02 luglio 2020 13:31

“È un anno e mezzo che sentiamo parlare di sovranità senza che sia successo niente La giornata di oggi è stata una grande farsa”, ha dichiarato il 1 luglio Yossi Dagan, uno dei leader dei coloni israeliani. Per mesi il 1 luglio è stato pubblicizzato come la data in cui il primo ministro Benjamin Netanyahu avrebbe annunciato l’annessione di una parte considerevole della Cisgiordania occupata. Ma Netanyahu non ha detto niente. Perché?

Perché a volte un cadavere può essere utile se non lo seppellisci. Basta tirarlo fuori di tanto in tanto, truccarlo un po’, ed è possibile convincere alcune persone che costituisca ancora una minaccia.

La “soluzione a due stati”, secondo la quale un ministato indipendente palestinese condividerebbe la Palestina storica con il molto più esteso e potente “stato nazionale ebraico” d’Israele, è in teoria l’obiettivo dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi degli ultimi trent’anni. Ma in realtà è una soluzione morta da tempo.

Due minacce
È stato Netanyahu a ucciderla, la prima volta che è stato premier (1996-1999), quando ha fatto ben attenzione a non conficcarle il paletto nel cuore ma continuando ad agitarne lo spauracchio per spingere gli israeliani di destra, sempre più numerosi, a votare per lui, che si presentava come “mister sicurezza”.

Alla fine ha aggiunto un’altra minaccia alla sua retorica elettorale, quella di un Iran sempre sul punto di procurarsi armi nucleari. Di questa sembra addirittura sinceramente convinto. Ma la “minaccia” della soluzione a due stati è sempre rimasta un’arma fondamentale della sua propaganda. Perciò ha osservato l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti nel 2016 con sentimenti contrastanti.

Netanyahu ha sposato l’ossessione di Trump per l’Iran, ma l’accordo di pace israelo-palestinese sostenuto dal presidente statunitense lo convinceva meno. Clamorosamente sbilanciato a favore d’Israele, non aiutava i progetti politici a lungo termine di Netanyahu.

Per corteggiare gli elettori cristiani evangelici statunitensi, Trump si è schierato a favore di un Israele più grande, che incorporasse buona parte della Cisgiordania. Questo territorio doveva essere destinato al futuro stato palestinese, ed era quindi un’occasione irripetibile per parte degli israeliani. Ma, stranamente, Netanyahu l’ha tirata per le lunghe.

Trump ha gettato delle esche ai suoi sostenitori negli Stati Uniti. Ha sostenuto l’annessione formale delle alture del Golan (un territorio sottratto alla Siria nel 1967). Ha riconosciuto l’annessione illegale, da parte d’Israele, dell’intera città di Gerusalemme (compresa la parte araba), spostando lì l’ambasciata statunitense da Tel Aviv.

Netanyahu preferisce lo status quo e temporeggia, nella speranza di poter evitare di mantenere le sue promesse

Lo scorso gennaio il presidente degli Stati Uniti ha perfino reso pubblico un “piano di pace” che concede a Israele il via libera per annettere quelle parti di Cisgiordania dove seicentomila coloni ebrei hanno già eretto le proprie case. Ma anche qui Netanyahu non si è mosso finché tre elezioni perse in un anno non l’hanno spinto a forzare la mano.

Ha cominciato promettendo – non era la prima volta, ma l’ha fatto con più fervore – che se il partito Likud avesse ottenuto abbastanza seggi da formare una coalizione di governo, avrebbe davvero annesso una parte consistente della Cisgiordania. In questo modo si è assicurato una parte di voti dei coloni e degli ultraortodossi sufficiente a formare un governo di coalizione per la terza volta. Ma a quel punto doveva mantenere la promessa dell’annessione.

Minaccia in fumo
Il problema dell’annessione è sia nazionale sia personale. Dal momento che Israele controlla militarmente già tutta la Cisgiordania, e amministra di fatto un terzo del territorio occupato dai coloni ebrei come parte d’Israele, i vantaggi derivanti dall’annessione non sarebbero molti, mentre i costi sarebbero alti.

In primo luogo l’annessione è illegale, e potrebbe portare nuove sanzioni e boicottaggi nei confronti di Israele. In secondo luogo potrebbe scatenare una nuova rivolta dei milioni di palestinesi che vivono nelle aree occupate, e causare la rottura delle relazioni con vicini arabi – sempre più amichevoli – come Giordania, Egitto e Arabia Saudita.

Ma forse la cosa più importante per Netanyahu è che l’annessione di un’ampia parte dei territori occupati manderebbe in fumo la tanto vagheggiata minaccia dei “due stati”, che è stata la sua più grande risorsa politica, e non avrebbe più la possibilità di usarla per allettare il blocco dei coloni in future elezioni. Preferisce lo status quo e oggi temporeggia in questa situazione di stallo, nella speranza di poter evitare di mantenere le sue promesse.

L’ha già fatto in passato, e la cosa potrebbe ripetersi. Tuttavia i sostenitori dell’annessione nel suo governo di coalizione, e più in generale nel paese, sono in agitazione visto che le prospettive di rielezione di Donald Trump a novembre appaiono ridursi. La finestra d’opportunità sembra chiudersi, e ora vogliono fatti.

Netanyahu è inoltre alla disperata ricerca di una vittoria di qualche tipo, essendo attualmente sotto processo per corruzione. Il risultato potrebbe essere un compromesso che non fa felice nessuno: un’annessione simbolica di alcuni insediamenti ebraici vicini al confine ufficiale israeliano, e per il resto nessun cambiamento.

Forse per la prima volta nella storia, gli interessi politici e personali di Netanyahu, l’effettivo interesse di Israele e gli interessi della pace mondiale sono tutti allineati. Godiamocelo finché dura.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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