14 giugno 2020 16:00

Nell’estate del 1945, con l’Italia appena liberata ma ancora nominalmente monarchica e di fatto spezzata in due, la nazione si pose la stessa domanda che ha tormentato una parte della popolazione durante i mesi di isolamento per il covid-19. Per alcuni l’interrogativo è trascurabile se non addirittura immorale, ma non si può certo negarne l’esistenza: che fare del campionato di calcio?

Nel 1945 il campionato nazionale mancava ormai da due anni, cioè dal termine della stagione 1942-1943. Nella Repubblica sociale italiana era stato organizzato un campionato per le squadre del centro-nord, a cui era stato dato il nome militaresco di Divisione nazionale (o più semplicemente Campionato dell’Alta Italia), e durato dal gennaio al luglio del 1944. A vincere era stata la Vigili del fuoco Spezia, e per quasi sessant’anni il successore Spezia calcio avrebbe lottato per farsi assegnare un titolo “onorifico”, finalmente arrivato nel 2002.

Tra i tanti che nell’estate del 1945 cercavano di rifarsi una vita, italiani e non, c’era Silvio Piola, uno dei più prolifici attaccanti del tempo, campione del mondo con l’Italia ai mondiali del 1938. Per cinque anni Piola era stato il centravanti della Pro Vercelli (1929-1934), prima di trascorrere quasi un decennio nella Lazio (1934-1943), con cui era stato due volte capocannoniere ma non era mai andato oltre il secondo posto in classifica.

I convulsi avvenimenti successivi all’otto settembre 1943 avevano spinto Piola a chiedere alla Lazio di giocare il campionato di Divisione nazionale del 1944 con il Torino (noto quell’anno come Torino Fiat). Era la squadra, tra gli altri, di Valentino Mazzola, del fiumano Ezio Loik e di Guglielmo Gabetto, campione d’Italia in carica e destinata a grandi cose. Quelle tragiche circostanze storiche sembravano almeno dare a Piola la possibilità di vincere quello scudetto che tanto desiderava. Il Torino però si classificò secondo, appunto alle spalle dello Spezia. Nell’estate del 1945, convinto di aver maggiori possibilità e felice di tornare a vivere vicino al luogo dove era nato e cresciuto, Piola ottenne dalla Lazio di cambiare sponda del Po e di diventare un calciatore della Juventus.

Silvio Piola (a destra) con il compagno di squadra Čestmír Vycpálek, durante la stagione 1946–1947. (Alamy)

La stagione 1945-1946 di quella che ancora si chiamava ufficialmente Divisione nazionale venne organizzata con una formula inedita: un raggruppamento per le squadre del nord (Serie A Alta Italia) e uno per le squadre del sud (Serie mista A-B Centro-Sud), seguiti da un Girone finale nazionale con le migliori quattro dei due gruppi, che avrebbe decretato la squadra campione d’Italia.

Il calendario propose già alla prima giornata il derby tra le due torinesi: per Piola era un ritorno al passato recente, oltre che un’anteprima di quella che sarebbe stata la sfida per assegnare lo scudetto.

Il 14 ottobre del 1945 Torino e Juventus si scontrarono allo Stadio Comunale, fino a pochi mesi prima stadio municipale Benito Mussolini, per il primo derby della Mole post-fascista. La Juve passò in vantaggio al quarantesimo del primo tempo, con rete di Pietro Magni, ma il Torino pareggiò quattro minuti più tardi con Loik. La partita si trascinò in parità fino a 13 minuti dalla fine, quando ai bianconeri fu assegnato un rigore. Sul dischetto andò Piola, ottimo specialista, che non sbagliò. Il risultato finale fu di 2-1: per Piola non poteva esserci un migliore presagio per quella stagione. Ma se di presagio si trattò, fu all’inverso.

Dopo essere stata in testa al Girone finale nazionale a due giornate dalla conclusione, la Juventus perse il derby col Torino alla penultima giornata, e non andò oltre il pareggio all’ultima, contro il Napoli. I bianconeri finirono a un punto dalla prima classificata, proprio il Torino, che diede inizio a una serie di quattro titoli consecutivi. Solo la tragedia di Superga del 4 maggio 1949 mise fine al ciclo di quella che fu una delle migliori squadre di sempre.

Nell’estate del 1947 Piola, dopo un altro secondo posto con la Juventus, sembrava avviato al tramonto sportivo. Ceduto per fare posto all’emergente Giampiero Boniperti (poi presidente storico dei bianconeri), si accasò al Novara, in serie B, secondo alcuni per trascorrere vicino alla sua città d’origine i pochi scampoli di carriera che gli rimanevano. Il finale fu molto diverso. Piola giocò al Novara altri sette anni, solo il primo dei quali in serie B, portando subito la sua squadra in serie A, e permettendole di restarvi stabilmente per anni. A Novara segnò 86 gol, giocando fino a 41 anni e ritrovando addirittura la maglia della nazionale, nel 1952, contro l’Inghilterra. Solo una sfortunata traversa gli impedì di diventare (e lo sarebbe ancora oggi) il più anziano giocatore a segnare un gol per la nazionale italiana.

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Piola, che in precedenza aveva scontato un dualismo con il più mediatico e titolato Giuseppe Meazza, simbolo dell’Inter e capitano della nazionale vincitrice del mondiale 1938, consolidò così la sua fama e divenne l’esempio di una categoria che in Italia trovava (e trova ancora) particolare fortuna: il bomber di provincia, meglio ancora se un po’ avanti negli anni.

L’elenco dei suoi record, alcuni dei quali ancora resistono, sono facilmente reperibili su internet. È significativo che Piola sia ancora il miglior marcatore della storia della serie A, e l’unico insieme a Omar Sivori ad avere segnato sei gol in una partita. Ma ancor più significativo fu l’impatto che questo finale di carriera ebbe agli occhi dei romantici del calcio. Lo dimostra questo filmato dell’Istituto Luce, prodotto nel 1952 ma ancora ammantato di retorica familistica e ampollosità del ventennio, che lo dipinge come grande sportivo, pescatore e padre di famiglia.

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(Testo di Federico Ferrone e Alessio Marchionna)

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