Le dieci province turche colpite dal terremoto sono tra le aree che ospitano il maggior numero di rifugiati al mondo: secondo i dati delle Nazioni Unite una persona su due a Kilis e una su quattro o cinque a Gaziantep, Urfa e Hatay. Come nel resto della Turchia, queste persone, soprattutto siriani fuggiti dalla guerra civile nel loro paese, sopravvivevano tra grandi difficoltà in edifici fatiscenti. Dopo il sisma anche loro sono rimasti come tutti gli altri sotto le macerie, al freddo, sotto la neve e la pioggia. Non è chiaro quanta solidarietà abbiano ricevuto dalla popolazione locale e quanto abbiano potuto beneficiare dei soccorsi, perché nelle trasmissioni in onda 24 ore su 24 su tutti canali non si vede neanche uno straniero. Invece sui social network i gruppi razzisti e fascisti turchi pubblicano foto e video di origine incerta che dipingono i rifugiati come sciacalli e saccheggiatori e mostrano folle pronte a linciarli. In questo modo cercano di minare la solidarietà popolare e di provocare disordini per legittimare la repressione da parte delle forze di sicurezza. Nazionalisti e xenofobi vogliono scaricare sui migranti la rabbia e la frustrazione causate dalla catastrofe.

Il terremoto ha cancellato le differenze tra stranieri e turchi, rendendoli vittime allo stesso modo. Ma perfino in questa uguaglianza indesiderata, anche a causa delle campagne contro i rifugiati portate avanti dai nazionalisti prima del terremoto per chiedere che fossero espulsi dal paese, si sta cercando di mettere pressione sugli immigrati per intimidirli e impedire che ricevano gli aiuti o si rivolgano ai centri di soccorso. Creare solidarietà tra le vittime del terremoto, a prescindere dalle loro origini, garantire che i rifugiati possano ricevere gli aiuti come la popolazione locale, opponendosi alla retorica razzista, è diventato un dovere umano ancora più importante di prima. ◆ ga

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Questo articolo è uscito sul numero 1499 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati