I Gorillaz pubblicano album dal 2001, ma possono evitare le trappole che insidiano altre band di lunga data e di enorme successo, perché sono come i personaggi dei Simpson o di Toy story, che non invecchiano mai. Sono una band a cartoni animati e non devono farsi crescere la barba o fare album di cover di Bob Dylan per sembrare ancora credibili. Cosa ancora più importante, non sono obbligati ad abbandonare le melodie a favore di canti tristi pieni di pianoforti vintage e testi impenetrabili. Questo, almeno, dev’essere stato il pensiero di Damon Albarn e Jamie Hewlett, che hanno dato nuova vita agli sdentati membri dei Gorillaz – 2-D, Murdoc, Noodle e Russel – nel loro ottavo album, Cracker island. Il cantante dei Blur e l’ex disegnatore di fumetti stavolta hanno assoldato il produttore, cantautore vincitore di Grammy Greg Kurstin, dimostrando che la band virtuale creata più di vent’anni fa offre ancora infinite possibilità sonore. Come al solito ci sono ospiti prestigiosi: Stevie Nicks in Oil canta di “bombe a grappolo a incastro” su un tappeto di sintetizzatori, mentre Bad Bunny è presente in Tormenta, uno dei momenti migliori del disco. E poi c’è Possession island, l’elegiaco ultimo brano che si rifà al più cupo progetto The Good, the Bad and the Queen, con un pianoforte e le graziose armonie create dalle voci di Beck e Damon Albarn che lasciano il posto a un intervallo strumentale uscito direttamente da un western spaghetti. Ma soprattutto in Cracker island c’è una coesione concettuale che mancava al precedente Song machine. Questo è l’album migliore dei Gorillaz dai tempi di Demon days.
Adam Mason, Popmatters

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Questo articolo è uscito sul numero 1500 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati