Yao Feng sembrava il prototipo del vincente, uno di quelli che nella vita si muovono solo in una direzione: verso l’alto. Figlio unico, intelligente, amato e coccolato dai genitori, è cresciuto in una cittadina di provincia ed è riuscito a entrare in una delle più importanti università cinesi. Ha preso rapidamente la laurea triennale, ma i suoi volevano di più, così gli hanno pagato un master in sociologia nel Regno Unito. La retta per due anni costava trentamila euro, una somma che nel posto dove Yao è cresciuto basta a costruire una palazzina di tre piani.

Oggi Yao Feng ha 29 anni. Ci ha chiesto di non usare il suo vero nome e di non riportare alcuni dettagli per proteggere la sua identità. Il padre voleva che diventasse professore universitario, mentre la madre era convinta che avrebbe lavorato per qualche azienda importante e che avrebbe comprato una casa.

Luo Huazhong, uno dei primi ragazzi cinesi a difendere l’idea di uno stile di vita più rilassato. Jiande, giugno 2021 (Q​ilai Shen, The New York Times/Contrasto)

È l’una del pomeriggio di un giorno feriale ed è passato un anno dal suo ritorno in Cina con il master in tasca. Se le cose fossero andate come immaginava il padre, oggi starebbe attraversando il campus di una prestigiosa università per andare in biblioteca o per partecipare a un seminario. Se invece fossero andate come immaginava la madre, Yao probabilmente sarebbe chiuso in un minuscolo ufficio al quarantesimo piano di un bellissimo grattacielo, davanti a un pranzo ordinato con un’app e consegnato da un rider, da divorare in fretta davanti al computer prima della prossima, ennesima riunione. Un giovane in carriera, insomma. E invece Yao Feng se ne sta seduto sulla terrazza di un ristorante poco alla moda alla periferia sonnolenta di una metropoli. È l’unico cliente. Ha davanti quello che ha appena ordinato: una birra Flensburger.

“Secchioni di provincia”: in Cina sono chiamati così i primi della classe che cercano fortuna nelle grandi città. Anche Yao si definisce così, ma è solo autoironia. Non ha più ambizioni: “Non voglio essere una piccola rotella in un grande ingranaggio, carne da cannone per il sistema”.

Yao Feng sentiva tutto il peso delle pressioni dei genitori, delle chiacchiere dei vicini. Ma alla fine ha deciso di sottrarsi a tutto questo. Ha smesso di farsi condizionare dalle aspettative, le sue e quelle degli altri. In un’altra epoca o in un altro paese magari sarebbe diventato un attivista di una ong oppure sarebbe sceso in piazza per fare la rivoluzione, fedele all’esordio dell’inno nazionale cinese: “Alzatevi! Gente che non vuole essere schiava!”. Ma oggi si definiscono rivoluzionari i vecchi autocrati che governano la Cina, e gli attivisti finiscono in prigione. Così Yao ha scelto un’altra forma di ribellione. Se sollevarsi è proibito, “almeno possiamo sdraiarci”, dice. “Anche questa è una forma di resistenza”.

Di recente Yao ha registrato un video di 22 minuti nell’appartamento che condivide con altre persone in un anonimo grattacielo di periferia. Poi lo ha caricato online. Con lo sguardo prima serio e poi strafottente, annunciava di essere entrato in un movimento chiamato Tangping, che letteralmente significa “stare sdraiati”. Yao, con alle spalle una libreria piena di libri e scatole di tabacco, spiegava che il punto non è starsene tutto il giorno a letto a guardare il soffitto. “Tangping significa non essere uno strumento nelle mani di qualcun altro ma cercare invece di percorrere la propria strada con dignità, anche a costo di diventare un emarginato costretto a vivere con poco”.

Gli occidentali tendono a vedere la Cina come una superpotenza minacciosa sempre più forte, ricca e totalitaria, ignorando che in realtà qualcosa nella società cinese si sta muovendo. I giovani hanno smesso di impegnarsi. Si chiamano fuori, si ritirano, voltano le spalle al noi per concentrarsi sull’io. Non tutti, naturalmente, ed è difficile dire in quanti abbiano deciso di stare sdraiati. Ma sappiamo che i forum in cui si parla del movimento Tang­ping sono visitati da milioni di persone. Per un numero crescente di giovani, spesso con un alto livello d’istruzione, stare sdraiati è il modo di vivere del momento. E rappresenta un pericolo per il governo del presidente Xi Jinping.

Parlando di tutte le aspettative che ha deluso, Yao ha la coscienza a posto. Magari non renderà felici gli altri, ma rende felice se stesso

Campagna aggressiva

Ogni movimento giovanile può essere descritto come il prodotto di condizioni sociali, politiche e demografiche. Per crescere e guadagnare influenza, però, serve una figura carismatica.

E anche uno slogan, un’ideologia, qualcosa che riassuma i sentimenti e i pensieri di migliaia di persone.

Nella primavera del 2021 un altro ragazzo, Luo Huazhong, ha pubblicato su internet un breve saggio. Fino a quel momento aveva fatto di tutto: l’addetto alla sicurezza, l’artigiano, l’ispettore di fabbrica, il commerciante online e perfino la comparsa (come cadavere) in un film. Aveva girato per mesi il Tibet in bicicletta. Ora ha trasformato il più improbabile dei concetti in uno slogan politico. “Tang­ping è giustizia”, ha detto Luo raccontando di essere tornato nel suo villaggio per allevare anatre e polli e vivere delle verdure del suo orto. “Tangping è un movimento intellettuale”. Ha preso una famosa frase del filosofo greco Protagora – “l’uomo è misura di tutte le cose” – e l’ha reinterpretata: “Solo sdraiato l’uomo è misura di tutte le cose”.

In rete il suo saggio ha creato un’ondata di entusiasmo così potente da arrivare fino alla stanzetta di Yao Feng. Sulla maggior parte delle piattaforme online il testo non si trova più, e Luo Huazhong non ha risposto alle nostre richieste d’intervistarlo. A quanto pare dopo che ha rilasciato un’intervista al New York Times la polizia l’ha avvertito di non parlare più con i giornalisti, mentre le autorità hanno chiesto ai negozi online di ritirare dal mercato poster e magliette con slogan del movimento. Commentatori vicini al Partito comunista cinese hanno cominciato a usare l‘hashtag #staresdraiatièunavergogna, e a Shenzhen le stazioni della metropolitana sono state tappezzate di grandi cartelloni con la scritta: “Non state sdraiati!”. Alla tv pubblica un noto presentatore ha preso in giro i ragazzi fannulloni ed emarginati. Xi Jinping ha scritto un articolo per criticare gli sdraiati: “Una vita felice è il risultato del duro lavoro”, ha ammonito il capo dello stato.

Grande cautela

Nonostante questo Luo Huazhong è riuscito a raggiungere moltissimi giovani cinesi, tanto che le autorità non hanno potuto cancellare il movimento. Nel suo saggio citava anche Diogene, il filosofo greco che decise di vivere in una botte, felice e senza possedere nulla. Altri seguaci del movimento invece hanno ricordato esistenzialisti come Sartre e Camus. A quanto pare aspettavano solo che arrivasse qualcuno a dirgli: pensate alle cose che contano davvero, vivete il momento. E state sdraiati, se ne avete voglia.

Un ex programmatore di Shenzhen che oggi alleva pecore e nel resto del tempo si dedica principalmente ai videogiochi ha scritto in un post che grazie al movimento Tangping si è liberato da ogni desiderio materiale. Un musicista di Wuhan ha pubblicato un video in cui canta sdraiato sul divano: “Stare sdraiati significa non cadere mai più. Sdraiarsi è l’unica via”. Un altro ragazzo, un ex redattore di una casa editrice di propaganda politica di Pechino che oggi gestisce un chiosco, ha pubblicato i buoni propositi per l’anno nuovo: “Fare cose inutili. Essere una persona inutile”.

Yao Feng ordina un’altra birra. Per risparmiare i soldi del biglietto della metropolitana spesso si sposta in bicicletta. Ci mette ore per raggiungere un posto, ma non è un problema, dice, visto che ha molto tempo libero. Invece di passare le giornate in un ufficio, tiene un corso di letteratura cinese tradizionale in un istituto di cultura privato. Guadagna 700 euro al mese, meno di un addetto alle pulizie, ma la cosa non sembra creargli problemi. Ha imparato a cucinare e quando non è a casa mangia solo zuppe di spaghettini da due euro. Compra le sigarette che costano meno e non ha mai badato ai vestiti.

“La mia ragazza non è contenta del mio nuovo stile di vita”, racconta. Litiga spesso con lei ora. Neanche i genitori e i futuri suoceri apprezzano la sua nuova vita da sdraiato. Ma, parlando di tutte le aspettative che ha deluso, Yao sembra avere la coscienza a posto. Magari non renderà felici gli altri, ma rende felice se stesso.

Parlare con lui di politica non è semplice. Anche se sa che non useremo il suo vero nome, è comunque molto cauto: non vuole rischiare di sembrare un sovversivo. Che ne pensa della guerra in Ucraina? L’Ucraina è lontana e lui non segue assiduamente le notizie. Poi però aggiunge: “Non esistono guerre giuste”. In queste settimane altri ragazzi del movimento Tangping stanno comprando le spille blu e gialle dell’Ucraina e postano online il vecchio slogan del movimento hippy occidentale: fate l’amore, non fate la guerra. Tra loro fanno battute sarcastiche sul Partito comunista, sul culto del capo che circonda Xi Jinping e sul clamore intorno alla missione storica della Cina e alla sua potenza. Le voci critiche non sono forti ed è facile far finta di niente. Ma ci sono.

Molti si chiedono che impatto possa avere questo movimento su un regime che, insieme a quello russo, vuole costituire un blocco antidemocratico capace di opporsi al mondo libero. La Cina potrà ancora aspirare a diventare la prima potenza mondiale militare e tecnologica, se i suoi giovani citano Sartre e Diogene, si ritirano dalla vita sociale e si mettono a coltivare verdure? Da quando il paese è entrato nel mondo capitalista, quarant’anni fa, tra i governanti e i cittadini c’è un tacito accordo che si può riassumere più o meno così: noi che deteniamo il potere vi offriamo il benessere; in cambio voi dovete impegnarvi a collaborare alla costruzione del paese, dovete essere ambiziosi e tenere la bocca chiusa; in questo modo avrete molte opportunità e vivrete meglio dei vostri genitori.

Wuhan, gennaio 2021 (Gilles Sabrié, The New York Times/Contrasto)

Com’è potuto succedere che all’improvviso i giovani sentissero di non dover più rispettare l’accordo?

Esperta di pressioni

Lisa (non è il suo vero nome) ha 31 anni e s’interessa di pubblicità e marketing. È l’inverno scorso. Quando entra in un caffè alla moda nel centro di Shanghai, le scappa da ridere. L’arredamento sembra un sogno partorito da Instagram: vimini, vetro e una scritta con lo spray realizzata con cura sulla parete color seppia, “just relax”. Ma starsene rilassati a bere un caffè nella city di Shanghai non è facile, anche quando non è in vigore il lockdown. Tanto per cominciare, bisogna fare scelte complicate: meglio un cappuccino con marmellata di nocciole e scorza d’arancia grattugiata o un Coconut dirty (qualunque cosa sia)? Lisa ride di questo tentativo forzato di incarnare stereotipi hipster, di dare un’impressione molto occidentale e rilassata, che però secondo lei non ha nulla a che vedere con l’autentico movimento Tangping. Un’indagine di mercato mostra che Shanghai è la metropoli con più caffè e bar al mondo. E probabilmente da nessuna parte si fa tanta pressione sui baristi perché diventino sempre più creativi.

Lisa è esperta di pressioni. Ordina un cappuccino al pepe selvatico e ci racconta della sua infanzia, simile a quella di molti suoi coetanei. Sua madre, dice, era la tipica “mamma sangue di gallina”, un’espressione che in Cina indica le donne che educano i figli a essere macchine da esami. Negli anni sessanta e settanta c’erano medici che iniettavano sangue di gallina ai pazienti nella convinzione che migliorasse il loro rendimento. L’usanza è proibita da tempo e naturalmente la madre di Lisa non ha mai fatto iniettare sangue di gallina alle sue due figlie. In compenso le ha rimpinzate di proteine: quando Lisa e la sorella tornavano a casa dalle lezioni, verso le dieci di sera, trovavano carne, pesce, brodo d’ossa e un bicchiere di latte. Poi compiti fino a mezzanotte. Lisa andava in prima media. In seconda la madre le ha confiscato il lettore mp3 e le ha tagliato i capelli. “Lavarli, dal suo punto di vista, era una perdita di tempo”.

Lisa è riuscita a entrare nel miglior collegio della provincia. Durante l’ultimo anno di scuola la madre ha affittato un monolocale nei dintorni per sorvegliarla ed evitare che si facesse venire strane idee. L’assillava di continuo. E allora Lisa le ha firmato una garanzia scritta, un foglio in cui prometteva che sarebbe entrata in un’università prestigiosa. E ci è riuscita. All’università Tongji di Shanghai, finalmente lontana da casa e libera, la ragazza si è fatta ricrescere i capelli e se li è tinti di blu, si è fatta anche i buchi alle orecchie. Ma la voce severa della madre continuava a perseguitarla. Ha cominciato a lavorare in un’agenzia pubblicitaria internazionale, creando slogan per scarpe da ginnastica, catene di pizzerie e creme per la pelle. Lavorava tutta la notte e non spegneva mai il cellulare, perché la sua responsabile le mandava messaggi anche alle tre di notte.

Nel 2018, dopo quattro anni stressanti, Lisa si è licenziata. “Volevo cominciare a vivere, invece di lavorare e basta”. Oggi fa la copywriter freelance e accetta solo lavori necessari per sopravvivere nella metropoli. Può sembrare un cambiamento di poco conto, ma solo a chi non conosce il suo passato.

Anche lei si considera una che ha rotto i ponti con la società, ha detto addio all’imperativo di sua madre a fare sempre di più e sempre meglio. Le sue ex colleghe oggi sono diventate socie dell’agenzia; lei invece va a ballare, visita mostre e, se ha voglia, dorme fino a tardi. Sta sdraiata. E recupera tutto quello che non ha mai avuto tempo di fare.

Studenti in gita al museo della rivoluzione a Jinggangshan, aprile 2021 (Gilles Sabrié, The New York Times/Contrasto)

La madre continua a ricordarle i suoi desideri e le sue richieste. Al telefono chiede: quando ti decidi a sposarti? Lisa ha un ragazzo, ma per il matrimonio c’è tempo, dice. Non è l’unica. Secondo un sondaggio recente, quasi la metà delle giovani cinesi ha dichiarato di non volersi sposare. Il motivo che indicano più spesso è questo: “Non ne ho il tempo o l’energia”. Ogni anno i matrimoni celebrati sono sempre di meno e, visto che in Cina i bambini nati da unioni extraconiugali non sono socialmente accettati, il tasso di natalità segna sempre nuovi record negativi. Il 2021 è stato l’anno con meno nascite dal 1949, quando la Cina cominciò a registrarle. Il tasso di natalità oggi è tra i più bassi del mondo: 1,3 figli per ogni donna.

Lisa dice: “Ho paura di fare figli”. Per spiegare il motivo racconta della nipotina di nove anni, che ha un’agenda più fitta di quella di sua madre, la sorella di Lisa: badminton, danza, pianoforte, lezioni di retorica e di logica. Ha perfino un insegnante per imparare ad andare sullo skate­board. “La sua sfortuna è che è troppo intelligente”, dice Lisa. Sembra sinceramente addolorata per la nipote. Secondo le maestre dell’asilo era una bambina superdotata, così ora frequenta una scuola elementare d’eccellenza, circondata da alunni modello. E siccome tutti gli altri genitori si angosciano per i voti dei figli, adesso anche la sorella di Lisa è sempre più stressata. “Aveva giurato a se stessa che non sarebbe mai diventata come nostra madre”, racconta Lisa. Invece ora è identica a lei: una “mamma sangue di gallina”, che sul computer ha salvato il curriculum vitae della figlia, una bambina di nove anni.

Il miracolo economico cinese ha reso possibili carriere da sogno, scalate sociali degne del libro di fiabe del capitalismo. Un insegnante di inglese ha fondato Alibaba, una delle aziende tecnologiche più grandi del paese. Un ex tecnico di un’acciaieria ha fondato la Evergrande, un colosso immobiliare. E una delle donne più ricche della Cina, prima di diventare multimiliardaria grazie alle salse piccanti, era una venditrice ambulante analfabeta. Per Lisa, Yao Feng e gli altri ragazzi cresciuti negli anni novanta e duemila, progredire socialmente non era per niente difficile, bastava volerlo.

Record di laureati

Ma i tempi sono cambiati: prima o poi ogni miracolo economico finisce. Quarant’anni dopo il “grande balzo in avanti” (il piano economico voluto dal presidente Mao Zedong), il paese si ritrova con una crescita economica molto rallentata e una società nettamente divisa tra chi sta sopra e chi sta sotto. Nelle aziende c’è una gerarchia molto rigida, e non sembra che chi ha maggiori capacità e si impegna di più nel lavoro sia premiato. Da alcune ricerche, infatti, è emerso che sono sempre meno i cinesi che riescono a passare dal 20 per cento più povero della popolazione al 20 per cento più ricco. Anche se l’autocrazia cinese, travestita da socialismo, è molto diversa dalle democrazie occidentali, i due sistemi vivono una crisi simile per quanto riguarda le disuguaglianze: i ricchi fanno fruttare i loro soldi e diventano sempre più ricchi, mentre la classe media e i ceti più poveri si ritrovano in una situazione di stallo.

Molti cinesi reagiscono alle ridotte opportunità di ascesa sociale aumentando la pressione su se stessi e sui figli, nella speranza di essere tra i pochi che in qualche modo ancora ce la possono fare. È come se si aggrappassero disperatamente a una promessa che sanno non essere più valida. L’insicurezza e la crisi economica causate dalla pandemia hanno fatto aumentare ulteriormente la pressione.

Per Lisa, Yao Feng e gli altri ragazzi cresciuti negli anni novanta e duemila, progredire socialmente non era per niente difficile, bastava volerlo

Milioni di cinesi – bambini, adolescenti e adulti – si sentono come la nipote di nove anni di Lisa nella sua scuola elementare d’eccellenza: circondati da persone che si danno un gran da fare, si sentono obbligati a essere i primi della classe. Hanno la sensazione di correre alla velocità della luce ma senza avanzare di un passo.

Non che la questione sia assente dal dibattito accademico e dai mezzi d’informazione ufficiali. Da qualche tempo esiste un termine specifico per definire questa condizione esistenziale di corsa sul posto: “involuzione”, il contrario dell’evoluzione. La parola cinese è nèiju a n: nèi significa dentro, juan girare. L’immagine è quella di un vortice, che trascina con sé il singolo, lo imprigiona, lo fa girare in tondo. Il concetto è stato reso famoso dal sociologo Xiang Biao, che parla di un “circolo vizioso in cui ci si prende in ostaggio da soli”.

Xiang, un cinquantenne dall’aria giovanile, è molto seguito in Cina, soprattutto tra i laureati delle città. Un fatto degno di nota se si considera che non vive nel paese da più di vent’anni. È come se osservare la Cina dall’esterno gli sia servito a spiegare ai cinesi quello che stanno passando. Per molto tempo Xiang ha fatto ricerca a Oxford e dal 2021 dirige il dipartimento di antropologia della sperimentazione economica all’istituto di ricerca etnologica Max-Planck di Halle, in Germania. Parla con noi in collegamento video da Berlino, circondato dagli scatoloni del trasloco ancora sigillati.

Ci racconta dei prezzi delle case schizzati alle stelle nelle città cinesi e della svalutazione delle lauree ormai inflazionate. I laureati non sono mai stati così tanti: nel 2021 hanno sfiorato i dieci milioni. Sono dinamiche presenti anche nel mondo occidentale. “Ma in Cina la pressione competitiva che preme sulle singole persone è totale”, spiega Xiang. “Conosco parrucchiere e artigiani che in Germania sono felici e conducono una vita piacevole. In Cina non sarebbe possibile. Tutti puntano a un unico modello di successo”.

Disfattismo esistenziale

Alla fine del 2020 in Cina ha girato molto la foto di uno studente di una prestigiosa università di Pechino che attraversava il campus in bicicletta mentre preparava una presentazione PowerPoint con il portatile in equilibrio sulla mano destra. Un’altra foto diventata famosa è quella di una studente che di notte studia nella cabina di un bancomat, l’unico posto del campus ancora illuminato e in cui poteva stare da sola. In rete sono stati entrambi definiti “re dell’involuzione”. “Non importa se fai le consegne a domicilio o se studi in un’università famosa: in Cina nessuno si sente al sicuro”, spiega uno dei tanti giovani cinesi interpellati dalla Zeit per scrivere questo articolo.

Il disfattismo esistenziale dei giovani intrappolati nel vortice ha prodotto una serie di nuove espressioni. “La prendo con buddismo”, per esempio, si usa per riferirsi a qualcosa che si pensa di non poter cambiare. Con “996” si indica la settimana da 72 ore – dalle nove alle nove, sei giorni su sette – ufficialmente vietata ma in realtà ancora praticata in molte aziende.

E poi c’è sàng, che può significare molte cose: frustrato, abbattuto, senza speranze. “In realtà oggi mi sarei voluto battere per il socialismo, ma fuori fa talmente freddo che l’unica opzione è restare a letto a giocare al cellulare”: è la tipica ironia sàng, con cui molti si prendono gioco delle “energie positive” che esige la propaganda di stato. C’è anche una famosa catena di bubble tea (tè con le bolle) che ha l’ideogramma sàng nel nome. Tra i gusti più venduti ce ne sono alcuni che si chiamano “gli altri ottengono incarichi, io perdo capelli”, “la vita del mio ex è meglio della mia” e “siediti e aspetta la morte”.

Starsene sdraiati, insomma, può sembrare un comprensibile tentativo di sfuggire alla sofferenza provocata dalla corsa sul posto, una reazione sana a un sistema malato. E attira un numero crescente di giovani cinesi. Non fare straordinari. Non comprare casa, non comprare la macchina. Non sposarti, non fare figli. Non essere uno schiavo. Sono i comandamenti del movimento Tangping, pubblicati per la prima volta da uno sdraiato in un post su internet.

Quarant’anni fa una Cina che sembrava in ginocchio ha cominciato a imitare l’occidente, il suo sistema economico, i suoi desideri e le sue ambizioni. E ora lo sviluppatissimo capitalismo cinese sembra essere entrato nella fase successiva: quella dei dubbi, degli hippy, dei fannulloni che decidono di emarginarsi; la fase in cui i più anziani si chiedono cosa stia succedendo ai giovani.

Nel luglio 2021, alla festa di fine semestre, Yang Zebo, un professore di filosofia di 69 anni, si è fatto coraggio: la mensa dell’università di Fudan, a Shanghai, era decorata a festa e centinaia di occhi erano puntati su di lui, incaricato dal preside di tenere un discorso agli studenti. Yang si era convinto da molto tempo che questi giovani seguissero ideali strani, ma non sapeva bene fino a dove si sarebbe dovuto spingere. Alla fine si è spinto parecchio in là, pur sapendo che i ragazzi l’avrebbero considerata una provocazione. Yang voleva dirgli la verità. O almeno quella che secondo lui era la verità.

“I vertici sanno che per riformare l’economia bisogna stimolare l’inventiva, ma lo stato teme i cittadini che pensano con la loro testa”

Ha cominciato il discorso così: “Nella cultura cinese si parla del continuo miglioramento di sé. Il vero eroe è chi per dormire chiude gli occhi solo un secondo, poi li riapre e continua a lavorare. Potete darmi migliaia, decine di migliaia di motivi per stare sdraiati. Io ve ne saprò citare sempre uno in più per convincervi a non farlo”. Ha concluso con un appello: “Non ascoltate i mascalzoni là fuori che predicano la filosofia Tangping”. Gli applausi sono stati piuttosto contenuti, ci racconta Yang Zebo. Non sembra severo né antipatico. È un uomo minuto e gentile che indossa una camicia a quadretti.

Una ciotola di riso

Quando entriamo nel suo ufficio, al ventiquattresimo piano del prestigioso edificio che ospita la sua facoltà, dice: “Mi dispiace non poterle offrire uno spuntino”. Nelle due ore successive, ogni cinque minuti Yang si alza per fare altro tè, che serve in una deliziosa piccola teiera. La vista sui tetti della metropoli si estende fino all’orizzonte. Yang Zebo è uno di quelli che ce l’hanno fatta: lui, che non ha mai frequentato le scuole secondarie, è riuscito comunque a diventare professore in una grande università. Un’altra storia di successo.

Da bambino il suo pasto quotidiano consisteva in poco più di una ciotola di riso e una manciata di erbe selvatiche. A quindici anni si arruolò nell’esercito come paracadutista, così poteva mangiare carne. Era la fine degli anni sessanta e la rivoluzione culturale era appena cominciata: su ordine del Grande Timoniere, Mao Zedong, si combatteva tutto quello che era in odore di istruzione, cultura, lusso e decadenza. Di giorno si addestrava e di notte imparava in segreto l’alfabeto latino, nel silenzio della camerata, con la torcia sotto le coperte. Yang è rimasto nell’esercito per quasi trent’anni. La sua fortuna, dice, è stata essere trasferito a Shanghai nel 1978. Lì le librerie furono autorizzate a vendere romanzi stranieri già dopo due anni dalla morte di Mao: “Mi misi in fila con altre centinaia di persone per ottenere una copia di Il rosso e il nero di Stendhal. La letteratura per noi era come la pioggia dopo un lungo periodo di siccità”. Poi fece domanda alla facoltà di filosofia dell’università dell’esercito di liberazione del popolo e passò il test di ammissione a pieni voti. Nel 1992 fu chiamato all’università di Fudan. “Chi è cresciuto come noi nell’epoca della rivoluzione culturale non sapeva cosa fosse la speranza”, racconta Yang. “Sapevamo solo di dover cogliere ogni opportunità che la vita ci offriva”.

Dopo il suo discorso dell’anno scorso, alcuni studenti sono andati a parlargli. “Professore, lei non capisce di che si tratta”, si sono lamentati. Yang sostiene di capire benissimo. È vero che ai giovani si chiede molto. Ma quando mai la vita è stata tutta rose e fiori? Si impegnano fino all’esame di maturità. “Ma appena arrivano qui mollano la presa. I ragazzi perdono tempo con i videogiochi, le ragazze con le serie tv coreane”. Ascoltando quest’uomo di settant’anni viene da pensare che a combattere il movimento degli sdraiati non siano solo i quadri di partito che temono per la produttività e l’orientamento politico dei giovani. I cinesi più anziani che, come Yang Zebo, hanno lottato per uscire dalla miseria più nera, non riescono proprio a conciliare il movimento Tangping con la loro esperienza di vita.

“La cultura del dibattito in questo paese sta andando in malora”, si lamenta Yang. I giovani sono sempre più suscettibili. Molti suoi colleghi quando fanno lezione pesano le parole per evitare di essere presi di mira online. Più che il servitore di uno stato autoritario, Yang sembra un anziano intellettuale di Berlino o New York che si lamenta della wokeness (l’attitudine a denunciare le ingiustizie sociali) e del vegetarianismo spirituale dei millennial. Ed è proprio così: anche in Cina c’è la tendenza a concentrarsi esclusivamente su se stessi, in quanto utenti online o consumatori. L’individualismo avanza anche qui, nonostante tutte le aspettative sociali e il controllo esercitato dallo stato. Altrimenti il sogno di stare sdraiati sarebbe stato impossibile. Il tang­ping è qualcosa che bisogna potersi permettere. Quando era giovane Yang Zebo, sarebbe stato impensabile.

Gelatai e spiriti liberi

Dopo aver parlato con gli studenti che sono andati da lui, Yang dice di capire meglio alcune loro preoccupazioni: farsi strada è effettivamente diventato molto difficile. “Ma anche se solo tre persone su dieci avessero successo, tutti hanno comunque il dovere di sforzarsi al massimo per essere uno di quei tre”. Ora gli trema la voce. L’idea che molti ragazzi possano buttare via il loro talento per grattarsi la pancia sembra portarlo alla disperazione. “È tutto inutile. I giovani hanno tirato i remi in barca”. Il mite professore di filosofia batte il pugno sul tavolo.

Nella loro ricerca di un luogo senza vecchi che gli dicano come devono vivere, alcune decine di migliaia di ragazzi e ragazze sono finite ai piedi dell’Himalaya, nell’estremo sudovest della Cina. A Dali, che era città di re, all’alba i raggi del sole illuminano le montagne imbiancate di neve; lì vicino, a duemila metri di altitudine, luccicano le acque di un lago azzurro. A tarda sera le stelle sono così luminose che si ha l’impressione di poterle toccare. Le megalopoli cinesi sono lontanissime.

La Cina è anche questa città, un posto dove buddisti, musulmani e cristiani convivevano in pace già secoli fa e in cui oggi regna la tolleranza più che l’ideologia del Partito comunista. Le autorità qui sono piuttosto tranquille: i poliziotti si limitano a mandare a casa, con scarsa convinzione, i giovani che di sera allestiscono cocktail-bar ambulanti nelle stradine secondarie. Per vivere a Dali bastano trecento euro al mese. Qualcuno balla, qualcuno si dedica a percorsi spirituali e qualcun altro cerca di reinventarsi. Ci sono ex operai che prima lavoravano alla catena di montaggio e ora riciclano abiti vintage. Ex manager di società informatiche che si sono messi a fare gelati. Star del cinema in pensione. È un insieme colorato di spiriti liberi, artisti ed eccentrici di ogni ordine e grado.

Può darsi che ogni movimento giovanile abbia bisogno di qualcosa del genere: un luogo dove i desideri sembrano diventare realtà. Per gli sdraiati cinesi Dali è quello che per gli hippy occidentali era San Francisco negli anni sessanta. Un posto che dimostra che un altro mondo è possibile.

Vicino al centro storico c’è un cortile pieno di bambini scalmanati. Si sentono le note di una canzone, Brother Louie dei Modern Talking. Una donna di 31 anni che indossa pantaloni di velluto a coste e scarpe da ginnastica avanza a ritmo di musica verso uno pneumatico posizionato al centro del cortile: è la zona di sicurezza che deve raggiungere. Le altre educatrici dell’asilo le fanno scudo, perché tutti i cinquanta bambini la stanno inseguendo. Il gioco si chiama “rockstar e groupie”. E lei, che ci ha chiesto di chiamarla Xiao Long, fa la rockstar: vince chi la tocca per primo. Xiao Long balla, finge di suonare una chitarra immaginaria. Una bambina con gli stivali di gomma e le mani sporche di fango si fa strada nella folla di groupie, ma all’ultimo secondo viene superata da un ragazzino vestito da monaco. Tutti ridono ed esultano.

Giornate all’aperto

Pressione sociale? Involuzione? Corsa sul posto? I genitori che sono a Dali hanno vissuto questi problemi sulla loro pelle, e vogliono evitare che succeda anche ai figli. Qui non si tengono lezioni come negli asili pubblici. Non ci sono compiti né corsi di retorica pomeridiani o curriculum salvati nel computer. I bambini passano le giornate all’aperto, per conoscere il mondo attraverso il gioco. “La loro strada la troveranno comunque”, dice Xiao Long. È una frase incredibile, se si considera che viene pronunciata in tutta tranquillità da un’educatrice cinese.

Pechino, giugno 2021 (Gilles Sabrié, The New York Times/Contrasto)

Lei la sua strada l’ha trovata, anche se ci è voluto un po’. Da giovane si sentiva disorientata, al liceo ha cominciato a soffrire d’insonnia e attacchi di depressione. “Anche quando fuori il cielo era azzurro dentro di me era tutto grigio”. Non sapendo bene che facoltà scegliere ha studiato informatica. “In Cina dopo la scuola nessuno sa chi è e cosa vuole”. Dopo l’università ha lavorato per due anni nella metropoli di Chongqing, in un’azienda che produce schermi a cristalli liquidi. Le sue giornate erano monotone come l’uniforme che era costretta a portare. Ma lì Xiao Long si è innamorata per la prima volta, di una sua collega.

Non ha retto e si è licenziata. Poi ha conosciuto un gruppo di artisti che facevano teatro-danza e ha cominciato anche lei a prendere lezioni. “All’improvviso mi sono sentita libera”. Poi una conoscente le ha parlato di Dali e dell’asilo alternativo che cercava maestre. Xiao Long ha fatto domanda ed è stata assunta.

L’asilo segue il metodo pedagogico Montessori, secondo il quale bisogna rispettare e stimolare l’autonomia del bambino, dandogli anche la possibilità di dire di no. Si bada meno alla disciplina e si gioca di più nel fango. C’è una scuola primaria, da poco riconosciuta dalle autorità, e una prima media. Quei pochi bambini che sono già passati dalle scuole Montessori al sistema pubblico hanno avuto meno difficoltà di quanto ci si aspettasse, racconta Xiao Long. Anzi, molti di loro fanno i rappresentanti di classe e partecipano alle lezioni con idee nuove. Una madre spiega: “Noi che abbiamo sempre frequentato la scuola pubblica l’abbiamo vissuta fin da piccoli come un sistema repressivo. Ma i nostri figli l’affrontano senza pregiudizi e invece di ribellarsi contribuiscono in modo costruttivo”.

Sono sempre di più i genitori cinesi che vogliono dare un’educazione alternativa ai figli. Gli asili come quello di Dali non sono più così rari, anche se alcuni sono stati costretti a chiudere su pressione del governo. Nessuno sa dove potrebbero portare questi esperimenti dei bambini che stanno sdraiati.

Pensare che il Partito comunista si limiti a opporsi ciecamente a questo tipo di progetti significherebbe sottovalutarlo. Anche nel sistema scolastico ufficiale c’è chi è consapevole del ruolo che il movimento hippy ha avuto in occidente. Dal movimento flower power californiano sono nati lo spirito della Silicon valley e quella che oggi è l’azienda di maggior valore al mondo, la Apple. Steve Jobs, il suo fondatore, da giovane era uno statunitense sdraiato: andò a vivere in una comune, cercò l’illuminazione spirituale in India e provò l’lsd. Gli hippy non hanno abolito il capitalismo occidentale, lo hanno trasformato e tutto sommato lo hanno rafforzato.

La regola del contadino

Il problema delle autorità cinesi oggi è che hanno obiettivi contraddittori. Puntare esclusivamente al potere autoritario e militare dello stato, vuol dire doversi accontentare di formare una popolazione di automi diligenti e di reprimere il movimento Tangping. Ma per diventare una potenza mondiale capace di sviluppare i migliori programmi informatici e partorire le migliori invenzioni servono persone che non funzionino come automi.

La creatività segue strade particolari e le innovazioni non arrivano per decreto. “Il governo è schizofrenico”, dice un pedagogista che conosce bene il sistema dell’istruzione pubblica e vuole rimanere anonimo. “I vertici sanno perfettamente che per riformare l’economia bisogna stimolare l’ingegno nelle persone, ma la cosa che lo stato teme di più è un cittadino che pensa con la propria testa”. Nel cortile dell’asilo di Dali i bambini si sono divisi in due gruppi. Il gioco è far arrivare dei mattoncini giocattolo oltre una linea senza far male agli avversari. Ovviamente si arriva al lancio selvaggio: qualcuno piange, i mattoncini sono piuttosto duri. Dopo mezz’ora di discussione in cerchio, moderata pazientemente da Xiao Long, i bambini votano in modo pacifico e democratico: la prossima volta l’asilo si procurerà giocattoli più morbidi.

Osservando le bambine e i bambini e la loro educatrice Xiao Long, viene da pensare che magari per ora la Cina continuerà a fare come ha sempre fatto e per ogni persona che rinuncerà allo status quo e starà sdraiata ce ne saranno altre tre pronte a prenderne il posto. Ma arriveranno tempi nuovi.

Il pedagogista di cui non possiamo fare il nome lo sintetizza così: “Bisogna considerare un orizzonte temporale più ampio. Nei prossimi cinque, dieci anni non si muoverà molto, ma forse tra venti succederà qualcosa”. Per i cambiamenti sociali vale la regola del contadino che vuole migliorare la qualità del terreno: lui dissoda, concima, e poi aspetta. Prima o poi il vecchio si seccherà e il nuovo comincerà a germogliare. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1459 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati