“Alzati, c’è la guerra!” è stata la prima cosa che Darja ha sentito la mattina del 24 febbraio. Non riusciva a crederci. Poco prima Vladimir Putin si era rivolto ai russi, annunciando l’inizio di un’“operazione militare speciale” in Ucraina con l’obiettivo di “proteggere le persone che per otto anni sono state vittime di abusi e di genocidio da parte del regime di Kiev”. Compresi i cittadini russi.

Poi sono cominciati gli attacchi. I bombardamenti hanno colpito anche edifici civili e cittadini indifesi. Secondo le Nazioni Unite, nei primi cinque giorni di guerra sono stati uccisi almeno 102 civili, tra cui sette bambini, ma il numero delle vittime potrebbe essere molto più alto.

“Quando vivi in tempi di pace e ti dicono che sta per cominciare la guerra, non ci credi. Te ne rendi conto solo quando iniziano davvero a bombardarti”, dice Darja.

Quattro anni fa faceva la cuoca a Mosca, e le avevano offerto un lavoro a Kiev per un paio di mesi. Aveva accettato senza avere un’idea precisa di cosa fare del suo futuro. Ai primi due mesi di permanenza se ne sono aggiunti molti altri, e all’inizio del 2018 Darja ha preso le sue cose a Mosca, è partita e ha detto al fidanzato che sarebbe tornata nel giro di qualche settimana. Ma non l’ha fatto. È rimasta a Kiev. Poco dopo ha conosciuto il suo futuro marito Ilja, cittadino ucraino. Un anno e mezzo fa hanno avuto un figlio. Il giorno dell’invasione Darja doveva andare alle terme. Invece, alle sette del mattino, con il figlio faceva la fila davanti alla farmacia. Suo marito, intanto, faceva scorte di acqua e cibo.

Darja racconta che subito dopo sono arrivati messaggi per convincere la popolazione ad andare nei rifugi antiaerei. Il più grande è la metropolitana di Kiev, ma c’è anche chi si nasconde negli scantinati e nei parcheggi. Così ha fatto Darja con la sua famiglia, la tata e i due cani. “Era pieno di macchine, freddissimo, senz’aria, senz’acqua, senza bagni. Siamo rimasti lì sei ore, poi abbiamo deciso di passare la notte a casa”.

Quando l’attacco è finito, la famiglia ha deciso di lasciare Kiev. “Le strade erano distrutte dopo il passaggio dei carri armati, due caccia russi sono passati e hanno bombardato. È stato terribile”.

Il villaggio in cui si erano fermati è stato attaccato. Così Darja e la sua famiglia hanno continuato il viaggio. Ora sono in un posto relativamente sicuro. “Non avrei mai pensato di vivere niente del genere. Le bombe fanno paura. Un’enorme onda d’urto che distrugge tutto”, dice Darja. “È spaventoso come nel giro di due settimane si possa perdere tutto quello che si era costruito. Niente sarà più come prima”.

Fiocco di neve

“Esco a fumare e sento esplosioni e sirene”, racconta Julija. Fino a pochi giorni fa viveva a Kiev, ma ora si è trasferita in una zona più periferica con alcuni amici.

“Mi vergogno per il mio paese. L’unica cosa da fare ora è aiutare gli ucraini”

Si è abituata al rumore delle esplosioni, ma ha cominciato ad avere paura degli aerei. Va a letto vestita e ha sempre con sé le cose necessarie per scappare nel rifugio antiaereo se scatta l’allarme.

Julija dice di aver sempre voluto vivere in Ucraina. È nata ad Archangelsk, in Russia, ma suo nonno paterno è ucraino. Nel 2014, quando è cominciato il conflitto armato nel Donbass e la Russia ha annesso la Crimea, Julija ha cominciato a partecipare alle proteste contro il regime di Putin e a pensare sempre più spesso di emigrare. “Mi ha sconvolto il fatto che certe persone possano gioire della guerra e della conquista di territori stranieri, senza rendersi conto delle conseguenze”, dice.

Così si è trasferita a Kiev, “la città migliore in cui abbia mai vissuto. Ormai mi considero una cittadina dell’Ucraina. Qui ci sono persone buone e aperte. Dopo l’inizio della guerra nel Donbass, nei negozi mi chiamavano businka (diminutivo di fiocco di neve o goccia di pioggia), o con altri vezzeggiativi. Qui ci si sente a proprio agio, vicini agli altri”.

Tra due fuochi

Non si sa con certezza quanti russi ci siano ora in Ucraina. Il sito dell’istituto statistico ucraino indica solo il numero degli immigrati arrivati nel 2019 e 2020: rispettivamente 5.304 e 3.691 persone.

Mosca non ha offerto assistenza per l’evacuazione a nessuna delle persone che abbiamo intervistato, tutte con permesso di soggiorno ucraino. E, a quanto pare, nemmeno ai suoi cittadini che si trovavano in Ucraina al momento dello scoppio della guerra senza permesso di soggiorno. E molti russi, inoltre, sono rimasti senza passaporto, dice Nikolaj, che fa l’avvocato a Odessa.

Nikolaj si è trasferito in Ucraina dalla regione russa di Belgorod nel 2010, subito dopo la laurea. Si era innamorato della città da bambino, quando veniva a trovare i parenti. “Odessa è una piccola San Pietroburgo. Con un clima migliore e più allegra”. Nikolaj si aspettava un attacco russo, ma non si era preparato.

La città, racconta, si è svuotata. Ma lui non vuole andarsene. Passa la maggior parte del tempo a casa. Segue le notizie e i canali di Telegram. “Sono un tipo poco emotivo, quindi prendo quello che succede come inevitabile. Io e i miei amici chattiamo, ci sosteniamo a vicenda”, dice Nikolaj. Nonostante la calma esteriore, non si sente al sicuro: “Non so quando arriverà il missile, dove passerà e se mi risparmierà. La verità è che in Ucraina mi sento più tranquillo. Non riesco a spiegarlo, ma quando sono arrivato ho sentito una sorta di leggerezza, di libertà”, spiega Nikolaj. E aggiunge che fino a oggi, nonostante la cittadinanza russa, ha sempre potuto criticare pubblicamente e senza conseguenze le autorità ucraine.

“Qui si vive più liberamente”, aggiunge Julija. “E mi sembra che le persone abbiano un maggior senso della responsabilità. In Russia, invece, tutti si aspettano che siano gli altri a prendere l’iniziativa, a costruire il futuro e la democrazia”.

“Ammiro gli ucraini. Ho capito che sono loro il mio popolo, non hanno paura di dire cosa pensano. C’è libertà di parola. E questa è la cosa più preziosa”, dice Darja. Come le altre persone che abbiamo intervistato, non parla ucraino, ma la cosa non è mai stata un problema.

L’invasione russa, però, sta cambiando tutto. La Banca nazionale ucraina ha stabilito che i russi (e i bielorussi) non possono prelevare denaro dai conti bancari ucraini. “L’odio aumenta a vista d’occhio”, racconta Darja. In questi giorni cerca di restare a casa. “È comprensibile. Gli ucraini stanno morendo per mano del nostro popolo. È molto difficile per me. Ma allo stesso tempo ho un permesso di soggiorno, ho il diritto di vivere in questo paese, pago le tasse, mio figlio e mio marito sono ucraini”, dice.

Darja non capisce nemmeno i suoi parenti che vivono in Russia. “Sono tra due fuochi. Mia madre ormai comincia a capire, perché le mando foto, informazioni. Ma poi risponde inviandomi video e notizie della propaganda russa: ucraini che sparano su altri ucraini, il governo che scarcera i detenuti e gli fornisce armi. Cose surreali. Perfino mia nonna ha detto che hanno fatto bene a bombardare l’Ucraina. Le ho risposto che non l’avrei chiamata per un po’”.

Cucine da campo

“Non so ancora come vivrò qui con il mio passaporto russo. Penserò in seguito a cosa fare”, dice Julija. Ma è quasi sicura di non tornare in Russia.

Anche Aleksandr non sa cosa fare. “Non voglio lasciare Kiev. Rimarrò finché potrò. Ho vissuto qui troppo a lungo. Non posso semplicemente voltarmi e andarmene”. Aleksandr è originario di Perm, ma per lavoro – fa il cuoco – ha vissuto a Mosca e negli Stati Uniti. A Kiev si è trasferito alla fine del 2013.

In seguito all’inizio dell’invasione russa, ha fatto le valigie e ha lasciato il suo appartamento nel centro di Kiev. “Sarebbe stupido rimanere, perché nelle vicinanze ci sono potenziali bersagli”, spiega Aleksandr, che si è trasferito a casa di amici.

A Kiev c’è il coprifuoco dalle 17 alle 8. Nelle ore in cui si può uscire, Aleksandr e i suoi colleghi preparano da mangiare per gli altri. “C’è sempre qualcuno da aiutare in queste situazioni”. Aleksandr mi racconta che anche durante la rivoluzione di Euromaidan cucinava per i manifestanti. Poi la nostra conversazione è interrotta dal suono di una sirena. Ma Aleksandr non ha fretta di correre al rifugio antiaereo. “Mi è venuto in mente un episodio divertente”, dice. “Quando ho ricevuto il permesso di soggiorno ucraino, l’addetto al servizio di sicurezza mi ha chiesto: ‘Se i russi invaderanno Kiev, tu a chi darai da mangiare?’. Allora risi. Ora non mi viene più tanto da ridere”.

Nikolaj ha deciso di rinunciare alla cittadinanza russa: “Non voglio essere cittadino di un paese in cui non vivo e di cui non condivido le politiche”. Darja ha fatto la stessa scelta: “Voglio avviare la procedura per rinunciare alla cittadinanza. I russi, la mia gente, sono venuti a uccidermi”. Quando la guerra finirà, tornerà a Kiev per partecipare alla ricostruzione della città. Nel frattempo aiuta chi, come la sua famiglia, è stato costretto a fuggire. “Mi vergogno del mio paese. Sta commettendo una mostruosità. Non so come potremo conviverci. L’unica cosa da fare è aiutare gli ucraini”. ◆ ab

Questa è una versione ridotta del reportage pubblicato da Meduza.

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Questo articolo è uscito sul numero 1450 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati