Nell’aprile del 1786 il contrammiraglio ed esperto baleniere Maarten Mooij, originario del villaggio di Callantsoog, sulle coste dei Paesi Bassi, intraprese per la diciassettesima volta un viaggio verso la Groenlandia e l’arcipelago delle Svalbard. Non molto tempo dopo che la sua nave Frankendaal ebbe lasciato il porto di Amsterdam c’era già “un freddo rigido e un tempo buio e piovoso”, scriveva Mooij nel suo diario di bordo. L’equipaggio era composto da 45 persone, tra cui tre figli del contrammiraglio, il più giovane aveva appena dodici anni.
Poi ci fu un forte vento “scuro di neve”, seguito da una schiarita grazie a cui la nave poté proseguire indisturbata la navigazione. Dopo venti giorni cominciarono a vedersi i primi “tubercoli” (pezzi di ghiaccio) e il 26 maggio il trealberi si trovava a 78° 30’ di latitudine nord; mancavano solo poche miglia alla costa di Spitsbergen, la più grande delle Svalbard. Il contrammiraglio vide galleggiare in lontananza almeno altre quaranta navi.
Inizialmente nei dintorni di Spitsbergen – soprattutto nell’estremo nord – cacciavano baleniere olandesi, inglesi, spagnole, francesi, norvegesi, svedesi e russe. La Noordsche compagnie, che era olandese, costruì l’insediamento di Smeerenburg. Lì, tra il 1614 e il 1660, diverse città olandesi avevano le loro raffinerie di grasso di balena da cui ricavavano l’olio, usato anche come combustibile per le lampade.
Agli altri paesi però non andava giù il dominio degli olandesi nella zona; nel 1693, nel Sorgfjord, vicino alla penisola di Ny-Friesland, ci fu una battaglia navale tra quaranta navi olandesi e tre fregate francesi, inviate dall’imperatore Luigi XIV. Gli olandesi ebbero la peggio. Alla fine del seicento la popolazione di balene nell’estremo nord della Groenlandia era talmente decimata che si cominciò a deviare verso altre zone di pesca, al largo delle coste meridionali dell’arcipelago.
Quando avvistò la costa, la Frankendaal attraccò a un blocco di ghiaccio solido e fece scendere le scialuppe. All’inizio l’equipaggio vide solo i “pesci unicorno” (narvali), ma in seguito fecero capolino anche le lente balene della Groenlandia. Le scialuppe si misero al lavoro con impegno per compiere il truculento rituale il più velocemente possibile: accerchiare una balena e arpionarla. Se una balena veniva colpita l’animale cercava per prima cosa di fuggire, con arpione e tutto, e le imbarcazioni dovevano proteggersi dai violenti colpi di coda. Se una scialuppa si fosse ribaltata l’equipaggio sarebbe finito nell’acqua gelida e nessuno sarebbe sopravvissuto. Ma se l’animale era gravemente ferito e faceva diventare il mare rosso di sangue, allora veniva trascinato verso la Frankendaal con delle funi e tirato su un lato della nave. A quel punto cominciava la “scuoiatura”. Non è chiaro se la balena dovesse prima essere morta. Il capo dei tagliatori di grasso e i suoi aiutanti stavano in piedi sopra l’animale e per non scivolare indossavano degli stivali chiodati. Muniti di grandi coltelli tagliavano il grasso in strisce di mezzo metro, che poi l’equipaggio issava sul ponte per proseguirne la lavorazione. Quando l’animale era praticamente svuotato era la volta dei fanoni (le lamine che costituiscono la dentatura della balena), che venivano usati come molle nei carretti o nei mobili e come stecche per i corsetti.
Nel giro di poco tempo, Mooij e il suo equipaggio catturarono sette piccole balene. L’8 giugno 1786 il contrammiraglio vide diverse navi allontanarsi sul lato meridionale del banco di ghiaccio dov’era ancorata la Frankendaal, però preferì aspettare che i suoi uomini finissero il lavoro di taglio. Il tempo peggiorò e quando la Frankendaal fu finalmente pronta per partire, non riusciva più a muoversi. Mooij aveva aspettato troppo. Il trealberi era incastrato nel ghiaccio, insieme a quattro navi ferme più avanti.
Seguendo un diario
Scendendo dall’aereo a Longyearbyen, la località più grande di Spitsbergen, mi colpisce subito il freddo pungente. I passeggeri chiudono in fretta le lampo dei loro spessi piumini e fanno comparire come per magia berretti e sciarpe di lana. Mooij è un mio antenato; quell’avventuriero timorato di Dio mi affascina, proprio come il suo schietto resoconto di viaggio. Quanto furono difficili quei mesi bloccati nel ghiaccio, per lui e il suo equipaggio? Sono venuta qui per cercare di farmi un’idea. Inoltre voglio sapere perché la norvegese Spitsbergen è tornata alla ribalta geopolitica. E che ci fanno qua i russi?
Andando verso Longyearbyen si vedono montagne brulle e innevate che si stagliano sul cielo scuro; lungo la strada ci sono cartelli che mettono in guardia: attenzione agli orsi polari. Sull’isola di Spitsbergen ce ne sono ancora circa tremila e chi si allontana dal centro abitato, a piedi o in motoslitta, porta sempre con sé un lanciarazzi o un fucile.
Spitsbergen si trova tra la Norvegia e il polo nord e, secondo i libri di storia, fu scoperta nel 1596 da Willem Barentsz. L’olandese cercava un passaggio a nord verso l’Asia, via mare. Documentò con cura il suo viaggio e per la prima volta furono descritte le distese desolate piene di “montagne dalle cime appuntite” (_spitsbergen _in olandese, appunto) che si trovavano nel circolo polare artico. Durante quello stesso viaggio, Barentsz si incagliò con la sua nave nell’arcipelago russo di Novaja Zemlja, dove morì.
I norvegesi però sono convinti che i loro antenati, gli intrepidi vichinghi, avessero raggiunto questo gruppo di isole già nel trecento con i loro drakkar: barche a remi di legno, aperte e piatte, con una sola, grande vela. Chiamano l’arcipelago Svalbard, che significa “costa fredda”. Di sera faccio una passeggiata in questo mondo bianco e ovattato. Il termometro segna venti gradi sotto zero. Però c’è un bel po’ di vita a Longyearbyen, 2.550 abitanti, centro amministrativo dell’arcipelago. I ristoranti sono pieni; al Kulturhuset, un posto alla moda che ospita una biblioteca, un cinema e un bar, c’è un dj che mette musica eclettica e si balla. Alcune persone ben coperte portano a spasso i loro husky e ammirano le vetrine delle cioccolaterie e dei negozi che espongono abiti sportivi, maglioni norvegesi e stivali da neve in pelle di foca.
Nel centro della cittadina troneggia una statua dell’eroe locale: il minatore. Qui all’inizio dell’ottocento furono scoperti dei giacimenti di carbone. I norvegesi, gli statunitensi, gli olandesi e in seguito anche i russi aprirono delle miniere quando l’arcipelago – fatta eccezione per qualche cacciatore – era ancora una disabitata terra di nessuno. L’industriale statunitense John Longyear costruì nel 1906 un grande insediamento minerario che poi si sviluppò nell’attuale Longyearbyen. In tutto aprirono sette miniere, di cui solo due sono ancora attive: a Barentsburg e a Longyearbyen. Oggi la maggiore fonte di reddito è il turismo.
Sono molto distante da tutte le zone calde del mondo, eppure anche qui la politica mondiale riveste un ruolo importante. Davanti alla statua del minatore c’è una foto di Aleksej Navalnyj sorridente, e ci sono dei fiori. È un omaggio al dissidente russo che è morto a febbraio in un campo di prigionia in Siberia.
A molte finestre della capitale sono appese bandiere ucraine gialle e blu. E una volta tornata in albergo, vedo che il Barentz Gastropub – “The most northern bar in the world”, il bar più a nord del mondo – serve una specialità ucraina. “Così non dimentichiamo che più di due anni fa Putin ha scatenato quell’orribile guerra”, dice una cameriera dall’accento spagnolo. Con questo, la comunità internazionale di Longyearbyen – dove convivono più di cinquanta nazionalità, perché per lavorare non serve il visto – prende posizione nei confronti dei russi: disprezziamo la vostra aggressione.
Del resto la Russia è “dietro l’angolo”. La località russa di Barentsburg, costruita intorno alla miniera di carbone dell’azienda statale Arktikugol, è a soli 55 chilometri in direzione ovest e lì si trova un consolato russo che controlla tutto attentamente. Anche l’insediamento russo di Pyramiden, verso nord, non è stato abbandonato. Ma è la Norvegia ad avere la sovranità sull’arcipelago. Fu deciso nel 1920 con il trattato delle Svalbard, firmato da Stati Uniti, Giappone e diversi paesi europei. Ancora oggi Mosca protesta, ma in quel periodo l’attenzione era completamente rivolta alla rivoluzione comunista. Nel 1925 i russi firmarono comunque gli accordi delle Svalbard, per salvaguardare i loro interessi.
Secondo il trattato il territorio non può essere usato per scopi militari, Oslo è responsabile della salvaguardia dell’ambiente e non si possono fare discriminazioni tra norvegesi e non norvegesi. Inoltre, tutti i paesi contraenti (ora sono 46) possono svolgere ricerca scientifica nell’arcipelago. Ed è così che Spitsbergen è oggi l’unico luogo al mondo dove russi e occidentali vivono “fianco a fianco”. Per molto tempo i rapporti sono stati ottimi. “Ogni anno organizzavamo tornei di scacchi e partite di calcio. E nel giorno della festa nazionale norvegese venivano qui anche i bambini di Barentsburg e partecipavano alla parata”, racconta la fotografa Elizabeth Bourne, che dal 2018 vive a Longyearbyen e gestisce un centro per le arti. “Io andavo regolarmente a Barentsburg con una motoslitta, per pranzare e bere un po’ di birra buona. Mi piace quel posto. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, però, tutto questo è finito. Niente più riunioni amichevoli e l’atmosfera si è guastata”.
“Nel 2021, quando Navalnyj era stato arrestato in Russia, ci sono state delle proteste e alcuni abitanti di Barentsburg sono venuti a vivere e a lavorare qui; lo stesso è successo anche dopo l’attacco all’Ucraina”, dice Bourne. “Adesso però le cose sono cambiate e se viene qualcuno probabilmente è una spia”.
Un altro mondo
Due volte alla settimana una barca della compagnia di navigazione norvegese Henningsen naviga da e verso Barentsburg, ma i visitatori non possono più prenotare il viaggio sul sito visitsvalbard.com. A bordo della robusta nave Billefjord, che ha centinaia di posti, trovo solo un esiguo gruppetto di compagni di viaggio.
Quasi tutti gli uomini lavorano nella miniera, che è pesantemente in perdita ma giustifica la presenza russa a Spitsbergen
Quando la Billefjord lascia il porto di Longyearbyen di mattina presto e si fa strada tra le lastre di ghiaccio, le montagne spoglie intorno all’acqua sono ancora velate dalla nebbia. A parte il ronzio del motore della nave, regna un silenzio assoluto. Attorno a noi ci sono solo acqua, ghiaccio e un deserto bianco. Anche sul ponte c’è uno strato di ghiaccio. Scivolo da un lato all’altro afferrandomi al parapetto. Per proteggermi dal freddo mi sono messa un passamontagna. Scattare foto è un’impresa ardua: devo lasciare il parapetto e togliermi i guanti e dopo dieci secondi mi sembra di avere già le mani congelate.
In lontananza un punto nero si muove su un lastrone di ghiaccio: un tricheco solitario, visibile solo con il binocolo. Uno spesso strato di ghiaccio impedisce alla nave di avvicinarsi. Un’ora dopo, quando attracchiamo al molo di Barentsburg, mi rendo conto che il tricheco è l’unico essere vivente incontrato lungo il viaggio.
Barentsburg è un altro mondo. Vicino al molo ci sono alcune graziose case di legno cadenti, risalenti all’inizio del secolo scorso. Su una spicca un murale con una poesia russa. Più in là, sul pendio di una montagna, ci sono degli antiquati condomini sovietici, monotoni blocchi di cemento, una specie di monumento con scritto: “Il nostro obiettivo è il comunismo”. Camminiamo verso il villaggio con l’accompagnamento obbligatorio della guida locale Pjotr. Il busto innevato di Lenin ci guarda dall’alto di un piedistallo. “A dire il vero non capisco perché qui non ci sia una statua di Barentsz al posto di Lenin”, dice Pjotr. Mi sembra un’affermazione azzardata, poco patriottica.
L’atmosfera è totalmente diversa da quella della vivace Longyearbyen. A parte un paio di passanti schivi, l’unica strada del paese è deserta. Superiamo un centro comunitario in mattoni accanto a una scuola su cui è dipinta una grande balena, un albergo antiquato e la moderna sede centrale della Arktikugol. Più in là ci sono gli edifici da cui si accede alla miniera.
Nel villaggio abitano soprattutto famiglie. Quasi tutti gli uomini lavorano nella miniera, che è pesantemente in perdita ma giustifica la presenza russa a Spitsbergen. Gli uomini sono ucraini filorussi delle province di Luhansk e Donetsk, oppure vengono dalla Russia. Lavorano a contratto e chiedono di volta in volta un rinnovo. Tornare a casa non è un’opzione, perché dovrebbero entrare subito nell’esercito.
Le autorità consigliano agli abitanti di avere sempre in casa da mangiare e acqua a sufficienza per tre giorni
Davanti al grand café Krasny medved (orso rosso), dipinto di rosso e con annesso un birrificio, un tizio su una motoslitta ferma Pjotr. Ha i capelli corti e un paio di occhiali da sole sulla fronte, e ci guarda diffidente. Indossa una specie di uniforme e mette soggezione. Parla alla guida in tono autoritario; Pjotr gli risponde tranquillamente. Il locale è chiuso, ma chi vuole bere qualcosa può andare al bar dell’albergo, praticamente abbandonato, per uno shot di vodka o di bevanda locale con il 78 per cento di alcol; la mappa nautica mondiale posiziona Barentsburg a 78°03′54′′ di latitudine nord.
La mia attenzione è catturata da un edificio massiccio di cemento rossastro, simile a una fortezza. Si trova dall’altra parte del villaggio, ha le finestre piccole e sul tetto sventola una bandiera russa. È circondato da un’alta recinzione nera, ci sono telecamere dappertutto. È il consolato russo ed è altamente sorvegliato. Ma da chi o da cosa dovrebbe difendersi? Il 9 maggio 2023, nel giorno in cui la Russia festeggia la vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista, qui il console russo ha guidato una parata di decine di suv neri con le bandiere russe. Ai norvegesi una tale dimostrazione di forza nazionalista è sembrata una provocazione.
Lo stesso per il discorso tenuto alla metà del febbraio 2024 dal viceministro russo per gli affari artici Yurij Trutnev. I diritti della popolazione russa a Spitsbergen sono minacciati, ha detto Trutnev durante una riunione della commissione statale per la protezione della presenza russa a Spitsbergen. Ha messo in guardia i norvegesi dal violare in qualsiasi modo i diritti e le conquiste dei suoi connazionali. “Non faremo alcun passo indietro. Lottiamo per la nostra sovranità”. Un linguaggio simile a quello usato per legittimare l’attacco in Ucraina.
Durante il viaggio di ritorno verso Longyearbyen un’altra guida, Anna, ha il suo bel da fare con tre tizi ubriachi fradici; evidentemente le bevande di Barentsburg erano un po’ troppo forti. Mentre gli uomini smaltiscono la sbornia dormendo sottocoperta, lei viene a riprendere fiato al mio tavolo. Tento di convincerla a raccontarmi le sue esperienze da russa a Spitsbergen – Anna è arrivata nell’arcipelago nel 2018 e non se n’è più andata – ma si tiene sul vago. I russi sono attentamente tenuti d’occhio dai servizi segreti anche all’estero e la madre di Anna vive ancora in Russia. Non vuole causarle problemi.
La nuova guerra fredda
Birger Amundsen conosce la situazione. È giornalista e scrittore del libro appena uscito Spillet om Svalbard (La partita per le Svalbard). Ha 76 anni e dal 1972 fa il pendolare tra Spitsbergen e la città norvegese di Tromsø. Ci sentiamo su Zoom. Era stato a Barentsburg nel marzo del 2022, ed era praticamente l’unico ospite dell’albergo. “Di solito facevo sempre due chiacchiere con la gente per strada e con altri ospiti dell’hotel. Stavolta le persone per strada guardavano dall’altra parte. Ho bevuto un caffè e ho anche parlato di politica solo con una studiosa di San Pietroburgo. In seguito mi ha scritto un’email dicendo di non fare mai il suo nome. Le autorità non dovevano assolutamente sapere che aveva parlato con me”.
Amundsen ricorda ancora bene com’era negli anni settanta, quando lavorava come tecnico nel villaggio di Ny-Ålesund, il centro per le ricerche scientifiche a Spitsbergen. Lì in quel periodo è stata costruita una stazione satellitare tuttora in funzione. Si era all’apice della guerra fredda. “Ma le Svalbard erano un posto particolare, regnava un’atmosfera rilassata e collaborativa. I cittadini russi di Barentsburg e Pyramiden venivano volentieri in gita a Longyearbyen e Ny-Ålesund. Si esibivano in spettacoli di danza, suonavano la balalaika e ci piaceva fare scambi: gli davamo i nostri numeri di Playboy e i cataloghi di vendite per corrispondenza, loro ricambiavano con la vodka. A fine giornata facevamo una grande festa a base di alcol. Si scherzava su tutto, anche sullo spionaggio”.
“Ora c’è di nuovo la guerra fredda alle Svalbard”, dice Amundsen, “ma è molto peggio di prima”. È preoccupato. L’imprevedibilità di Putin e il suo stravolgimento della realtà possono diventare un problema anche qui. L’arcipelago ha una grande importanza strategica, sia per i norvegesi e la Nato sia per la Russia, che possiede la fascia costiera più lunga dell’oceano Artico, dove ha installato più basi militari di tutti gli altri paesi artici messi insieme.
Sulla penisola russa di Kola, non lontano dal confine con la terraferma norvegese, c’è una base di sottomarini nucleari. Se le tensioni militari tra l’occidente e la Russia aumentassero ulteriormente, Mosca potrebbe inviare questa flotta verso l’oceano Atlantico per fare spionaggio, bloccare la navigazione internazionale o usarla per un attacco nucleare. Però i sottomarini dovrebbero prima attraversare inosservati il mare tra la Norvegia e Spitsbergen. Sia i norvegesi sia i russi vogliono il dominio su quella rotta.
In ballo ci sono anche degli interessi commerciali. Qui nel circolo polare artico il riscaldamento climatico ha effetti più rapidi che altrove. Se, in futuro, si scioglieranno le distese di ghiaccio sarà possibile estrarre petrolio e gas anche intorno a Spitsbergen e nella regione si apriranno molte rotte di navigazione più brevi e redditizie verso l’Asia. “La loro posizione strategica rende le Svalbard importantissime”, dice Amundsen. “Non serve molto per conquistarle. Chi controlla l’aeroporto di Longyearbyen ha il potere sull’arcipelago”. Nel suo libro il giornalista rivela che alla metà degli anni novanta i russi progettavano di far occupare l’aeroporto da minatori armati. Lui l’aveva saputo direttamente da una spia che voleva avvisare i norvegesi. I minatori dovevano riuscire a resistere al massimo tre ore, dopo di che sarebbe arrivata un’unità paramilitare dalla base russa di Kola per assumere il controllo.
Il piano non è mai stato attuato. “Quali piani ha pronti la Norvegia, se le cose si mettessero male?”, si chiede Amundsen. “E come reagiribbe la Nato, di cui la Norvegia fa parte?”. Negli ultimi anni l’aumento delle esercitazioni Nato nella regione è stato notevole, ed è sempre più stretta anche la collaborazione tra l’esercito statunitense e quello norvegese.
Tra i fiordi
Il cielo è limpidissimo. Il sole avvolge le montagne in un bagliore rosa pesca; il contrasto con il cielo azzurro e le vaste distese bianche è forte. Il paesaggio, imponente e selvaggio, è mozzafiato. Qua e là una renna cerca un po’ di muschio o di erba sotto la neve. Per il resto, nulla si muove. L’assenza di qualsiasi tipo di attività umana mi dà l’impressione di essere finita su un altro pianeta dove il tempo si è fermato. Probabilmente centinaia di anni fa qui era esattamente com’è oggi.
Insieme a una guida e a un fucile, vado su una motoslitta fino al Sassenfjord. Nel secolo scorso Hilmar Nøis, che cacciava volpi artiche, ci trascorreva interi inverni in completa solitudine abitando in una capanna di assi di legno e corteccia di betulla. Solo quando incontrò sua moglie Helfrid costruì una casa rudimentale che chiamò villa Fredheim.
Dopo un viaggio di tre ore, avvistiamo “l’insediamento Fredheim”. Nella valle non è chiaro dove finisca la terra e dove cominci il fiordo. Si capisce che da qualche parte c’è acqua solo grazie al suono del ghiaccio che scricchiola. Il freddo è così intenso che bisogna muoversi di continuo, il mondo abitato è molto lontano. Chi resta bloccato qui o è vittima di un incidente e non ha il telefono, è perduto.
Questo destino sembrava riservato anche alla Frankendaal. La nave non riusciva a liberarsi dal ghiaccio. Era tutto un susseguirsi di schiarite, nebbia e tempeste di neve. Nel suo diario di viaggio Mooij si dice pentito di non aver levato subito gli ormeggi, quell’8 giugno. “Potevamo uscire dal ghiaccio senza problemi e intraprendere la via del ritorno; avremmo evitato tutte le traversie che in seguito descriverò”. Il fatto che la popolazione di balene stesse seriamente diminuendo risulta dal seguente passaggio: “Per quanto sia enorme la balena – non per nulla è chiamata la regina dei mari – in questo viaggio non abbiamo trovato esemplari grandi”. Con la cattura di sette esemplari più piccoli l’equipaggio riempì “95 barili di carne di balena, 19 vasi di grasso e 21 barili di carcassa”. A titolo di comparazione, Mooij cita uno dei suoi viaggi precedenti, in cui con la carne di un’unica balena avevano riempito ottanta barili.
Insomma, a bordo il cibo non mancava – oltre alla carne c’erano anche delle botti con il pane e dei sacchi di orzo e piselli – ma le condizioni di vita peggiorarono di giorno in giorno e sempre più uomini si ammalarono gravemente. Uno degli arpionieri morì di stenti e uno dei falegnami di “tisi polmonare”. L’equipaggio pregava tre volte al giorno “l’Onnipotente” e lo implorava di aiutarli.
A fine luglio Mooij ricevette la visita del contrammiraglio Jaspers della nave danese anch’essa arenata. Chiedeva se poteva comprare un “barile di coda”, dato che il suo equipaggio soffriva di scorbuto. Poco dopo, il contrammiraglio britannico Weatherhead chiese due sacchi di piselli. Il ghiaccio non mollava la presa e durante una terribile tempesta con forti nevicate la nave britannica issò la bandiera di emergenza. Mooij scrisse: “Ci vennero le lacrime agli occhi al pensiero che ci trovavamo nelle loro stesse condizioni… Credevamo che ci sarebbe toccata la stessa sorte”. La situazione peggiorò e tra i malati morì anche il contrammiraglio Jaspers. Alla fine di ottobre trenta inglesi disperati tentarono di andarsene spingendo sul ghiaccio delle scialuppe con dei tendoni e del cibo fino ad arrivare in mare aperto, e da lì raggiungere la terraferma. Ma la missione fallì; dopo una settimana gli uomini tornarono indietro “in condizioni penose”.
Misteriosi incidenti
Sulla via del ritorno verso Longyearbyen la guida si ferma presso un luogo significativo ai piedi di una montagna. Qui, il 29 agosto 1996, un Tupolev russo al servizio dell’azienda mineraria russa Arktikugol ebbe un incidente nel quale morirono tutti i 141 passeggeri, che venivano da Barentsburg ma soprattutto da Pyramiden. L’impatto sulle comunità russe fu enorme: due anni dopo la miniera di Pyramiden chiuse e il villaggio rimase quasi deserto. Anche gli abitanti di Lonyearbyen erano sconvolti. “Questa tragedia contribuì alla solidarietà tra i russi e i non russi alle Svalbard”, ricorda la guida. Di quella solidarietà non è rimasto molto. C’è il rischio di uno scontro tra le infinite distese di ghiaccio e montagne spoglie: potrebbe sembrare la sceneggiatura di un film di James Bond. Invece no. Dietro le quinte succede di tutto. Una volta tutti gli abitanti di Longyearbyen potevano votare per il consiglio comunale, di cui facevano parte anche cittadini non norvegesi. Adesso non più: dallo scorso anno possono votare solo i norvegesi e chi possiede un visto norvegese da almeno tre anni.
Secondo Elizabeth Bourne questo è un segno che Oslo vuole rafforzare la sua presa su Spitsbergen. Lo stesso emerge da una recente intervista con il premier norvegese Jonas Gahr Støre. La Norvegia vuole investire molto in una migliore rete elettrica a Longyearbyen. “E vogliamo che la Norvegia diventi proprietaria di infrastrutture e immobili importanti”. Bourne mi ha raccontato anche dei misteriosi incidenti con i cavi sottomarini avvenuti nel 2021 e nel 2022. Uno collegava la stazione satellite di Spitsbergen con la terraferma norvegese, l’altro faceva parte di un sistema di sorveglianza per i “movimenti subacquei”, ovvero per i sottomarini. Il governo norvegese non ha mai accusato esplicitamente nessuno. Ma secondo la fotografa a Spitsbergen sapevano tutti quali “pescherecci” russi erano i colpevoli.
Oslo in realtà tiene conto di diversi scenari, secondo Bourne, ma il governo non ne parla apertamente. Le autorità consigliano agli abitanti di Longyearbyen di avere sempre in casa cibo e acqua a sufficienza per tre giorni, “nel caso di problemi con i collegamenti”. Secondo Bourne, la vera ragione è che ci vogliono esattamente tre giorni per portare via tutti.
Finisco al ristorante Svalbar, che serve anche balena affumicata. Ma come? Secondo il barista, si tratta di balenottera rostrata, una specie che i norvegesi sostengono di poter cacciare ancora. Fuori soffia un vento gelido, dentro c’è il caminetto a gas acceso, in sottofondo si sente la voce languida di George Michael e passano vassoi carichi di cocktail colorati. È pazzesco quante lingue sento parlare intorno a me, ma non il russo. Dal mio tavolo vedo una foto d’archivio che occupa tutta la parete e raffigura un trealberi di legno inghiottito dal ghiaccio. Avrebbe potuto essere la fine della Frankendaal.
Fine del viaggio
Dopo il tentativo fallito degli inglesi, gli uomini furono divisi fra le tre navi che ancora resistevano. Il contrammiraglio Mooij si ritrovò di colpo con 74 bocche da sfamare e dovette razionare con severità il cibo. Ogni tanto l’equipaggio sparava a una foca e ci cucinava una zuppa. Intanto, il blocco di ghiaccio in cui era incastrata la Frankendaal era andato alla deriva fino a 68° 5’ di latitudine nord.
Mooij si era quasi dato per vinto, ma il 27 novembre 1786, più di sette mesi dopo la partenza da Amsterdam, le condizioni meteorologiche erano favorevoli e il blocco di ghiaccio era andato così alla deriva che si era creato una sorta di canale di navigazione con ghiaccio giovane. Finalmente sia la Frankendaal sia la nave danese e quella svedese riuscirono a disincagliarsi e a raggiungere il mare aperto. Il trealberi era pesantemente danneggiato e bisognava pompare fuori l’acqua per non colare a picco. Durante la dura traversata verso sud si ruppero alberi, si strapparono vele e si spaccò la barra del timone. All’equipaggio non fu risparmiato niente. Dopo la tragedia nel ghiaccio, Mooij e i suoi uomini si trovarono faccia a faccia con la morte per annegamento. “Andavamo avanti alla cieca, sotto le intemperie”.
Poi avvenne un miracolo. Alle prime ore del mattino del 30 dicembre avvistarono degli scogli e qualche ora dopo la Frankendaal gettò l’ancora nel porto della località norvegese di Bergen. La nave ricevette tutti gli aiuti necessari dal console olandese. E cosa fece Mooij? Seppellì due persone dell’equipaggio morte e andò a fare la spesa. “Un bue di circa cento libbre costava dieci fiorini. Anche il pesce era molto abbondante, un grosso merluzzo si compra per quaranta centesimi”, scrisse entusiasta.
Due mesi dopo, nel febbraio 1787, la Frankendaal rimessa a nuovo arrivò nel porto olandese di Pampus. Lì, Gerrit e Pieter Mooij accolsero il fratello Maarten, che avevano creduto morto. “Il loro silenzio accompagnato da lacrime di gioia valeva più di mille parole”. ◆ oa
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati