Questo disco è un’impresa stilisticamente molto più ambiziosa rispetto al precedente Heavy is the head ed è frutto del lavoro comunitario insieme a una schiera di produttori e autori importanti. Quando ha descritto il processo di registrazione, che si è svolto principalmente sull’isolata Osea Island, nel Regno Unito, Stromzy ha descritto l’atmosfera come “meravigliosamente libera”. Fedele a queste parole, l’album vive in uno spazio mentale rilassato. Il ritmo è abbastanza lento, seguendo uno stile più simile a quello di Sam Smith che a quello di Skepta, altro esponente del grime britannico. Gran parte di This is what I mean è caratterizzato da uno stato d’animo profondamente cupo. Firebabe e Fire + water durano otto minuti e possiedono ciascuna una ricca tavolozza strumentale con chitarre elettriche e acustiche, violoncelli, bassi, flauti e sassofoni. Eppure mancano di dinamismo e urgenza. This is what I mean cerca di posizionare Stormzy come tanti artisti in uno: l’eclettico che non ha paura di condividere i riflettori con un cast di collaboratori amati dalla critica, un’anima tenera tormentata dalla recente separazione dalla fidanzata e l’allegro prestanome per i giovani britannici neri che recita inni pieni di banalità come My presidents are black. Troppo spesso però Stormzy sembra schiacciato sotto il peso della serietà.
Paul Attard, Slant

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1489 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati