In Schiavi di New York (romanzo uscito originariamente nel 1986) tutti sono pittori, performance artist, disegnatori di gioielli o truccatori. Sicuramente c’è almeno una scrittrice che si nasconde da qualche parte, ma siamo in una cultura più visiva che verbale, come appunto rivela il gergo piuttosto povero che si parla da queste parti. Schiavi di New York disseziona una classe di esteti materialisti, pittori in carriera o galleristi senza scrupoli la cui idea di tradizione si spinge al massimo ai cartoni animati di Hanna-Barbera e che seguono modelli più nuovi dei nuovi ricchi. Il più antipatico tra questi esteti è Marley Mantello, narratore di cinque racconti. Marley si considera un genio e usa il suo grottesco egotismo per rendere la vita impossibile a chi gli sta intorno. Tama Janowitz gli dà abbastanza corda da permettergli di impiccarsi da solo. Marley si sente sempre sul punto di “essere scoperto” e c’è qualcosa di accattivante nella sua garrula fiducia in se stesso. Sebbene i protagonisti delle storie di Tama Janowitz cambino spesso fidanzati o mezzi d’espressione, e si aspettino sempre di essere scoperti, non vivono mai momenti di autentica catarsi o epifanie. Leggendo molte di queste storie non posso non immaginare l’autrice che osserva tutti con gli occhiali da sole e a distanza di sicurezza. Alcuni lettori forse avrebbero preferito che Janowitz incalzasse i suoi personaggi con più convinzione, avvicinandoci di più ai loro segreti e ai loro sogni. Altri le saranno grati per l’acuto senso di osservazione e l’inventiva un po’ distorta, entrambi doni di un talento singolare.
Jay McInerney, The New York Times

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Questo articolo è uscito sul numero 1554 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati