01 settembre 2020 09:38

Volo diretto Tel Aviv-Abu Dhabi, sorvolando l’Arabia Saudita. Il viaggio effettuato il 31 agosto dalla compagnia israeliana El Al ha segnato un momento storico. Non è ancora una tratta regolare, ma solo un volo speciale con a bordo una delegazione israeliana e una statunitense, invitate dagli Emirati Arabi Uniti.

L’oggetto dell’incontro è la normalizzazione dei rapporti tra lo stato ebraico e un paese arabo come gli Emirati, lontani da quella che un tempo chiamavamo “linea del fronte” ma comunque una potenza economica e politica nella regione.

L’annuncio del riavvicinamento, arrivato il mese scorso, era stato un colpo di scena, anche se i contatti tra Israele e le monarchie del Golfo, per quanto discreti, erano ormai frequenti.

Esistono diversi modi per “leggere” questo accordo che segna sicuramente un cambiamento nel paradigma regionale ma non un progresso reale verso la pace in Medio Oriente, almeno per il momento.

Israele ha deciso di fare pace con i nemici lontani per non dover fare pace con i suoi vicini palestinesi

La prima chiave di lettura è geopolitica, con una nuova suddivisione delle linee di frattura nella regione, che un tempo separavano Israele dai vicini arabi. Dopo il fallimento degli accordi di Oslo e l’interruzione del dialogo con i palestinesi, oggi esistono nuove minacce che riavvicinano i nemici del passato. Tra queste c’è soprattutto l’Iran, avversario comune delle monarchie sunnite del Golfo, di Israele e dell’amministrazione Trump. Ma ci sono anche la Turchia e il Qatar, con cui gli Emirati si scontrano già in territorio libico e contro cui è stato creato un blocco israeliano-arabo nel Mediterraneo sul petrolio e il gas.

La seconda chiave di lettura è chiaramente il prisma palestinese. La Palestina è la grande sconfitta della nuova situazione regionale. Il peso politico dei palestinesi nel mondo arabo si è ridotto drasticamente, sicuramente all’interno dei regimi anche se non presso l’opinione pubblica. In questo senso è evidente che Israele ha deciso di fare pace con i nemici lontani per non dover fare pace con i suoi vicini.

In questa vicenda il ruolo degli Stati Uniti è cruciale, perché Donald Trump ha un bisogno vitale di ottenere successi prima dell’elezione di novembre. Questo spiega la presenza a bordo del volo di El Al di Jared Kushner, genero del presidente e perno di questa campagna diplomatica, che spera di coinvolgere un altro paio di paesi arabi nelle prossime settimane.

Questi accordi hanno da un lato il sapore di un evento storico, con l’accettazione dell’esistenza di Israele in una parte del mondo arabo e l’infrazione di un tabù antico; ma dall’altra c’è anche il freddo calcolo di uomini politici come il premier israeliano Benjamin Netanyahu, Trump o Mohammed bin Zayed, l’uomo forte degli Emirati.

Siamo lontani dalle emozioni suscitate dalla presenza di Sadat a Gerusalemme nel 1977 o dalla stretta di mano tra Rabin e Arafat alla Casa Bianca nel 1993. Ma l’epoca e la posta in gioco sono cambiate. Il nuovo realismo mediorientale sta prendendo forma.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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