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La pace tra Israele e i paesi del Golfo voluta dalla Casa Bianca

Le bandiere di Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Israele e Bahrein a Netanya, in Israele, 14 settembre 2020. (Nir Elias, Reuters/Contrasto)

Il 15 settembre, alla Casa Bianca, saranno firmati alcuni accordi tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il regno del Bahrein. Esistono diversi modi di analizzare questo evento, con visioni contraddittorie che riassumono lo stato di un Medio Oriente in piena mutazione. Alcuni osservano la situazione con una buona dose di cinismo, altri sono invece carichi di ottimismo e altri ancora si accontentano di uno sguardo lucido e disilluso.

I cinici non faranno fatica a sostenere che una cerimonia dal carattere storico, organizzata alla Casa Bianca a sei settimane da elezioni in cui è candidato il presidente in carica, costituisce un’occasione elettorale, e potrebbe essere gradita soprattutto dalla base evangelica di Trump, nettamente filoisraeliana.

Il presidente ha voluto questi accordi di pace e ha voluto una foto che ne ricorda un’altra, quella che nel 1993 ha immortalato Bill Clinton insieme al palestinese Yasser Arafat e agli israeliani Yitzhak Rabin e Shimon Peres e che è valsa ai tre il Nobel per la pace.

La storia è più complessa
La stretta di mani tra Benjamin Netanyahu e i leader del Golfo non ha la stessa portata storica, ma possiamo stare certi che Donald Trump dichiarerà che nessuno ha mai fatto meglio di lui per portare la pace in Medio Oriente. I suoi sostenitori, naturalmente, chiederanno che gli si attribuisca il Nobel per la pace, onorificenza già toccata a un certo Barack Obama…

Ma la storia è più complessa di quanto appaia, ed è qui che entrano in scena gli ottimisti. Di sicuro qualcuno considererà gli accordi come una nuova tappa nel processo di accettazione di Israele nella regione, a più di sessant’anni dalla nascita dello stato ebraico. Gli Emirati e il Bahrein si uniscono agli unici due stati arabi ad aver riconosciuto Israele, l’Egitto e la Giordania.

La logica che prevale in questa inversione di rotta progressiva degli stati del Golfo è dettata da un nemico comune, l’Iran

Altri stati potranno seguire l’esempio spinti dall’amministrazione Trump, a cominciare dall’Arabia Saudita, guardiano dei luoghi sacri dell’islam e diventata la principale potenza sunnita dopo l’eclisse egiziana. Per il momento il vecchio re Salman non vuole compiere questo passo finché Israele non accetterà il piano di pace con i palestinesi proposto da Riyadh nel 2002. Ma non è detto che il principe ereditario Mohammed bin Salman, in attesa del suo momento, abbia le stesse riserve del padre.

La logica che prevale in questa inversione di rotta progressiva degli stati del Golfo è chiaramente dettata da un nemico comune, l’Iran, che li spinge ad allearsi con l’unica altra potenza regionale apertamente ostile a Teheran, ovvero Israele. Come recita l’adagio, “il nemico del mio nemico è mio amico”.

Senza stupore
Resta la terza categoria, quella dei lucidi e disillusi. Queste persone osservano il balletto di alleanze constatando che nel cambiamento dell’equazione geopolitica nazionale c’è un grande assente: la questione palestinese. Non c’è da stupirsi, considerando che i paesi del Golfo non sono mai stati particolarmente interessati alla sorte dei palestinesi.

Ufficialmente gli accordi di pace con gli Emirati e il Bahrein hanno permesso di allontanare la minaccia dell’annessione di una parte della Cisgiordania. Ma il vero problema dei palestinesi è l’annessione rampante attraverso una colonizzazione che non si è mai fermata e che ormai rende impossibile la soluzione dei due stati anche se le condizioni politiche lo permettessero.

Evidentemente per Israele è più facile fare pace con Abu Dhabi o Manama che con Ramallah o Gaza.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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