratici critici, come quello colombiano di Gustavo Petro, hanno subìto sospensioni di aiuti e sanzioni personali.

Da qualche settimana circola un’espressione brutta ma che rende l’idea: “dottrina Donroe”, un gioco di parole con il nome Donald che richiama la dottrina Monroe, cioè la strategia con cui a inizio ottocento il presidente James Monroe cercò di tenere lontane le potenze europee dall’emisfero.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

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