Poco prima dell’alluvione in Emilia-Romagna, il principale problema dell’Italia dal punto di vista climatico era la carenza idrica. Poi sono arrivate le piogge estreme che hanno ribaltato i piani e le priorità di governo e istituzioni. Ma siccità e alluvioni sono due fenomeni strettamente collegati, e in futuro saranno sempre più frequenti, questa è una tendenza certa. Continuare a proporre soluzioni emergenziali non è più una strategia efficace e soprattutto sostenibile dal punto di vista economico.

Per capire meglio il contesto climatico in cui si è verificato l’alluvione dello scorso maggio può essere utile ripercorrere i fatti principali di quei giorni.

28 aprile
Lo spettro di una seconda estate in condizioni di siccità estrema è sempre più concreto. Dal 6 aprile si attende la nomina del commissario straordinario. Il suo ruolo è quello di rendere più semplici le procedure per costruire nuovi invasi, impianti per il riutilizzo delle acque reflue e per la desalinizzazione. Opere che potevano essere pianificate da tempo visto i noti scenari climatici. Il commissario straordinario contro la siccità, Nicola dell’Acqua, sarà nominato tardivamente dal governo il 4 maggio. Nel frattempo le previsioni annunciano una svolta meteorologica con l’arrivo di una forte perturbazione sulle zone adriatiche tra il 1 e il 3 maggio.

1-3 maggio
Arriva la pioggia. All’inizio è assorbita bene dai terreni asciutti, senza troppi effetti. Dopo 24 ore di precipitazioni ininterrotte, più copiose del previsto, il suolo comincia a diventare saturo d’acqua e dal 2 maggio i fiumi cominciano a salire rapidamente. Ci sono alcune esondazioni, quella più grave a Faenza, dovuta alla rottura dell’argine del fiume Lamone. La piena del torrente Ravone, un piccolo corso d’acqua sotterraneo che attraversa i quartieri ovest di Bologna, da tempo osservato speciale, fa esplodere il solaio di un negozio (fortunatamente di notte) che affaccia sulla centrale via Saffi. Il mattino del 3 maggio la strada, normalmente intasata di auto, è un torrente in piena. Passata la tempesta si analizzano i dati: undici rotte arginali, alcune centinaia di frane, tantissimi record di pioggia infranti. Una pioggia molto anomala, con tempi di ritorno stimati intorno ai cento anni. L’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna (Arpae) lo descrive come l’evento più intenso nella stagione primaverile dall’inizio delle misurazioni. La regione chiede lo stato di emergenza nazionale.

13 maggio
L’Emilia-Romagna cerca di riparare le brecce aperte negli argini. Comincia a piovere anche a nordovest, fino a pochi giorni prima ancora in piena crisi idrica. I livelli dei laghi sono in risalita dopo aver toccato i minimi storici, ma la siccità spaventa ancora. Di nuovo il tempo stupisce. Dopo qualche incertezza, i modelli meteorologici prevedono per il 16 e il 17 maggio piogge paragonabili a quelle dell’inizio del mese. Si annuncia un nuovo disastro: il suolo, prevalentemente argilloso e già imbevuto d’acqua, non ha più capacità di assorbire. Ogni nuova goccia finirà per ingrossare rii e torrenti e scatenare frane.

15 maggio
Ci si prepara. Il centro funzionale dell’Arpae emette un’allerta rossa per il giorno successivo. Si annuncia, per la prima volta, il probabile raggiungimento dei massimi storici dei fiumi compresi da Bologna fino a Rimini, con possibile superamento delle arginature nei tratti di pianura. La rottura o il sormonto in un solo punto dei tremila chilometri di argini artificiali si traduce automaticamente in un allagamento su vasta scala, visto che i fiumi in pianura scorrono su un livello più alto rispetto alla campagna circostante. Come quando si versa una caraffa d’acqua su un tavolo, piano piano il liquido occupa tutta la superficie. Si susseguono riunioni tra l’Arpae, la protezione civile, le autorità regionali e i comuni. I sindaci il cui territorio è stato già colpito dal primo evento si allarmano, alcuni stentano a credere agli scenari catastrofici prospettati. Arrivano in via preventiva colonne dei vigili del fuoco da altre regioni, vengono chiuse le scuole e fatti appelli per limitare gli spostamenti.

16-17 maggio
La pioggia comincia a scrosciare. La Romagna in poche ora va in crisi, a cominciare dal riminese. Il 17 mattina succede l’inevitabile: esondano 23 corsi d’acqua contemporaneamente. Non era mai successo. Altri 13 fiumi superano i livelli d’allarme. Chiudono le ferrovie. L’autostrada A14 è sommersa e le persone intrappolate in automobile sono recuperate con gli elicotteri. A Cesena il Savio supera gli argini e invade la città con tre metri d’acqua. Anche Forlì e Faenza sono allagate.

Forlì, 3 giugno 2023. La serra di un’azienda agricola ricoperta da fango essiccato. (Nicola Marfisi, Agf)

24 maggio
Mentre l’alluvione si propaga nella bassa pianura alle porte di Ravenna, dove l’acqua defluisce a fatica, la vicepresidente della regione Emilia-Romagna riferisce in assemblea legislativa i numeri del disastro “epocale”: l’equivalente di sei mesi di pioggia è caduta in 16 giorni, circa 400-500 millimetri sulle colline tra Bologna e Cesena. Un record assoluto rispetto alle misurazioni storiche disponibili. In Emilia-Romagna sono caduti 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua, l’equivalente di tre volte il consumo annuo dell’intera regione. Impossibile contenerla tutta, per farlo ci sarebbero volute più di 130 dighe delle dimensioni di quella di Ridracoli, la seconda diga più grande della regione (33 milioni di metri cubi d’invaso), che ogni estate disseta la Romagna. Sette provincie colpite, cento comuni, 700 strade interrotte, 1.076 frane censite, 23 fiumi esondati, 540 chilometri quadrati di aree allagate, ponti e ferrovie da ripristinare, 70mila edifici privati danneggiati, 15 persone morte e più di 36mila sfollati. Il conto preliminare è di quasi nove miliardi di euro.

31 Maggio
Il World weather attribution, seguendo un metodo scientificamente consolidato, pubblica uno studio che si prefigge di misurare il ruolo del riscaldamento globale nella genesi delle precipitazioni eccezionali di maggio in Romagna. Si prova a confrontare la probabilità che uno specifico evento meteorologico si verifichi nel clima attuale, con la probabilità che lo stesso evento avrebbe in assenza delle emissioni di gas serra causate dalle attività umane, basandosi sia su simulazioni dei modelli climatici sia sulle osservazioni storiche.

Lo studio è importante, perché se è vero che bisogna cominciare subito a ricostruire, è necessario sapere come e dove farlo in un clima in veloce cambiamento. Una variazione della probabilità degli eventi estremi, infatti, influenza i criteri costruttivi. Tuttavia, data la complessità delle variazioni climatiche in atto nel Mediterraneo, dove convivono un aumento dei periodi estremamente caldi e siccitosi, e piogge poco frequenti ma molto intense, non si riesce a quantificare il ruolo del riscaldamento globale sull’alluvione di maggio. Seguono polemiche strumentali alimentate dalla destra che nega gli effetti del cambiamento climatico. Lo studio non dice affatto che quest’ultimo non ha avuto un ruolo nell’intensificazione delle piogge, ma che con i dati attuali non è stato possibile dimostrarlo in maniera solida dal punto di vista statistico. L’imputato c’è, ma non ci sono sufficienti prove per incastrarlo.

27 giugno
A un mese e mezzo dall’alluvione viene nominato commissario alla ricostruzione il generale Francesco Figliuolo. L’attenzione mediatica è tutta rivolta allo sblocco e alla gestione dei fondi, mentre il dibattito su come ricostruire e sull’esigenza di nuovi criteri di pianificazione è inesistente, nell’opinione pubblica e al livello governativo. L’Emilia-Romagna è la regione con la maggior superficie allagabile, il 45,6 per cento del territorio è a rischio inondazione, mentre il 14,6 per cento è a rischio frana. “Non si può più costruire come prima”, si legge in un appello lanciato da ex urbanisti e società civile.

28 giugno
Prima riunione della task force per il dissesto idrogeologico, verso un piano metropolitano di adattamento all’emergenza climatica della città di Bologna. Coinvolge tutti gli enti tecnici che si occupano di cura del territorio e gestione dell’acqua, oltre agli enti di ricerca. Il tema è come ridefinire le linee guida di pianificazione e adattare le mappe di pericolosità idraulica, tenendo conto di quest’ultimo evento e prospettando scenari futuri.

5 luglio
Il decreto legge ricostruzione (88/2023) stanzia 2,74 miliardi per riparare i danni dell’alluvione in Emilia-Romagna, Marche e Toscana. Il commissario Figliuolo dovrà predisporre entro due mesi cinque piani speciali: per le opere pubbliche e per i beni culturali danneggiati, per gli interventi sui dissesti idrogeologici, per le infrastrutture ambientali e per quelle stradali.

Le risposte che mancano

La cronaca degli eventi, anche solo limitata agli ultimi due mesi, ci mette davanti alle sfide enormi che il nostro paese deve affrontare a causa di poco lungimiranti politiche di gestione del territorio, aggravate da un veloce, per quanto previsto, inasprimento climatico. Mentre i segnali della crisi climatica si moltiplicano e diventano palesi, il governo di destra opera per minimizzare la dimensione del problema quando non lo nega apertamente in maniera goffa e del tutto antiscientifica. In questo quadro già difficile l’esecutivo è chiamato invece a dare risposte urgenti, a partire dal nodo irrisolto della ricostruzione.

Fatta salva la necessità di fornire indennizzi alla popolazione colpita, bisogna ridefinire il rischio idraulico e la gestione dell’acqua, calibrandoli sulle nuove caratteristiche delle piogge. Da questi dati discende tutta la pianificazione territoriale: argini, ponti, strade, bacini di raccolta dell’acqua e perimetrazione delle zone di ricarica delle falde. Non è chiaro però chi deve fornire questi calcoli visto che le competenze sono distribuite su enti nazionali, regionali o di distretto idrografico. Inoltre, come dimostrato dallo studio del World weather attribution, allo stato attuale non è facile quantificare l’aumento della probabilità e dell’intensità di questi eventi sul nostro territorio.

Sappiamo che saranno più frequenti, ma non esattamente di quanto. Potrebbe essere un incremento gestibile oppure molto grande, ai limiti della capacità di adattamento. Questo cambia totalmente le carte in tavola e solleva diverse domande. Come sarà il ciclo dell’acqua nei prossimi anni? Quali zone riusciremo a difendere e quali invece dovranno essere restituite alla loro vocazione originaria di aree allagabili, e quindi libere da infrastrutture? Dove creare nuovi invasi artificiali? Qual è il ruolo di una diversa agricoltura, in pianura e in collina, nella difesa del territorio?

Lo strumento principale che dovrebbe dare queste risposte è il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc). L’Italia è uno dei pochi paesi europei che ancora non ce l’ha. Una prima bozza, presentata nel 2018, si è arenata in un complesso processo di revisione ancora in corso. Intanto gli eventi incalzano e rendono gli studi fatti in precedenza obsoleti.

Più che di singoli commissari ci sarebbe bisogno di gruppi di ricercatori, gli stessi sui quali non si è mai investito, che lavorino, in modo interdisciplinare nei vari enti (nazionali, regionali e metropolitani), coordinati da un quadro politico conscio della posta in gioco. L’obiettivo è quello di dare risposte rapide alle domande che una corretta pianificazione richiede. Quesiti che sono stati ignorati negli ultimi decenni spianando la strada a disastri sempre maggiori. Intanto arriva il caldo record, e con lui un’altra emergenza. ◆

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