Era l’ennesima nottata che passava a letto con gli occhi sbarrati. Le aveva provate tutte: bere una tazza di latte caldo, spegnere il cellulare, fare un po’ di yoga, ma non era servito a niente. E allora Simone Ullmann, 51 anni, ci ha provato con la meditazione. Ha cominciato con 15 minuti al mattino: dirigeva un’azienda e il ritmo serrato delle sue giornate le impediva di fare di più. Ma poi si è resa conto del cambiamento: stava acquisendo una calma interiore e aveva cominciato a dormire meglio. Allora ha iniziato a meditare anche di sera, e un giorno si è iscritta a un ritiro a Londra.
Ma il primo giorno di meditazione la testa, la nuca e il cuore di Ullmann sono stati improvvisamente percorsi da “una specie di lampo”. “Ero sovraeccitata, come se avessi preso delle droghe”, ricorda. Un supervisore però l’ha tranquillizzata: “Sei sulla strada giusta”. Qualche settimana dopo, Ullmann è stata ricoverata in psichiatria.
Danial Girard ha 41 anni, fa l’informatico e ha sempre pensato che la fiducia in sé stessi sia una dote innata: “Chi non ce l’ha, come me, può solo rassegnarsi”. Finché un giorno non si è imbattuto in certi siti internet che sostengono che autostima e amor proprio sono questione di allenamento: bastano un po’ di meditazione, qualche esercizio di mindfulness e qualche manuale che ti insegni a vivere nel momento presente. E allora Girard si è dato alla meditazione guardando su YouTube i tutorial del guru indiano Sadhguru, il cui motto è: “Io non sono il corpo, io non sono neppure la mente”. Un giorno, mentre stava facendo la spesa al supermercato, Girard ha visto le cose intorno a sé “diventare brillanti”. E ha avuto la sensazione che le sue braccia non facessero più parte del suo corpo.
Per Sebastian Timm, 32 anni, il lavoro al chiosco era sfiancante: tutte quelle ore in piedi, tutta quella gente che va di fretta. Allora ha deciso di prendersi una pausa e andare a sud: un viaggio in bici fino al Portogallo. Durante le serate in tenda e le giornate in sella si è dedicato molto alla meditazione, respingendo i pensieri negativi e percependo “positivamente” il vento e il cinguettio degli uccelli. Si sentiva “semplicemente felice”. Che fosse questa l’illuminazione? Quando dopo due mesi è arrivato in Portogallo, all’improvviso è stato colto da una gran paura di morire e ha avuto un attacco di panico con tanto di allucinazioni.
Ullmann, Girard e Timm, che non hanno voluto vedere pubblicati i loro veri nomi, non avevano mai sofferto di malattie psichiche. Tutti e tre lavoravano, avevano famiglia e amici e prima di darsi alla meditazione si sentivano piuttosto in salute. Ma tutti e tre hanno sviluppato delle psicosi, nelle quali proprio la meditazione sembra aver avuto un ruolo.
Immersi nel silenzio
Non esiste una definizione universalmente accettata di meditazione. Le più di trecento tecniche che conosciamo hanno una cosa in comune: camminando, praticando il qi gong o lo yoga o rimanendo seduti a gambe incrociate, ci si immerge nel silenzio e ci si focalizza sui propri pensieri per lasciarli scorrere, si analizzano le sensazioni del corpo, si dirige l’attenzione sul respiro. La meditazione è nata nelle culture induiste e buddiste, e in origine mirava all’illuminazione, ossia alla dissoluzione dell’Io, che per il buddismo significa raggiungere il nirvana. In occidente, invece, è diventata una panacea contro tutti i mali della vita quotidiana. E anche un mercato miliardario.
Inoltre è oggetto di un crescente interesse scientifico: negli ultimi dieci anni sono usciti più studi sulla meditazione che nei precedenti cinquanta, e ogni anno le pubblicazioni scientifiche sul tema sono circa un migliaio. La ragione per cui questa pratica di nicchia è diventata un fenomeno di massa è piuttosto banale: la gente si è resa conto che funziona. Dalle ricerche scientifiche è emerso che chi medita regolarmente è più rilassato, più concentrato, più sicuro di sé e più empatico. Chi medita per anni è meno stressato e soffre meno di ansia e depressione.
In origine mirava all’illuminazione, ma in occidente è diventata una panacea contro tutti i mali della vita quotidiana
Ma ora è emersa un’altra domanda: è possibile che in alcuni casi la meditazione intensiva produca il risultato contrario a quello desiderato? È possibile che meditare ci faccia ammalare?
Sangue al cervello
Nel 2019, quando Dispenza è venuto in Germania, Ullmann si è iscritta a una lunga sessione di meditazione guidata. I partecipanti erano circa 1.200. Una “folla variegata”, ricorda, “con tanti giovani.” E lì Ullmann ha provato quel vuoto mentale di cui prima aveva solo sentito parlare. “Ho pensato: ecco il trucco! Basta meditare più a lungo”. Dopo quell’episodio, ricorda, si è sentita “più concentrata, più rilassata”, e anche la sua insonnia è migliorata leggermente.
Ullmann voleva provare un ritiro più lungo, ma la pandemia di covid l’ha costretta ad aspettare. Finalmente, nell’estate del 2022 è andata a Londra con una sua amica per il ritiro di una settimana con Dispenza. Al prezzo di quasi 2.500 dollari, Ullman si è ritrovata in una sala con altre 2.500 persone e già il primo giorno, dopo aver meditato per diverse ore, ha avuto il “lampo”. Non riusciva a muoversi e aveva la sensazione che “un’incredibile quantità di sangue” le affluisse al cervello. “Volevo solo scappare”, racconta.
Invece il secondo giorno ha ripreso a meditare, una volta addirittura per quattro ore e venti minuti senza interruzione. Si è rivolta a una supervisora, le ha raccontato come si sentiva, ma quella le ha assicurato che andava tutto bene. La notte non riusciva a dormire, si sentiva su di giri.
Oggi esperienze come la sua sono state studiate, almeno in parte. Willoughby Britton è considerata una delle maggiori esperte mondiali di problemi legati alla meditazione e ha incontrato perfino il dalai lama. Ha 51 anni e insegna psicologia alla Brown university di Providence, negli Stati Uniti. Anche lei meditava: ha cominciato a vent’anni dopo una profonda crisi innescata dal suicidio di un’amica. Suo padre le aveva consigliato un libro di Jack Kornfield, un californiano diventato monaco buddista. Britton ha trovato conforto nella meditazione e ha cominciato a praticarla sempre più spesso, finché ha avuto degli episodi dissociativi: le sembrava che il suo corpo si stesse dissolvendo, aveva la sensazione di fluttuare e di poter vedere dietro i propri occhi. E, proprio come Ullmann, non riusciva più a dormire.
A metà degli anni duemila Britton ha condotto uno studio per scoprire in che modo meditare regolarmente incide sulla qualità del sonno. All’epoca si riteneva che meditare aiutasse a dormire meglio, ma la maggior parte degli studi si basava su prove aneddotiche.
La sua percezione della realtà si era fatta più dettagliata, tutto “vibrava ad alte frequenze” e lui sentiva “una specie di nebbia in testa”
Britton è stata una delle prime ricercatrici a far dormire i soggetti in laboratorio per misurarne le onde cerebrali, i movimenti oculari e la tensione muscolare, raccogliendo dati per ben duecento notti. I suoi dodici soggetti le avevano ripetuto quello che pensavano tutti: dormivano meglio da quando avevano cominciato a meditare cinque giorni su sette. I dati raccolti sembravano confermare queste affermazioni: chi si dedica a brevi sessioni di meditazione ha un buon sonno profondo. Ma dai suoi studi è emerso anche che chi lo fa per più di mezz’ora al giorno ha un sonno meno profondo con risvegli notturni più frequenti: il loro cervello era in uno stato di maggiore eccitazione.
Già un anno prima, mentre partecipava a un ritiro di dieci giorni, Britton aveva riferito i suoi risultati all’insegnante di meditazione. “Perché voi psicologi siete sempre convinti che la meditazione sia solo una forma di rilassamento?”, le aveva risposto: lo sanno tutti che chi medita può avere problemi di sonno.
Nel 2012 Britton ha avuto la possibilità di trascorrere quasi mezz’ora con il dalai lama. All’epoca le era parso un grande onore, ma oggi non ripensa volentieri a quell’incontro. In un video su YouTube si vede Britton che gli espone i risultati dei suoi studi, spiegando che alcuni insegnanti di meditazione hanno visto compromessa la loro vita quotidiana per anni. Il dalai lama risponde che quella gente non pratica la meditazione come dovrebbe e non ha una formazione buddista adeguata. E ogni volta che parla ride. Il fastidio di Britton è chiaramente percepibile.
Non tutti apprezzano le ricerche di Britton, anzi. Ogni anno riceve centinaia di email da insegnanti e praticanti che la accusano di distorcere la realtà e di non essere una ricercatrice seria. L’hanno perfino minacciata di querela.
Dal punto di vista scientifico, spiega Britton, la meditazione intensiva può essere considerata una forma di eccitazione corticale. La corteccia è l’area cerebrale che presiede alla vista, alla lettura, all’ascolto, alla parola e al pensiero. Un eccesso di meditazione ha un effetto stimolante su quest’area, simile a quello di una droga.
Britton fa un paragone: per aumentare la capacità di attenzione e restare svegli molti consumano caffè, anfetamine, ritalin o addirittura cocaina, tutti stimolanti che consentono di concentrarsi meglio. “Ma quando ne prendi troppi, ecco che arrivano ansia, panico, insonnia e, in alcuni casi anche episodi psicotici”. La meditazione funziona in modo simile: “Più è elevata la dose, più probabili sono le complicazioni”.
Cheetah house è un’organizzazione senza scopo di lucro attiva dal 2013. Si rivolge a chi meditando ha sperimentato ansia e ipersensibilità. Persone da tutto il mondo si rivolgono a Britton e al suo
team riferendo esperienze simili. Tante di loro reagiscono meditando più a lungo nella speranza di calmarsi. “Ma ovviamente le cose peggiorano”. Così si innesca un circolo vizioso.
Il male indiano
È andata più o meno così anche nel caso di Simone Ullmann. L’ultimo giorno del ritiro, la paura ha cominciato a crescere e all’improvviso ha avuto la certezza che il suo aereo sarebbe precipitato. Allora ha cambiato il volo e ha telefonato al padre di suo figlio, dal quale è separata, per pregarlo di occuparsi del ragazzo se lei fosse morta. Tornata in Germania, non riusciva a dormire. Durante la notte si era convinta che fosse morto suo padre e alle quattro del mattino ha telefonato al fratello per dirgli che anche lei stava per morire. “Ero in pieno delirio”, ricorda.
Pochi giorni dopo è andata in vacanza con il nuovo compagno e il figlio. Ma non riusciva a dormire più di due ore di seguito e si era convinta che qualcuno fosse entrato in casa per stuprarla. Ha preso dei calmanti e ha interrotto la vacanza. Uno psichiatra le ha diagnosticato una psicosi ciclotimica, un’oscillazione tra euforia e panico che si riscontra in chi torna dagli ashram indiani ed è soprannominata “Indian disease” (il male indiano).
Ullmann ha appreso che con questo disturbo le sensazioni di ansia e di gioia raggiungono forme estreme che vanno dal panico all’estasi. Era disorientata, aveva allucinazioni che a volte duravano ore e non riusciva a dormire. Alla fine ha deciso di ricoverarsi in una clinica psichiatrica dove è rimasta per tre mesi sotto stretta osservazione, perché i medici temevano che potesse farsi del male. Parla di questo periodo come della “cosa peggiore in assoluto”: la sua camera era videosorvegliata, non poteva aprire le finestre e le era consentito passare in cortile solo un’ora al giorno. Quando il figlio è andato a trovarla i medici le hanno consentito di toccarlo solo in presenza del padre.
Willoughby Britton è considerata la principale esperta degli effetti indesiderati della meditazione. Ha individuato un totale di 59 sintomi, tra cui insonnia, attacchi di panico, allucinazioni, ansia, dissociazione, flashback traumatici, depersonalizzazione, manie, episodi psicotici con forme di delirio. Con una ricerca durata dieci anni, Britton è riuscita a dimostrare che circa un praticante su dieci soffre di uno o più di questi effetti collaterali, che hanno forti ripercussioni sulla via quotidiana.
Molti dei suoi pazienti, racconta Britton, arrivano dopo aver partecipato a un ritiro, mentre altri meditavano a casa. Spesso sono stati accusati dagli insegnanti di essere loro stessi i responsabili della propria crisi e si sono chiesti se erano loro a sbagliare.
È la stessa domanda che si è posto Danial Girard. Avrà fatto bene a guardare tutti quei video da solo, a meditare senza una guida? Contrazioni e tremori incontrollati, lampi di luce, energie fortissime: tutte cose che Girard ha vissuto sulla sua pelle. Per fortuna, ricorda, si è risparmiato il ricovero. Dopo ore e ore di colloqui con gli psicologi e un corso di yoga ha ritrovato il contatto con la realtà.
Tutto era cominciato quando Girard aveva deciso di liberarsi delle insicurezze e acquisire maggiore autostima. Su internet si era imbattuto nel sito di un personal coach e aveva preso a seguire i suoi consigli, cominciando a meditare. Quando non era al lavoro Girard stava all’aria aperta e cercava di non pensare alle cose che lo avevano fatto arrabbiare. Rimaneva a contemplare un albero cercando di lasciare che esercitasse la sua azione su di lui.
Ma due anni fa, dopo una lunga festa di compleanno e una brevissima nottata di sonno, al risveglio “era cambiato tutto”. La sua percezione della realtà si era fatta più dettagliata, tutto “vibrava ad alte frequenze” e lui sentiva “una specie di nebbia in testa”, tanti pensieri rapidissimi e disorientanti. Temendo che si trattasse di un ictus era andato al pronto soccorso. I medici gli avevano detto che era tutto a posto. Ma lui sapeva benissimo che non era così.
Poi Girard ha trovato il sito di Ulrich Ott e Liane Hofmann, due psicologi che gestiscono un consultorio per chi soffre di crisi causate dalla meditazione. Girard gli ha raccontato cosa stava succedendo, e loro gli hanno consigliato di calmarsi e parlare con un insegnante di yoga.
Ulrich Ott, 58 anni, ricorda perfettamente i colloqui con Girard. Era disorientato, alternava momenti di confusione ad altri di lucidità. Ott dirige il gruppo di lavoro “stato di coscienza alterato e ricerca sulla meditazione” dell’università Justus-Liebig di Gießen. Studia la meditazione e le tecniche di respirazione, ma anche le crisi spirituali e gli effetti indesiderati della meditazione.
Parlando con Girard, lui e Hofmann hanno pensato che meditare avrebbe potuto avere un effetto positivo su di lui se non l’avesse fatto da solo davanti a YouTube. Gli hanno spiegato che in genere i “sintomi” svaniscono abbastanza rapidamente e gli hanno consigliato di fare yoga per entrare più in contatto con il suo corpo – cosa fondamentale nel suo caso, visto che i tutorial del guru indiano Sadhguru avevano profondamente minato la sua identificazione con il suo corpo.
Ott si interessa di meditazione da quando era giovane. Dopo la maturità si è “completamente immerso nell’ambiente dello yoga. E lì bisogna sopportare cose prive di ogni fondamento”. Allora ha deciso di studiare yoga, psicologia e meditazione “per trovare delle spiegazioni scientifiche”. Dal 2016 al 2019 lui e il suo team hanno analizzato i problemi incontrati da circa cento persone durante la meditazione. Ott ha ideato lo studio dopo un incontro con Britton, che aveva conosciuto qualche anno prima.
Traumi latenti
Sembra che i suoi risultati coincidano in gran parte con quelli di Britton, spiega Ott. Chi ha subìto traumi, per esempio, nella vita quotidiana può essere a tal punto distratto da lavoro e famiglia che non ne soffre più di tanto, come se la quotidianità facesse da cuscinetto. Con la meditazione, però, l’attenzione si rivolge completamente all’interno, di conseguenza le difese si abbassano e le esperienze traumatiche possono riemergere. Per alcuni l’esperienza è così forte da rendere necessario un sostegno psicoterapeutico. Secondo Ott, che pure si dedica a questa pratica da decenni, “meditare non è una panacea”.
Gli effetti collaterali indesiderati della meditazione riguardano solo gli occidentali? Oppure si riscontrano anche nei paesi asiatici dove la meditazione fa parte della vita quotidiana? Cercando sul sito PubMed, una delle più grandi banche dati sulla ricerca scientifica, Ott ha trovato subito due studi sulle reazioni psicotiche riscontrate in soggetti asiatici che praticano il qi gong o la meditazione zen, “il che dimostra che anche loro possono essere colpiti da effetti collaterali”. Eppure, aggiunge, il rischio “è probabilmente minore quando queste pratiche sono parte integrante del contesto culturale”.
Cosa succede nel nostro cervello quando meditiamo? E cosa è successo esattamente a Danial Girard per provocare in lui un disturbo di depersonalizzazione di breve durata, ossia una sorta di alienazione che comporta una perdita della coscienza della propria identità?
All’università di Gießen, usando un macchinario per la risonanza magnetica, il team di Ott ha scoperto che chi medita allena il cervello come se fosse un muscolo, il che, almeno inizialmente, ha un effetto positivo.
Le immagini mostrano che la respirazione consapevole, fondamentale nella maggior parte delle tecniche di meditazione, attiva le aree cerebrali responsabili dell’attenzione. Inoltre, i ricercatori hanno evidenziato che meditando si attiva la corteccia cingolata anteriore, responsabile, tra le altre cose, dell’inibizione di interferenze e distrazioni.
Meditando, spiega Ott, “le mappe cerebrali si fanno più dettagliate” e si possono sviluppare maggiormente le aree legate all’empatia. Inoltre si attivano le aree cerebrali coinvolte nelle percezioni corporee, ossia la corteccia somatosensoriale e quella insulare. In chi si dedica già da tempo a sessioni di meditazione prolungate è stato constatato che queste aree aumentano di dimensioni e i collegamenti sinaptici tra i neuroni diventano più densi.
Anche a causa di questi effetti positivi, spiega Ott, le persone affette da disturbi psichici che si rivolgono ai centri di meditazione sono più che in passato. Tanti vorrebbero sostituire la psicoterapia con la meditazione, oppure cercano di aumentare da soli la propria consapevolezza, come ha fatto Girard.
Troppo soli
Ma perché poche persone sviluppano problemi psichici e molte altre invece no? Può darsi che meditando facciano emergere problemi già presenti? “Non è una domanda semplice: come facciamo a sapere se abbiamo problemi psichici latenti?”, risponde Ott. Per partecipare ai ritiri spesso basta compilare un modulo in cui si dichiara se si hanno disturbi mentali o se si è mai fatto uso di droghe.
Oggi a chiedere aiuto a Ott e Hofmann sono spesso i giovani che praticano la meditazione da soli seguendo i tutorial online
C’è chi si iscrive a ritiri che durano anche diversi giorni e poi si ritrova a “cuocere nel suo brodo”. Vale anche per lui stesso, spiega Ott, che pure è uno psicologo con un io solidamente strutturato: “In dieci giorni di ritiro del silenzio vipassana arrivo al limite, faccio le pulizie e tutti gli scheletri escono dall’armadio”.
Capita anche che qualcuno scambi questi ritiri per una specie di vacanza. “Pensi di farti un regalo e poi ti ritrovi da solo con te stesso”, e i traumi rimossi dallo stress della vita quotidiana possono riemergere. Una delle cose che sente raccontare più spesso è proprio il riemergere di brutti ricordi. “Quando sei lì seduto a occhi chiusi è come se fossi al cinema, con tutte quelle immagini che ti passano davanti”.
La collega di Ott, Liane Hofmann, ha 57 anni e fa meditazione da decenni. Lavora a Friburgo nel primo sportello dedicato a chi è in crisi da meditazione in Germania, quello a cui si è rivolto Girard. Oggi a chiedere aiuto sono spesso i giovani che praticano la meditazione da soli seguendo i tutorial online. Chi si trova in una fase di passaggio e non è ancora strutturato “si imbatte in queste pratiche descritte come sistemi di auto-ottimizzazione del sé, pubblicizzate con slogan del tipo: ‘Meditando diventerai più intelligente, più creativo e più consapevole’”.
Spesso si rivolge al centro gente che ha praticato “un’accozzaglia di metodi psico-spirituali”, dalla respirazione olotropica, che è una specie di iperventilazione, a sedute di meditazione vipassana che durano giorni e giorni, passando per la recitazione dei mantra. Capita che prime esperienze “positive” e “felici” si trasformino presto nell’esatto contrario, come è successo a Sebastian Timm.
Timm faceva l’ingegnere elettronico ma non si sentiva realizzato. La vita quotidiana gli pareva troppo noiosa. Voleva studiare cucina e magari farne un lavoro. Dopo qualche anno ha aperto con la madre un chiosco vegetariano che “andava benone”. Il lavoro gli piaceva ma era anche molto faticoso e, avendo messo via qualche soldo, Timm ha deciso di andare a fare un ritiro in India, in un centro yoga gestito da un conoscente. Lo yoga gli sembrava “una liberazione”. Meditando a occhi chiusi e concentrando l’attenzione sul respiro e i suoi pensieri sentiva farsi spazio in lui “una sorta di calma interiore”. Il clima tropicale, la cucina indiana, la gentilezza delle persone: era “tutto un altro mondo” rispetto a quello in cui Timm era vissuto fino a quel momento.
Fare yoga e meditare è stato utile anche durante la pandemia, quando il chiosco ha dovuto chiudere per alcuni periodi. Timm cercava lavoro, si era separato dalla compagna e si chiedeva quale fosse il senso della vita. Ascoltava podcast che parlavano di nuvole “buone” e “cattive” e praticava la mindfulness, una specie di meditazione laica in cui l’attenzione è rivolta alle sensazioni del corpo, che va ascoltato nel momento presente sospendendo il giudizio su di sé.
Al centro gli avevano consigliato di continuare con la meditazione, ma ogni volta che ci provava si sentiva formicolare la testa
Dopo un’estate faticosa passata a lavorare al chiosco, Timm ha deciso di fare un viaggio in bici di qualche settimana, attraversando Germania, Francia e Spagna. Non appena sentiva un accenno di malinconia, per esempio perché non aveva compagni di viaggio, si diceva: “Sono libero”, posso fare qualunque cosa. A un certo punto l’unica emozione che sentiva era di pura gioia, una gioia talmente intensa che all’improvviso gli ha fatto paura. Forse non è normale, si è detto.
Dopo quasi due mesi di felicità assoluta, quell’euforia che Timm provava in sella alla sua bicicletta ha lasciato il posto a una paura mai sperimentata prima. In Algarve è stato preso dal panico, tutto gli sembrava accecante, elettrico, aveva il cuore a mille, piangeva, camminava scalzo per la città e mangiava con le mani dal buffet dell’albergo. Ha preso un calmante ma non è servito a niente. Ha chiamato il fratello in Germania e gli ha detto che aveva paura di morire.
Dopo tre giorni è riuscito a comprare un biglietto per tornare in Germania. Il fratello gli ha parlato al telefono finché l’aereo non è decollato. Ancora adesso, Timm non sa come ha fatto a tornare a casa. In Germania è stato ricoverato in psichiatria per quattro settimane con una diagnosi di disturbo schizoaffettivo con delirio e allucinazioni, e grazie ai farmaci è tornato alla realtà. “Forse ho esagerato con la meditazione”, si chiede. “Ma nessuno mi aveva detto come fare”.
Una crisi salutare
Le esperienze di Sebastian Timm, Danial Girard e Simone Ullmann si somigliano. I loro casi dimostrano che la meditazione può rivoltarsi contro chi la pratica. Ma quanto spesso capita?
La persona giusta a cui porre questa domanda è Kerem Böge, 33 anni, professore del policlinico universitario Charité di Berlino. Con il suo team di ricercatori, Böge ha pubblicato uno studio sulla frequenza degli effetti indesiderati della meditazione. Il campo è piuttosto nuovo, e la loro ricerca, condotta su praticanti di tutto il mondo, è una delle più ampie al livello internazionale.
Il 22 per cento dei partecipanti dichiara di aver sperimentato effetti spiacevoli in seguito alla meditazione. Il 13 per cento parla addirittura di esperienze indesiderate, da moderate a estreme, così prolungate da rendere necessaria una terapia o un ricovero in ospedale. Le esperienze spiacevoli erano più frequenti nei soggetti che in precedenza avevano già sofferto di disturbi psichici.
Tuttavia il campione non è rappresentativo: la partecipazione allo studio è avvenuta su base volontaria e, delle undicimila persone che inizialmente avevano dato la propria disponibilità a partecipare, alla fine ne sono rimaste 1.370. Quindi non è detto che il 22 per cento di tutti coloro che praticano la meditazione abbia esperienze indesiderate. Tuttavia una cosa appare chiara: “L’idea che la meditazione abbia solo effetti positivi non è fondata”, dice Böge.
Non bisogna fare di tutta l’erba un fascio: un conto è piangere dopo aver meditato, un altro è essere ricoverati in psichiatria. “Tra i ricercatori c’è un ampio consenso sugli effetti positivi che tecniche come la meditazione hanno su diverse malattie mentali”. E anche se nell’immediato la meditazione può risultare spiacevole o anche sconvolgente da un punto di vista emotivo, di solito sono condizioni temporanee che “a lungo termine possono essere liberatorie e trasformative”.
Böge spiega che l’8,9 per cento dei partecipanti definisce “lievi” e passeggere le esperienze negative avute a seguito della meditazione, l’8,8 per cento invece “moderate” e “sconvolgenti”, il 3,1 per cento “gravi” e lo 0,9 per cento “molto gravi”. Solo lo 0,2 per cento parla di esperienze “estremamente gravi” che hanno comportato un ricovero in ospedale o in un istituto psichiatrico. Dallo studio emerge inoltre che “chi soffre di malattie mentali è più soggetto a esperienze spiacevoli mentre medita o subito dopo”.
Cosa succede esattamente nel cervello di qualcuno che soffre di disturbi psicotici dopo aver meditato? “Non lo abbiamo compreso fino in fondo”, risponde Böge. Quello che sappiamo è che con la meditazione certe aree cerebrali risultano più stimolate, altre invece lavorano meno. Allucinazioni e deliri hanno cause “multifattoriali che variano da individuo a individuo”. Sulla base delle evidenze si può ipotizzare che una combinazione di predisposizione genetica e fattori ambientali durante la fase dello sviluppo possa portare all’insorgere di una psicosi.
Dopo l’incidente
Quando lo incontriamo, Sebastian Timm sembra piuttosto sereno. Da quando è tornato dal Portogallo, sei mesi fa, non ha più meditato. Può darsi che debba assumere psicofarmaci per tutta la vita, ma li ha interrotti per qualche settimana su consiglio della sua psicologa. Ora quando sente il bisogno di rilassarsi passeggia all’aria aperta. Qualche giorno dopo il nostro incontro ci manda un messaggio: “Meditare può dare dipendenza, proprio perché ti fa stare bene. È per questo che non riuscivo a smettere”.
Dopo varie ricerche, Danial Girard è riuscito a trovare un centro yoga adatto alle sue esigenze. Si è iscritto a un corso di tre mesi con dieci incontri. Aveva la possibilità di fare domande e colloqui, cosa impossibile quando meditava solo davanti al computer. Al centro gli avevano consigliato di continuare con la meditazione, ma ogni volta che ci provava si sentiva formicolare la testa, come se una scossa elettrica gli percorresse la spina dorsale. Gli è anche ricapitato di avere delle allucinazioni.
Qualche mese fa è nata sua figlia e, appena può, Girard va a passeggiare nel bosco con lei e la moglie. Ora non va più al centro yoga, non sente il bisogno di “seguire delle istruzioni per star fermo” ed è in grado di meditare in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. La crisi lo ha “trasformato in senso assolutamente positivo”.
Durante il nostro incontro, Simone Ullmann guarda continuamente il cielo. Da tempo ha ripreso a lavorare a tempo pieno. I medici le hanno sempre detto che sviluppare una psicosi alla sua età è “molto raro”: di solito succede tra i 18 e i 35 anni. Una psichiatra le ha suggerito di paragonare quello che le è successo a un incidente automobilistico: prima finisci in terapia intensiva, poi passi in un reparto normale e alla fine ti dimettono.
Alla fine del nostro colloquio, abbiamo chiesto alla psicologa Willoughby Britton come medita e lei ci ha raccontato della sua tenuta nei boschi del Vermont: lì coltiva pomodori, pota gli alberi con la motosega, scava nel terreno a mani nude. Quando è all’aria aperta, immersa nella natura, spesso le capita di essere “felice, quasi in estasi. Con la meditazione non mi era mai successo”. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1593 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati