09 maggio 2016 12:45

Forse non ci avete mai pensato, ma provate a fare mente locale: le buone notizie sono più complicate da gestire di quelle cattive. Lo sono per molte ragioni piuttosto facili da intuire.

Provo a elencarne alcune. Ma notate che oltre la metà delle ragioni (tutte quelle che ho segnato con un asterisco) è legata alla percezione soggettiva, non alla sostanza delle notizie.

Le buone notizie non suscitano nel pubblico emozioni forti come rabbia o paura*. Per questo motivo trasmettono meno urgenza, e sembrano meno necessarie*. Quindi sono diffuse di meno e sono più difficili da trovare.

Catturare l’attenzione

Hanno spesso bisogno di maggiori spiegazioni, e di essere contestualizzate. Possono apparire melense, zuccherose, buoniste, scipite, insulse, leziose, sdolcinate, stucchevoli*. O possono apparire enfatiche, celebrative, apologetiche, manipolatorie e strumentali*. E questo suscita il sospetto che siano asservite e filogovernative, qualsiasi sia il governo, perfino se la notizia non c’entra con il governo (per esempio, perché viene dall’estero*).

È più facile prestare fede a una cattiva notizia che a una buona notizia, perfino se è sostenuta da dati oggettivi (per esempio, i dati sulla diminuzione globale dalla fame, della povertà e della violenza*). Una cattiva notizia resta una notizia anche se è scritta male o di fretta. Una buona notizia, no: diventa un estratto del bollettino parrocchiale.

E poi le buone notizie difficilmente sono accompagnate da immagini forti. E oggi le immagini sono più importanti che mai per catturare l’attenzione.

Le buone notizie funzionano bene se si integrano nel palinsesto dell’informazione, che dev’essere equilibrato

Infine, essere scettici, cinici e disincantati appare più tosto e moderno che essere fiduciosi e speranzosi*. Senza contare che su un delitto o una catastrofe i mezzi d’informazione possono, a furia di approfondimenti, prosperare per lunghi periodi. Le buone notizie si esauriscono più in fretta.

In realtà, e se volessimo essere più precisi, dovremmo smettere di identificare come “buone notizie” le notizie di segno positivo: sono notizie come tutte le altre che rimandano a un mondo fatto di luci e ombre. Se si vuole raccontare il mondo sul serio, né la luce né l’ombra vanno ignorate.

Tra l’altro: in Italia c’è una rete di oltre sei milioni e mezzo di persone che fanno volontariato. È un pubblico tanto importante quanto trasversale in termini geografici e di collocazione politica, pronto a prestare attenzione alla parte luminosa del mondo e probabilmente desideroso di farlo.

Giornalismo costruttivo

Ma per rendere attraente una buona notizia non basta chiamarla best practice, dice Alessio Maurizi nel corso della seconda parte dell’incontro Giornalismo oggi: c’è ancora spazio per le buone notizie? (qui una sintesi della prima parte).

Questi sono i suoi suggerimenti sul trattamento giornalistico delle notizie positive: funzionano meglio le storie locali di quelle nazionali, che appaiono più controverse. È difficile trovare buone storie grazie alle agenzie di stampa, che fanno quello che possono ma finiscono sempre per dare grande rilevanza alle dichiarazioni dei politici. Meglio cercare in rete, sui siti dedicati (ce ne sono diversi) o spulciando la cronaca locale.

Le buone notizie sono storie di idee brillanti per risolvere problemi complicati

Le buone notizie funzionano bene se si integrano nel palinsesto dell’informazione, che dev’essere equilibrato. È la prospettiva aperta dal giornalismo costruttivo, che si sforza di restituire i diversi aspetti di una notizia. Per esempio: c’è stato un grave terremoto (parte negativa). Grazie all’edilizia antisismica i danni sono stati contenuti (parte positiva).

Oggi le buone notizie sono sostanzialmente storie di idee brillanti per risolvere problemi complicati. In campo ambientalista se ne trovano tante. C’è, per esempio, la storia (ancora ampiamente sconosciuta in Italia) dei comuni virtuosi per politiche ambientali. Pochi ne hanno sentito parlare, ma il maestro elementare Rossano Ercolini, il premiatissimo (all’estero) fondatore, è stato perfino ricevuto da Barack Obama, e governa una fitta rete di relazioni internazionali.

C’è la storia di Daniela Ducato, imprenditrice sarda della bioedilizia, che a partire dagli scarti (della lana, del latte, del mare) ha dato vita a una rete di aziende che producono materiali edili eccellenti e innovativi e danno lavoro a centinaia di persone.

Naturalmente, bisogna essere cauti e valutare attentamente quanto si dice, per esempio, quando si raccontano buone pratiche nate come operazioni di green washing, cioè per dare una sciacquata ecologista all’operato di aziende o comuni che con l’ecologia hanno poco a che fare. E allora bisogna valorizzare la pratica positiva, distinguendola però dal discutibile praticante.

Va evitato a ogni costo il rischio del buonismo melenso. Lo si combatte con l’orgoglio, la forza, l’emotività. Oppure lo si combatte con la leggerezza e l’ironia, quando si incontrano fatti curiosi (ma comunque, a loro modo, importanti) come l’iniziativa degli ambientalisti che aiutano i rospi ad attraversare la strada.

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