Al rio delle Amazzoni si arriva in un modo e si parte completamente cambiati. Percorrere i suoi seimila chilometri navigabili e fare incursioni nella foresta, sempre sospeso su un’amaca e senza sapere bene l’ora e la posizione, ti cambia per sempre. Il viaggio decide per te rotte che sfuggono al tuo controllo. Qui lasci andare molti dei tuoi punti fermi e delle tue certezze, che per il peso dei loro anni e della loro fallibilità vanno inesorabilmente a picco nell’opaco letto del fiume e nella libertà di un mondo imprevedibile.

L’avventura comincia in un ristorante di Arequipa specializzato in cibo piccante, con una zuppa di gamberetti sotto il cielo plumbeo di settembre, che rende sfocata la cima del Nevado Mismi. Dai suoi crepacci scende il torrente Carhuasanta, da cui nasce il fiume più lungo del mondo. Questo punto della cordigliera andina peruviana dista 7.062 chilometri da Belém, in Brasile, dove il rio delle Amazzoni sfocia nell’oceano Atlantico.

Da Arequipa bisogna andare verso Pucallpa, una città anarchica e rumorosa governata dai motocarri, che sollevano la polvere rossiccia lasciata sulla strada dai sedimenti del fiume. Siamo sulla riva dell’Ucayali, il principale affluente del rio delle Amazzoni.

Scendo al porto per chiedere quando parte la prossima nave. Il nostromo dice che l’Henry 8 salperà fra tre giorni. Il prezzo del biglietto è di 110 soles (circa 25 euro) per quattro giorni di tragitto, e include i tre pasti quotidiani e il diritto di sistemare l’amaca tra due dei tanti pilastri di ferro che sostengono il ponte. È ora di rovistare nei mercati per comprare la fornitura consigliata dal personale di bordo. Devo comprare una buona amaca per dormire e un’amaca più piccola per tenere in sospensione lo zaino e altri oggetti, come l’acqua in bottiglia, le lattine di conserve, i biscotti, il caffè solubile, l’olio d’oliva, il repellente per gli insetti, un contenitore per il cibo, due piatti, le posate, la carta igienica, una corda per saltare e due libri usati trovati in un ferramenta.

I primi delfini

Mi sistemo al centro del quarto ponte per evitare d’inzupparmi con gli scrosci d’acqua che entreranno dai fianchi della nave durante la traversata. A bordo ci sono decine di famiglie peruviane, molti lavoratori e un gruppo di giovani viaggiatori. Si guadagnano da vivere a Iquitos, nella regione di Loreto, una zona molto più turistica e commerciale. I primi delfini rosa appaiono sul lato destro ed eseguono la loro danza fluviale.

Aspetto qualche ora, fino a quando la nave perde qualsiasi contatto visivo con la civiltà, per salire sull’ultimo ponte. Un verde rabbioso e osceno intreccia perfettamente il manto di una volta selvatica infinita, che disegna uno scarabocchio fluido, un letto terroso, grande e potente. Il dondolio della nave mi culla, e dormo galleggiando su una massa poco romantica di ferro, container e amache.

La vita scorre lenta e vaporosa. Il tempo è segnato dalle campane che annunciano i tre pasti. Nel viaggio fino a Iquitos mangio biscotti e verdure comprate dalle barchette che si avvicinavano alla nostra nave. Sono dimagrito molto, ma sogno ancora di più; e mi adatto a farmi il bagno due volte al giorno in docce piene di scarafaggi, con l’acqua fangosa che le pompe della nave estraggono dal letto del fiume.

Arriviamo a La Boca, il punto dove l’Uyacali e il Marañón confluiscono per dare vita al rio delle Amazzoni. Il colore cioccolato al latte dell’Uyacali e quello cioccolato fondente del Marañón impiegano diversi chilometri per diluirsi l’uno nell’altro. Iquitos, la città del caucciù immortalata nel film Fitzcarraldo, è già Amazzonia pura. Qui si mangiano pesci come l’arapaima, il sabalo, l’omima o il tucunaré, e la carne di coccodrillo, che si cuoce alla brace e ha una consistenza simile a quella delle cosce di pollo.

Il tratto successivo del viaggio finisce alle tre frontiere, che si raggiungono con una nave veloce in dieci ore. A Santa Rosa, un villaggio sgangherato fatto di strade fangose, si esce dal Perù per arrivare sempre in barca nella città colombiana di Leticia. A circa un chilometro e mezzo si trova Tabatinga, il punto in cui il Rio delle Amazzoni entra in Brasile. Un’amica colombiana mi propone un’incursione nella foresta insieme ai suoi due fratelli per creare una chagra, un terreno dove coltivare yucca, mais o banane, che è deforestato per qualche anno e poi viene restituito alla giungla perché si rigeneri. Una pratica ereditata dagli indigeni. La spedizione dura una settimana. Ci portiamo dietro delle provviste e le amache. La mattina lavoriamo sodo e poi ci mettiamo a cercare qualcosa da mangiare e ad aprire nuovi sentieri. Un cerrillo, un cinghiale della giungla, ci fornisce carne per tutta la settimana. Mangiamo anche una boruga, un roditore molto saporito. Peschiamo sabali e piranha e facciamo il bagno nel fiume Calderón.

Stanchi e felici torniamo a Leticia. La prossima tappa è Manaus: da Tabatinga quasi 1.400 chilometri di navigazione sul Brillante, una nave che per 200 reais (50 euro) ti consente di appendere la tua amaca e di accedere a bagni (lavandini e docce pulite), a un discreto buffet, a una sala di lettura e a un bar con della musica assordante dove imparo a ballare il samba. Sono da più di un mese in Amazzonia e mi sono abituato a galleggiare nell’elasticità del suo tempo e a questi giorni che la foresta fa diventare irreali per la gara del suo fitto tetto con i fasci di luce del sole, della luna e delle stelle.

Qui il fiume si allarga a dismisura. Visto dal ponte, il traffico di navi da carico, passeggeri, di taglialegna e di migliaia di piccole barche è incredibile. La vita a bordo crea nuove amicizie che il bar aiuta a consolidare. Manaus, la capitale dell’Amazzonia brasiliana, ci mostra la decadenza del suo splendore legato al caucciù. Mi rivolgo a un’agenzia specializzata per prenotare un tour nella foresta del fiume Paraná do Mamurí. Passiamo diversi giorni nella giungla avvistando uccelli, scimmie, capibara, serpenti e coccodrilli. E dopo arrivano tre giornate in cui l’obiettivo è sopravvivere con la guida Tucaniú, con un machete in mano per farsi strada e un arpione e delle reti da pesca per alimentarsi della vita di questi fiumi. Facciamo gite in canoa di notte per godere di quelle piccole luci, disposte a coppie, che i cuccioli di caimano portano in superficie per non vederci arrivare. Andiamo a caccia del pesce più pregiato, il macaco d’acqua, che di notte sale a galla per mangiare insetti e che l’arpione di Tucaniú infilza senza difficoltà. La sua carne bianca e saporita, accompagnata dal liquore a base di non so quali erbe, è un vero regalo.

Il giorno dopo vediamo, da una canoa di legno di ceiba che faccio dondolare con i miei spasmi di paura, un’anaconda di sei metri arrotolata su se stessa che fa un pisolino tra le mangrovie. Il livello di serotonina nel mio organismo ci metterà diversi giorni per abbassarsi, mentre m’imbarco su un battello in direzione di Santarém e Chão, un paradiso di spiagge bagnate dalle acque cristalline del fiume Tapajós, che qui chiamano i Caraibi brasiliani.

Regali per i bambini

È un’altra esperienza ancora. La nave procede contro la mareggiata che arriva dall’oceano Atlantico. Qui la grandezza del letto del fiume sembra non avere limite, tutto si compra e si vende alle fermate e molti passeggeri rispettano la tradizione di lanciare dei regali per i bambini, che si avvicinano con le madri su delle piccole imbarcazioni. Dopo alcuni giorni di spiaggia e di riposo è ora di affrontare l’ultima parte del viaggio. La navigazione procede sinuosamente tra migliaia di isole di un estuario che raggiunge i 240 chilometri di larghezza fino a Belém. Qui un ultimo traghetto ci porta a Tapajós, l’isola fluviale più grande del mondo, popolata da biciclette senza freni e dai discendenti dei bufali d’acqua perduti secoli fa da qualche nave asiatica.

Seduto sulla mia amaca, che stavolta è appesa a due alberi di un giardino, cerco di convincermi di essere stanco. Faccio fatica ad ammetterlo. Ho cominciato il viaggio un anno fa sulla riva di capo Horn, nella Patagonia cilena, e sto ancora digerendo qualcosa di non ben definito che mi solletica lo stomaco dopo questi mesi in Amazzonia. Rileggo uno dei due libri che ho comprato a Pucallpa, I cani romantici: “E il sogno viveva nel vuoto del mio spirito. E a volte mi guardavo dentro e visitavo il sogno: statua immortalata in pensieri liquidi, un verme bianco che si contorce nell’amore”. ◆fr

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Questo articolo è uscito sul numero 1481 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati