×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

La guerra in Ucraina e il progetto imperiale di Putin

Stadio Lužniki, Mosca, 18 marzo 2022. Vladimir Putin all’evento per l’anniversario dell’annessione della Crimea. (Sergei Guneyev, Afp)

Il cerchio si è chiuso. Dal crollo dell’Unione Sovietica è bastata una generazione per far precipitare la nuova Russia all’inferno. Trent’anni di promesse mancate, speranze bruciate, segnali mal interpretati, da Eltsin che si arrampica sui carri armati nell’estate del 1991 e ferma il golpe dei sostenitori del regime sovietico fino alla messa in scena del 18 marzo 2022 allo stadio Lužniki: un carnevale ultranazionalista in cui il kitsch patinato dei video della musica pop russa degli anni duemila si è fuso con il gigantismo posticcio delle parate nordcoreane di Kim Jong-il. La fine di un’epoca.

Il compimento di una transizione che a un certo punto è impazzita e si è messa a girare all’incontrario, trasformando un paese post-sovietico, imperfetto ma curioso e vivace, in un mostro imperialista e neosovietico. Non doveva per forza andare così. E per quanto si voglia insistere sulle responsabilità e gli errori dell’occidente, è difficile pensare che quello che è successo a Mosca negli ultimi dieci anni sia esclusivamente il risultato di un’aggressiva strategia fondata sul mercato e delle interferenze occidentali nel delicato periodo della trasformazione degli anni novanta.

Se così fosse, oggi ci troveremmo di fronte tante piccole Russie putiniane sparse in tutta l’Europa centro-orientale. Cosa che fortunatamente – pur con tutti i difetti delle democrazie dei paesi ex comunisti – non è la realtà.

Passaggio sanguinario
Tante volte, nelle analisi e nei tentativi di capire le motivazioni dell’attacco russo all’Ucraina, si è parlato di umiliazione della Russia. E spesso si è puntato il dito sull’ingresso nella Nato dei paesi dell’Europa centro-orientale, spiegato come allargamento o espansione dell’alleanza, con quella tipica mentalità occidente-centrica che tende sempre a privare ogni soggetto ritenuto estraneo al proprio modello sociale e politico di ogni capacità decisionale autonoma. Tale espansione c’è stata perché a volerla sono stati gli europei dell’est, per i quali la fine della seconda guerra mondiale non è stata una liberazione ma il passaggio dal più sanguinario dei totalitarismi a un nuovo assetto politico, che dopo la prima fase rivoluzionaria si è dimostrato brutalmente autoritario.

I paesi europei nella Nato e data della loro entrata

L’ingresso nella Nato l’hanno chiesto, come garanzia alla propria sovranità e integrità territoriale, i paesi baltici, che dopo l’appartenenza all’impero zarista e i vent’anni d’indipendenza tra le due guerre furono nuovamente risucchiati nell’universo sovietico in seguito alla firma del patto Molotov-Ribbentrop (la loro appartenenza all’Urss non è mai stata formalmente riconosciuta dagli Stati Uniti). O i cechi, che nel 1968 avevano visto i carri armati del Patto di Varsavia distruggere l’esperimento delle primavere di Praga. O gli ungheresi, che dodici anni prima avevano vissuto un’esperienza simile, perfino più violenta. O i polacchi, memori delle repressioni dei moti operai del 1956 e del 1970 e della legge marziale del 1981.

I rapporti tra i russi e la Nato sono più complessi e più delicati di quanto spesso vengano dipinti

Spesso si cita il vertice Nato di Bucarest del 2008 come prova dell’avventuristico espansionismo dell’alleanza. Ma in effetti la dichiarazione con cui quel summit si chiuse sembra più una generica dichiarazione d’intenti, forzata dall’amministrazione statunitense, che una vera road map politica: “La Nato accoglie le aspirazioni euroatlantiche di Georgia e Ucraina . […] Oggi abbiamo concordato che questi paesi diventeranno membri della Nato”. Già allora era chiaro che i paesi europei dell’alleanza non avrebbero accolto volentieri l’ingresso di altre nazioni dell’est, soprattutto ex repubbliche sovietiche. In soldoni, anche se la Russia non avesse invaso la Georgia nell’agosto del 2008, ufficializzando il suo controllo delle due repubbliche non riconosciute dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, che controllava già da sedici anni, difficilmente Tbilisi sarebbe entrata nella Nato in un arco di tempo relativamente breve.

Lo stesso si può dire dell’Ucraina. Prima dell’intervento russo in Crimea e nel Donbass del 2014 i cittadini favorevoli all’ingresso nella Nato erano una netta minoranza, intorno al 20 per cento del totale. E se il vero obiettivo di Mosca fosse stato tenere Kiev lontano dall’alleanza atlantica, per raggiungerlo sarebbe bastato limitarsi all’applicazione dei protocolli di Minsk. Qualcuno potrebbe ribattere che negli ultimi anni sul territorio ucraino si sono svolte diverse esercitazioni militari con la presenza di paesi Nato, per la comprensibile preoccupazione di Mosca. Va aggiunto, però, che mentre l’Ucraina e altri 23 stati, non solo della Nato, partecipavano nel luglio 2021 alle esercitazioni militari Sea breeze (cinquemila soldati coinvolti, organizzate dal 1997), Mosca aveva già ammassato decine di migliaia di soldati ai confini orientali dell’Ucraina.

Inoltre, quattro mesi prima le navi russe avevano partecipato insieme a quelle di diversi paesi Nato a una serie di manovre militari nel mare del Pakistan. I rapporti tra i russi e la Nato, insomma, sono più complessi e più delicati di quanto spesso vengano dipinti. Senza scomodare Pratica di mare o i vari protocolli e accordi siglati tra gli anni novanta e gli anni duemila, per avere un quadro più veritiero della situazione basta ricordare come gran parte del secondo conflitto ceceno (1999-2009) sia stato combattuto dalla Russia sotto il cappello della cosiddetta guerra al terrore lanciata dagli Stati Uniti contro il jihadismo internazionale.

Un percorso verso la democrazia
Quanto all’Ucraina, di motivi per pretendere garanzie di protezione dal suo ingombrante fratello maggiore ne avrebbe diversi. Oltre all’attacco alla sua integrità territoriale del 2014, risultato della violazione del Memorandum di Budapest del 1994, e alle continue interferenze politiche del Cremlino, che hanno innescato prima la rivoluzione arancione del 2004 poi la rivolta di Euromaidan del 2014, ci sono le ferite di un secolo terribile: l’occupazione sovietica dei territori della Galizia orientale e della Volinia nel 1939, la collettivizzazione forzata e i più di tre milioni di morti dell’Holodomor nel biennio 1932-33. Comprensibile quindi che in questi trent’anni l’Ucraina indipendente abbia cercato, pur tra mille difficoltà e battute d’arresto, un suo percorso verso la democrazia e la formazione di un’identità nazionale plurale (multireligiosa e multilinguistica) al riparo dalle mire di Mosca.

A tale proposito, due parole vanno spese sui fatti del 2014. Se, come è scritto nell’Enciclopedia italiana Treccani, il colpo di stato è una trasformazione dell’ordinamento dei pubblici poteri “operata da uno degli stessi organi costituzionali”, allora quanto è successo a Kiev tra il novembre 2013 e il febbraio 2014 è tutto fuorché un golpe. Perché la natura della mobilitazione è popolare, quindi semmai rivoluzionaria.

Proviamo a ricostruire rapidamente gli eventi: le proteste cominciano spontaneamente quando il presidente Viktor Janukovič (le stesso deposto nel 2004 dalla rivoluzione arancione per i gravissimi brogli alle elezioni presidenziali, poi riletto nel 2010) fa un’improvvisa marcia indietro e rifiuta di firmare l’accordo di associazione con l’Unione europea (che, è bene sottolinearlo, non significava affatto l’ingresso di Kiev nell’Ue). Il motivo sta nelle fortissime pressioni del Cremlino, che promette a Kiev anche sconti sul gas e sostanziosi investimenti. I manifestanti chiedono le dimissioni del presidente e respingono il progetto politico e sociale incarnato dal suo regime, fatto di corruzione, autoritarismo sempre più scoperto e asservimento alla Russia.

La risposta del governo è brutale – rapimenti, pestaggi, omicidi – ma invece di fiaccare le proteste, ne rafforza la determinazione. Dopo tre mesi di mobilitazione, violenze, repressione, Janukovič scappa in Russia e a Kiev s’insedia un governo d’emergenza guidato dal premier ad interim Arsenyj Jatsenjuk, che convoca subito elezioni presidenziali per il mese di maggio. Negli stessi giorni il parlamento approva la proposta di abolire la legge del 2012 che attribuiva al russo lo status ufficiale di “lingua regionale”, proposta però bocciata dal presidente facente funzioni, Oleksandr Turčinov. A nessuno viene impedito di parlare il russo, come invece sostiene la propaganda di Mosca. Come tutto questo possa essere definito un golpe non è chiaro.

Kiev, 20 febbraio 2014. Un manifestante in un edificio bruciato durante le proteste.

La risposta della Russia non si fa attendere. Il momento è propizio per mettere in pratica un progetto che il Cremlino cova da tempo – riprendersi la Crimea – e per appoggiare, con invio di miliziani e armi, la nascita di due repubbliche separatiste nell’est russofono del paese, la regione del Donbass. Il pretesto per l’intervento è la protezione dei russi dal governo di Kiev e l’obiettivo è lo stesso degli altri conflitti congelati seminati da Mosca nelle ex repubbliche sovietiche (oltre ad Abkhazia e Ossezia del Sud, c’è anche la Transnistria, in Moldova): indebolire la sovranità del paese colpito, creando elementi di instabilità nel suo territorio e mettendo quasi un’ipoteca sulle sue future scelte geopolitiche.

A chi sostiene che l’annessione della Crimea sia il risultato di un pronunciamento popolare, occorre ricordare che il referendum sulla sovranità della regione (già repubblica autonoma all’interno dell’Ucraina) è stato organizzato in due settimane sotto l’occupazione militare dei famigerati omini verdi, militari russi senza mostrine e simboli di appartenenza, mentre gli attivisti tatari e ucraini venivano fatti sparire e senza la possibilità di un seppur minimo dibattito pubblico. Che questo possa essere considerato un sistema accettabile per ridisegnare i confini di un paese sovrano è quantomeno singolare.

L’Ucraina fa storia a sé
Detto dei fatti di Euromaidan, vanno messe nella giusta prospettiva anche le accuse all’Ucraina di essersi radicalmente spostata a destra, perfino su posizioni neonaziste. Sono accuse chiaramente amplificate e diffuse dalla propaganda russa, ma non basate su elementi reali. È vero che nel paese esistono alcune sigle minoritarie di estrema destra. E l’ormai celebre battaglione Azov ha avuto un ruolo importante nei combattimenti nell’est del paese nel 2014, ed è poi stato integrato nella guardia nazionale ucraina. Ma si tratta di circa mille soldati, che hanno una capacità di mobilitazione che non supera le diecimila persone. L’Ucraina ha 44 milioni di abitanti, e il suo esercito conta 125mila effettivi.

A livello politico, invece, il picco del successo dell’estrema destra (che ovviamente non vuol dire neonazisti) è stato raggiunto nel 2014, con l’1,8 per cento di Pravyj Sektor e il 4,7 per cento dei nazionalisti di Svoboda alle elezioni legislative. Nel 2019 il fronte nazionalista (Svoboda, Pravyj Sektor e altre due sigle minoritarie) ha raccolto il 2,1 per cento dei voti. L’unico deputato portato in parlamento è stato eletto in un collegio uninominale. Senza dover ricordare le origine ebraiche di Volodymyr Zelenskyj, e il fatto che diversi suoi parenti siano morti nella shoah, è evidente che chi definisce nazista un paese in base a criteri simili lo fa in malafede o perché completamente vittima della bugie del Cremlino (che peraltro i neonazisti e i suprematisti bianchi li ha ampiamente utilizzati nella guerra del Donbass, dove hanno combattuto diverse sigle dell’estremismo di destra russo – Gioventù eurasiatica, Unità nazionale russa, Altra Russia – e dove i primi leader delle repubbliche non riconosciute di Donetsk e Luhansk erano estremisti di destra e nazionalisti radicali russi).

Poi, a voler essere onesti, è abbastanza prevedibile che ogni violazione dell’integrità territoriale di un paese e della sua sovranità possano spostarne l’asse politico verso il nazionalismo. Ma anche qui il caso ucraino fa storia a sé: nonostante il Donbass separatista e la Crimea perduta, nel 2019 l’ex comico Zelenskyj ha sconfitto il presidente uscente Petro Porošenko proprio grazie alla scelta di non cavalcare l’etnonazionalismo e gli istinti bellicisti inevitabilmente presenti in parte della società. L’Ucraina precedente all’invasione russa era meno nazionalista di quella del 2015. E se c’è una cosa che questa mistificazione su nazisti ed estremisti di destra dimostra è la capacità della propaganda russa di avvelenare il dibattito e far circolare informazioni false o scorrette.

Il problema insomma, non è cosa ha fatto, cosa ha desiderato, cosa ha deciso l’Ucraina. Il problema è a Mosca. In quella miscela di autoritarismo sempre più sfacciato, ortodossia religiosa, revanscismo, nazionalismo e tradizionalismo che negli ultimi dieci anni sembra essersi impossessata delle élite del Cremlino. Il problema è l’ideologia che vuole negare agli ucraini il diritto di avere un paese indipendente e sovrano, che li cancella dalla storia e ne fa un’appendice della nazione russa.

La Russia è precipitata in una spirale autoritaria senza via d’uscita. Gli oppositori sono diventati dissidenti, e i dissidenti sono finiti in prigione

Più volte in questi giorni si è scritto e si è detto che dietro alla decisione d’invadere l’Ucraina ci siano le informazioni errate che Putin avrebbe ricevuto sul paese, la sua forza militare e la sua determinazione a difendere la propria sovranità. Gli errori dell’intelligence contano senz’altro. Ma al Cremlino c’è soprattuto una profonda incomprensione dei tratti salienti di una società che i leader russi immaginavano pronta a piegarsi e ad accogliere il “liberatore” moscovita e che invece sta dimostrando una straordinaria capacità di resistenza. Non per il culto della bandiera o per un astratto ideale di patria, ma per difendere la propria esistenza, per non rinunciare alla libertà di vivere in un paese che sia in grado di determinare in autonomia le proprie scelte e la propria posizione nel mondo. Come ha spiegato sul New York Times lo storico ucraino Jaroslav Hrytsak, i due paesi hanno cultura e lingua quasi comuni, ma tradizioni politiche diverse. Il risultato è che oggi “è impensabile che in Russia ci sia una rivoluzione democratica, come è inimmaginabile che l’Ucraina possa accettare un governo autoritario”.

Tutto questo le élite russe non l’hanno capito semplicemente perché non potevano capirlo. È come se Putin e la sua cerchia più ristretta, ex uomini dei servizi che al leader devono la ricchezza e il potere, fossero rimasti vittime della loro stessa propaganda, del genietto malefico del nazionalismo che ai tempi di Euromaidan hanno deciso di far uscire dalla lampada e che ha finito per fagocitare ogni loro pensiero e azione. Alla radice di questa radicalizzazione può esserci stato un freddo calcolo politico che poi ha portato a conseguenze inattese – Putin può aver cercato una contronarrazione dal basso da contrapporre alle parole d’ordine della democrazia e da usare come strumento di mobilitazione dopo l’ondata di proteste in Russia del 2011-12 – oppure la sincera adesione alle teorie eurasiste e imperialiste di Lev Gumilëv e più recentemente di Aleksandr Dugin. Ma il risultato non cambia: la Russia è diventata – o è tornata a essere – una potenza aggressiva, tradizionalista, nazional-imperiale.

Traiettorie perdute
Vent’anni fa non era detto che le cose dovessero prendere questa piega. All’inizio degli anni duemila, la prima fase della presidenza dell’allora sconosciuto Vladimir Putin, il paese aveva di fronte a sé diverse possibili traiettorie. E aveva un grande bisogno di stabilità, modernizzazione economica e aperture compiutamente democratiche. In un tempo relativamente breve il primo obiettivo – che era senz’altro il più urgente – è stato raggiunto e per un certo periodo è perfino sembrato possibile che il paese prendesse la strada delle riforme politiche ed economiche, anche se con grande prudenza e in base alle proprie inclinazioni nazionali.

Con il passare degli anni è successo invece il contrario: gli spazi di libertà hanno cominciato a restringersi, le voci discordanti nel governo e al Cremlino hanno cominciato a essere marginalizzate, la repressione del dissenso si è fatta sempre più brutale, la diffidenza verso il mondo esterno ha raggiunto livelli mai conosciuti da decenni, la retorica ufficiale ha rispolverati i miti della missione storica, della grandezza e dell’unicità della Russia. Il paese è così precipitato in una spirale autoritaria senza via d’uscita. Gli oppositori sono diventati dissidenti, e i dissidenti sono finiti in prigione. E si è capito definitivamente che, più delle armi della Nato, il vero spauracchio del Cremlino era la democrazia. In particolare quella che cercava faticosamente di affermarsi nelle vecchie terre dell’impero zarista e poi sovietico.

Oggi nelle università di Mosca s’incoraggiano gli studenti alla delazione di chiunque osi criticare la guerra di Putin, e in tutto il paese le Z simbolo dell’invasione compaiono sulle giacche dei bravi cittadini timorosi del potere e nei video della propaganda di stato. Il tutto mentre in tv il capo denuncia traditori e quinte colonne. Chi non ci sta, chi non accetta il progetto di “purificazione nazionale” avviato da Putin abbassa la testa e tace, protesta e viene arrestato, o decide di lasciare il paese.

Nonostante tutti gli errori che l’Europa, e soprattuto gli Stati Uniti, possano aver commesso nel rapporto con Mosca nel periodo successivo alla fine della guerra fredda, a umiliare la Russia non è stato l’ingresso dell’Estonia o della Lettonia nella Nato. E nemmeno l’intervento di Washington in Serbia nel 1999. In questi ultimi vent’anni, in fondo, Mosca ha fatto quel che le è parso e piaciuto in politica estera e all’interno del paese, dalla Cecenia alla Siria, dalla Georgia alla Crimea. E non ne ha mai pagato il prezzo. A umiliare la Russia e i russi sono stati gli omicidi di Anna Politkovskaja, Natalia Estemirova, Boris Nemtsov; gli ostaggi morti nel teatro sulla Dubrovka; i rapimenti, gli stupri e le esecuzioni nella Cecenia di Ramzan Kadyrov; la morte in carcere di Sergej Magnitskij; l’avvelenamento e la persecuzione giudiziaria di Aleksej Navalnyj; la chiusura di Memorial e di tante altre ong . E oggi le bombe. Su Mariupol, su Kiev, su Charkiv.

Leggi anche:

pubblicità