Questa guerra, che ha già un anno, ha cambiato le carte in tavola. Non è più una guerra a bassa intensità, ma non si trasformerà in un conflitto regionale.

Finora l’Iran si è rifugiato dietro organizzazioni militari locali – Hezbollah in Libano, Hamas nella Striscia di Gaza, gli huthi in Yemen – che hanno combattuto Israele rimanendo all’interno dei limiti stabiliti per prevenire un confronto diretto tra i due paesi.

A differenza di Hezbollah, Hamas ha mantenuto una certa autonomia decisionale rispetto all’Iran, il che significa che la portata degli attacchi di Hamas in territorio israeliano il 7 ottobre 2023 ha colto di sorpresa anche gli iraniani. Ma Hamas non può sopravvivere se Israele non è costretta a combattere su più fronti. Tel Aviv ha quindi deciso di alzare il livello dello scontro: non si tratta più di contenere, ma di ridimensionare, se non annientare, gli alleati di Teheran, impedendo all’Iran di andare in loro aiuto o di esercitare una pressione tale su Israele da costringerlo a negoziare per uscire dallo stallo.

Il regime iraniano è all’angolo e cerca di presentarsi come una potenza preoccupata di ristabilire l’equilibrio nella regione, accontentandosi di rispondere dentro i limiti della sua nuova dottrina. Il regime si limita a cercare di salvare la faccia organizzando quello che sembra, data l’asimmetria delle forze in campo, uno “show” balistico, mentre Israele, al contrario, rivendica di voler aumentare la tensione.

Struttura di comando

Il giochetto che ha funzionato per quarant’anni (da quando Israele ha invaso il Libano nel 1982) – una situazione mantenuta a colpi di minicrisi – non funziona più. Per due ragioni: il crollo delle capacità militari della coalizione anti-israeliana e il cambiamento nella strategia d’Israele, che non si può ridurre semplicemente alla volontà del premier Benjamin Netanyahu di prolungare la guerra per evitare i processi in cui è imputato.

Finora, il giochetto di adattamento di entrambe le parti al miglioramento delle capacità dell’altra ha fatto sì che, dopo ogni crisi, la situazione sia quasi sempre tornata al punto di partenza: la resistenza di Hezbollah all’intervento israeliano nel sud del Libano nel 2006 è riuscita grazie a progressi tattici come la costruzione di tunnel, ma l’enorme uso fatto da Hezbollah e Hamas di missili sempre più avanzati si è scontrato con l’efficacia della difesa antimissile degli israeliani.

A causa della sua portata, l’attacco terroristico in territorio israeliano del 7 ottobre ha alterato questo equilibrio.

Israele ha lanciato un’operazione per sradicare Hamas. Meccanicamente, questo ha portato a un confronto con Hezbollah, che Israele stavolta aveva meticolosamente preparato. Dato che il vero bersaglio di Tel Aviv sono diventati Hezbollah e l’Iran, la questione palestinese è stata trasformata a sua volta in un obiettivo più lontano. L’importante ora è eliminare gli altri rivali.

La ragione di questa strategia è molto semplice: lo straordinario successo delle operazioni di sradicamento dei leader e dei quadri di Hezbollah. Finora la loro uccisione sembrava più una sorta di vendetta, dato che ogni leader ucciso era immediatamente sostituito, mentre l’organigramma del gruppo rimaneva intatto. La vicenda dei cercapersone e dei walkie-talkie, invece, ha spezzato la catena di comando dall’alto verso il basso, ostacolando la capacità dell’organizzazione di combattere una guerra. Insieme all’uccisione di Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, nel cuore dell’Iran dei pasdaran, questa operazione rivela la penetrazione israeliana all’interno di Hezbollah e soprattutto nell’apparato statale iraniano. Inoltre, il suo effetto è amplificato dalla paranoia che genera nei ranghi di Hezbollah e dei Guardiani della rivoluzione islamica: tutti diventano sospetti, anche ai livelli più alti.

È sul piano dell’intelligence e delle nuove tecnologie che si è giocata la sconfitta della coalizione sciita. Anche se gli attacchi sono prevedibili, è questa penetrazione che rende estremamente difficile per l’Iran lanciare un contrattacco, sia contro Israele o i suoi interessi sia semplicemente contro le istituzioni ebraiche dentro il paese o nel mondo.

Va notato che questo livello di penetrazione non riguarda Hamas. Ha a che fare con la specifica struttura di comando nelle file dei Guardiani della rivoluzione iraniani e di Hezbollah. La gerarchia dei Guardiani della rivoluzione si basa su un’unica generazione: quella che ha combattuto negli anni ottanta, principalmente in Libano e, in misura minore, in Iraq. Ne fanno parte persone nate negli anni sessanta, che sono state volontarie, militanti e ideologicamente formate. Hanno trascorso tutta la loro giovinezza in guerra e si sono dedicate alla causa, a scapito degli studi. Ma quando sono cresciute, hanno messo su famiglia e volevano che i loro figli avessero successo in pace piuttosto che in guerra. Così si sono lanciate negli affari, giocando sulla corruzione del sistema.

Sidone, Libano, 1 ottobre 2024 (Diego Ibarra Sánchez, The New York Times/Contrasto)

Naturalmente, esiste ancora un nucleo “puro”, come il generale Qassem Soleimani, ucciso in un attacco compiuto da droni statunitensi in Iraq nel gennaio 2020. Certo, ci sono giovani reclute, ma si arruolano più per tradizione familiare o perché hanno bisogno di trovare lavoro. In ogni caso, non sta emergendo una nuova generazione di leader. A questo si aggiungono i conflitti personali, il blocco delle carriere e la stanchezza dei militanti. È un fenomeno che si riscontra in tutti i movimenti rivoluzionari coinvolti in guerre interminabili: i sandinisti del Nicaragua, i mujahidin afgani, i guerriglieri colombiani, i vietcong, eccetera.

Amareggiati, delusi, testimoni della corruzione del regime, desiderosi di una vita migliore per i figli, sono centinaia o perfino migliaia i militanti disposti a tradire, a condizione, ovviamente, di essere pagati. E se non succede tra gli affiliati di Hamas è perché questi rimangono all’interno del popolo palestinese e hanno come unica prospettiva la lotta; chi vuole una vita diversa se ne va per unirsi a una diaspora piuttosto prospera.

La sconfitta di Hezbollah e dell’Iran si deve soprattutto al crollo dell’ideologia originaria, a cui si aggiunge, soprattutto per Teheran, l’invecchiamento e il mancato rinnovamento della leadership.

Perché, ovviamente, la popolazione iraniana non segue l’attivismo regionale del regime, al di là della protesta contro il velo o la dittatura. I Guardiani della rivoluzione sono volontari, ma l’esercito è composto da soldati di leva: la popolazione non accetterà mai che siano inviati all’estero o coinvolti in una guerra. Il regime si trova quindi in una situazione di stallo: può certamente lanciare una campagna terroristica all’estero, ma questo non farà che rafforzare il sostegno occidentale a Israele. E la bomba nucleare, per fortuna, non è operativa.

La seconda parte

La carta migliore di Israele, a parte le armi che sono in grado di penetrare nei bunker che proteggono i siti nucleari iraniani, è proprio il fatto che il regime di Teheran non conosce la portata dell’infiltrazione del Mossad (i servizi segreti israeliani per l’estero) nei suoi ranghi, quindi potrebbe temere un nuovo colpo dall’interno.

Il secondo elemento nuovo di questa guerra è che la strategia di Israele va oltre la semplice ricerca della sicurezza, che era il suo principio guida fino al 7 ottobre.

La destra al potere non vuole due stati. I suoi rappresentanti più estremi lo dicono apertamente. Vuole che i palestinesi scompaiano. O scompaiono – uccisi o costretti all’esilio – o diventano arabi come gli altri, abbandonando ogni pretesa nazionale, che era la posizione maggioritaria in Israele tra il 1948 e il 1967. Gli accordi di Oslo del 1993 consideravano i palestinesi un popolo con aspirazioni nazionali, tagliandoli però fuori dal mondo arabo. Ora hanno perso su entrambi i fronti: la prospettiva di due stati è naufragata e non c’è, né ci sarà, alcun sostegno arabo alla causa palestinese, anche se c’è una forte partecipazione emotiva nella popolazione araba, soprattutto tra gli intellettuali.

In occidente si fa troppo affidamento sul movimento che si oppone a Netanyahu in Israele. Anche se presenta una reale dinamica democratica, non è in alcun modo un movimento a sostegno dei palestinesi. Ha a che fare soprattutto con questioni di politica interna della società israeliana. Per alcuni manifestanti che criticano Netanyahu per non voler salvare la vita degli ostaggi, l’uccisione di cinquecento civili palestinesi per un ostaggio salvato non è un problema. Il destino dei palestinesi non è affare loro.

La “sinistra” israeliana non ha alcuna strategia da opporre a quella della destra. Non ha mai impedito ai coloni di occupare le terre palestinesi. Il paese nel suo complesso sta passando dalla ricerca di un equilibrio per la sicurezza alla pulizia etnica della Palestina. La prima fase – isolare i palestinesi – è stata un successo. La seconda sarà “logorarli”, costringerli in spazi angusti e poi spingerli all’esilio. Se la destra israeliana lo dirà esplicitamente, la sinistra tacerà e lascerà che succeda. Questa seconda parte della strategia richiederà tempo. Per settant’anni, a fasi alterne Israele ha ingrandito il suo territorio e le zone che controlla. Quando si è millenaristi, si può aspettare qualche generazione.

Un tema ricorrente nei mezzi d’informazione internazionali è la messa in guardia dalla possibile regionalizzazione del conflitto. Ma sta succedendo il contrario. Non c’è più nessuno stato arabo che sostenga attivamente – o anche solo politicamente – la causa palestinese. Gli stati del Golfo, l’Arabia Saudita, il Marocco e l’Egitto hanno portato avanti tranquillamente la loro politica di avvicinamento a Israele e incolpano Hamas di aver provocato la crisi. Sono tutti felici di vedere l’Iran espulso dal Medio Oriente. I discorsi indignati del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan non hanno fermato le vendite di armi turche a Israele. In nessun luogo, tranne che in Libano, le milizie filo-iraniane hanno il monopolio dell’accesso alle armi. In Iraq come in Siria, devono confrontarsi con altri gruppi armati: i curdi nel nordest della Siria, il gruppo Hayat tahrir al Sham a Idlib, nel nordovest, le milizie anti-iraniane in Iraq. Quanto al popolo siriano, non può che rallegrarsi della sconfitta di Hezbollah e dell’Iran: certo Bashar al Assad non metterà a rischio il poco potere che gli resta.

La passività dei paesi arabi segna la fine del panarabismo. Ma esisteva davvero al di là degli slogan? L’Egitto non è più un paese leader e collabora con Israele. I due pesi massimi sono oggi l’Arabia Saudita e il Marocco, che difendono solo i propri interessi nazionali. Sostenendo Israele, il Marocco ha rafforzato la sua posizione sul Sahara Occidentale (la regione rivendicata dal popolo sahrawi). Il principe ereditario saudita promuove un nazionalismo puramente saudita e ha messo alle strette un clero wahabita spesso accusato di diffondere il salafismo nel mondo musulmano. Promuovendo un islam “nazionale e moderato” – il malikismo in Marocco – questi due paesi si oppongono a qualsiasi movimento che possa portare a un nuovo panislamismo: Fratelli musulmani, salafiti o clero iraniano.

Un anno dopo il 7 ottobre 2023, sono emersi due limiti all’estensione di questa guerra. In primo luogo, a livello internazionale, sembra certo che non ci sarà alcuna coalizione contro Israele: né panaraba né del “sud globale”, una nozione buona solo per animare un dibattito “geostrategico” che serve solo ai talk show televisivi. In Europa e in occidente, l’impatto del conflitto si limiterà a quello che è oggi: una protesta morale confinata nelle università e nei soliti luoghi di rivolta. L’intifada delle periferie è uno spauracchio che può essere usato per ottenere consensi politici, ma non ha sostanza reale.

Questi due limiti dimostrano una cosa: che Israele non ha più nessun limite. ◆ adg

Ultime notizie
L’offensiva s’intensifica

◆L’8 ottobre 2024 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha minacciato la popolazione libanese di devastazioni paragonabili a quelle della Striscia di Gaza se non si libererà della milizia filoiraniana Hezbollah. Il giorno precedente, nel primo anniversario dell’attacco del movimento islamista palestinese Hamas in territorio israeliano del 7 ottobre 2023, Netanyahu ha promesso di continuare a combattere fino alla completa distruzione di Hamas e Hezbollah.
◆L’esercito israeliano ha intensificato la sua offensiva di terra nel sud del Libano cominciata il 30 settembre. L’8 ottobre ha bombardato il sud e l’est del paese e la periferia meridionale di Beirut, roccaforti di Hezbollah. Inoltre una quarta divisione dell’esercito è stata inviata nel sudovest del Libano. Secondo il governo siriano un raid israeliano ha ucciso sette civili a Damasco, la capitale della Siria, tra cui alcuni bambini. L’offensiva israeliana continua anche nella Striscia di Gaza, dove l’8 ottobre diciassette persone sono morte nel crollo di una casa colpita da una bomba in un campo profughi a Bureij, nel centro del territorio. Hezbollah e Hamas continuano a lanciare razzi verso Israele dal Libano e dalla Striscia di Gaza. Dopo aver rivendicato il lancio di alcuni razzi contro siti militari e la città di Haifa, nel nord d’Israele, Hezbollah ha minacciato d’intensificare gli attacchi se l’esercito israeliano proseguirà la sua offensiva in Libano.
◆Il 5 ottobre, durante un intervento alla radio France Inter, il presidente francese Emmanuel Macron ha detto che bisognerebbe interrompere la consegna di armi a Israele: “Penso che oggi la priorità sia tornare a una soluzione politica e smettere di fornire armi usate per combattere a Gaza”. Lo stesso giorno il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha commentato che Macron e gli altri leader occidentali favorevoli a un embargo sulle forniture di armi a Israele dovrebbero “vergognarsi”. Afp, Al Jazeera


Olivier Roy è uno studioso francese esperto di islam. Insegna all’Istituto universitario europeo di Firenze e collabora con Internazionale. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’appiattimento del mondo (Feltrinelli 2024). Le Grand Continent è una rivista fondata nel 2019 che si occupa di geopolitica e ha edizioni in varie lingue europee.

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Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati