12 marzo 2022 08:52

È importante capire che l’attuale russomania non è che un sintomo del generale indebolimento della tradizione liberale in occidente. (George Orwell, La libertà di stampa)

Performance era la parola d’ordine in città, un mondo nel quale i gangster diventano artisti, gli arrampicatori sociali citano Puškin e gli Hell’s angels si reputano dei santi. La Russia aveva assistito all’avvicendarsi in rapida successione di tanti mondi diversi – comunismo, perestrojka, teoria economica d’urto, miseria, oligarchia, stato della mafia, dominio dei super ricchi – da far credere ai suoi nuovi eroi che la vita non fosse altro che uno scintillante ballo in maschera in cui ogni ruolo, posizione o convinzione era intercambiabile”.

Queste parole sono tratte dalle prime pagine di Niente è vero, tutto è possibile, uno dei libri più illuminanti sulla Russia e la Mosca degli ultimi quindici anni, opera di Peter Pomerantsev, giornalista, produttore televisivo e soprattutto osservatore dotato di perspicacia e raffinatezza analitica, britannico di cittadinanza ma sovietico di nascita. Per capire il vero significato delle due frasi che compongono il titolo del volume, piuttosto criptiche nella loro essenziale chiarezza, sarà utile ricorrere a quanto scrive un altro giornalista britannico, Charles Clover, nel libro Black wind, white snow: “In quell’iperrealtà che è la Russia di oggi, in cui un universo parallelo è amplificato fino a un volume assordante grazie alla televisione, l’ideologia è in realtà un mero gioco linguistico o corrisponde solo a rapporti di potere mascherati. Tutta la politica è pura apparenza e spettacolo e tutti i discorsi si equivalgono; tutto è vero”.

E quindi nulla lo è. Le politiche di potenza ottocentesche e i reality show. La propaganda e quel che rimane della verità. La democrazia e la dittatura. Per anni il potere russo ha viaggiato su questo doppio binario: da una parte ha saputo decostruire e poi mettere al servizio di un progetto politico sempre più autoritario gli elementi della cultura pop e del postmoderno di cui il paese era ormai imbevuto; dall’altra ha coltivato il mito del capo che guida la comunità nazionale con piglio deciso, che si fa rispettare nel mondo, che protegge lo stato. Ed è proprio su questo secondo pilastro del sistema di potere russo – in cui, ha scritto il consigliere del Cremlino Vladislav Surkov su Nezavisimaja Gazeta, il punto fondamentale è “la fiducia nella comunicazione e nell’interazione tra il leader e i cittadini” – che si fonda la popolarità del presidente Vladimir Putin nelle opinioni pubbliche dell’Europa occidentale, specialmente a destra e tra ultraconservatori, sovranisti e populisti.

Nel pantheon dei nazionalisti europei il presidente russo occupa il posto di maggior prestigio, nonostante i primi segnali dell’incrinarsi del suo consenso tra i connazionali. Se infatti il primo ministro ungherese Viktor Orbán può essere considerato il leader in pectore dei nazional-populisti dei paesi dell’Unione europea, Putin incarna un ruolo ancora più nobile: è il modello di una precisa visione del mondo che si è fatta realtà. La sua Russia tradizionalista e sovrana è la prova che un’alternativa alla democrazia liberale – con le sue pastoie, l’ipocrisia del politicamente corretto, il multiculturalismo e la società aperta – esiste davvero, funziona ed è l’esempio a cui ispirarsi. Ancora Surkov: “Gli occidentali iniziano a guardarsi intorno in cerca di altri modelli e modi di vivere. E scoprono la Russia”.

In un mondo in rapidissima trasformazione e sempre più sedotto dalle sirene della cultura pop di matrice occidentale, il mondo in cui “niente è vero e tutto è possibile”, il presidente Putin ha usato gli argomenti del nazionalismo per edificare una nuova identità nazionale postsovietica e per consolidare il suo sistema di potere. E partendo da queste basi ha costruito il suo profilo internazionale.

Alla scoperta dell’estrema destra postsovietica
Individuare la traiettoria del nazionalismo russo in questi ultimi venticinque anni può essere un buon punto di partenza. E Aleksandr Verkhovsky, sociologo e direttore del centro studi Sova center for information and analysis, specializzato in ricerche su nazionalismo e razzismo, è sicuramente la miglior guida con cui andare alla scoperta dell’estrema destra postsovietica.

“Per capire cosa succede oggi occorre partire dagli anni novanta”, dice Verkhovsky, seduto alla scrivania del suo piccolo ufficio stipato di carte e documenti nei sotterranei di un bel palazzo ottocentesco nel quartiere di Kitai Gorad, nel cuore di Mosca. “Allora erano attivi diversi gruppi che potremmo definire nazionalisti, ma di un nazionalismo che era essenzialmente nostalgico: per i tempi gloriosi dell’Unione Sovietica, in particolare per la fase dello stalinismo, per l’impero zarista e, in alcuni casi, anche per un mitico passato slavo, che si perde nella notte dei tempi e di cui si sa pochissimo. Questo tipo di pensiero puramente passatista, tuttavia, non poteva durare. Le forze politiche esplicitamente nazionaliste raccolsero risultati molto deludenti alle elezioni e a un certo punto fu evidente che erano state sconfitte, che erano fuori dal gioco. Per fare un esempio, il principale movimento neofascista attivo in quegli anni, Unità nazionale russa, si sciolse nel 2002 in seguito a una serie di contrasti interni. Dopo quella fase si affermò un nuovo tipo di estremismo politico, costruito sul razzismo e sul rifiuto dell’immigrazione. Ma, a differenza che in occidente, il motivo scatenante di quella virulenta xenofobia non aveva a che fare con la religione. Ovviamente i pericoli dell’islamismo e del terrorismo erano ampiamente presenti nella propaganda nazionalista, ma la vera ragione dell’odio contro gli immigrati – che allora arrivavano soprattutto dai paesi centrasiatici e dall’Azerbaigian – era la loro appartenenza etnica. Quell’ondata di violenta ostilità, che si può definire chiaramente razzista, cambiò faccia al nazionalismo russo”.

Mosca, 5 dicembre 2011. Festeggiamenti per la vittoria alle elezioni legislative di Russia Unita, il partito di Putin. (Natalia Kolesnikova, Afp)

In quegli anni, intorno al crinale del millennio, il paese attraversò una serie di eventi che avrebbero determinato in parte il suo percorso futuro. Nel 1998 ci fu la traumatica esperienza del crollo del rublo, che fu uno dei momenti più drammatici di un decennio di aperture e libertà ma anche di caos e instabilità. Poi, nell’agosto del 1999, cominciò la seconda guerra cecena. Pochi mesi prima c’era stata la crisi del Kosovo, con i bombardamenti della Nato in Serbia. Fu in quel momento che si colsero le prime avvisaglie del futuro deterioramento dei rapporti con l’occidente. Infine, il 31 dicembre, entrò in scena Putin. Nel consueto discorso di capodanno, l’allora presidente Boris Eltsin gli affidò la guida del paese, dopo aver annunciato le sue dimissioni con un certo anticipo sulla scadenza del mandato. Quattro mesi più tardi, il 26 marzo 2000, il passaggio di testimone fu sancito dal voto popolare: l’ex agente del Kgb fu eletto al Cremlino con il 53 per cento dei consensi.

“E la sua popolarità fu immediata. Putin fu subito percepito come il presidente della speranza. Guidò e vinse la seconda guerra cecena ed ebbe la fortuna di vedere crescere sensibilmente il prezzo del petrolio, fattore che ebbe conseguenze molto positive sull’economia del paese. Rispetto al decennio precedente la situazione era in netto miglioramento. Ma i problemi non scomparvero. E con un presidente ormai piuttosto popolare, il capro espiatorio della frustrazione dei cittadini diventarono gli immigrati. Anche perché in quel periodo l’immigrazione cambiò faccia.

I migranti arrivati in Russia negli anni novanta, parecchio numerosi per la verità, erano per molti versi simili ai russi: parlavano la stessa lingua, avevano la stessa mentalità, erano stati cittadini dello stesso impero. Gli abitanti di Tashkent non erano così differenti da quelli di Smolensk, in qualche modo erano l’incarnazione dell’homo sovieticus. Che però scomparve con la transizione seguita al crollo dell’Urss. Gli stranieri che arrivarono dal 2000 in poi, soprattutto i più giovani, erano diversi dai loro padri e fratelli maggiori: non parlavano russo e non erano figli della scuola e della cultura sovietiche. Quell’ondata migratoria fu una vera novità a cui i russi non erano abituati. Mosca, allora, era ancora una città predominantemente slava, non era ancora la metropoli multietnica che è diventata in seguito, con una forte presenza di cittadini centrasiatici”.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il compito più difficile che si presentò ai dirigenti della nuova Russia fu la definizione di una visione nazionale per il paese

Quelli furono anche anni di brutali violenze contro gli immigrati, gli stranieri e le minoranze etniche. L’impressione è che, prima di reagire e prendere provvedimenti, il potere abbia cavalcato in qualche modo quell’ondata di estremismo.

“Innanzitutto c’è da dire che in termini assoluti i gruppi di estrema destra sono sempre stati minoritari. Al massimo della sua popolarità, nel 2011, la cosiddetta marcia russa, organizzata dagli ultranazionalisti a Mosca ogni 4 novembre, in occasione del giorno dell’unità nazionale, raccolse non più di settemila persone in una città che ha più di dieci milioni di abitanti. Tuttavia è innegabile che le formazioni di estrema destra avessero una certa visibilità e fossero molto attive. Negli anni duemila le violenze contro gli immigrati e gli stranieri erano davvero un fenomeno fuori controllo, che mise in allarme la società, soprattutto nelle sue componenti più progressiste. Secondo le stime più prudenti, gli omicidi a sfondo razziale in Russia erano dieci volte più numerosi che nei paesi dell’Europa occidentale a parità di popolazione. Fu allora che la società e la politica cominciarono a considerare un pericolo questo tipo di nazionalismo apertamente razzista”.

L’episodio che mise le istituzioni in allarme e le spinse a cambiare atteggiamento sulla questione fu, se non ricordo male, la rivolta di Kondopoga, una piccola cittadina della Russia settentrionale. Nel 2006 l’uccisione di due uomini russi per mano di alcuni criminali ceceni all’interno di un ristorante gestito da azeri innescò delle violenze che sfociarono in un vero e proprio pogrom contro i cittadini di origine caucasica. La vicenda ebbe ampia risonanza, anche fuori dalla Russia. Fu davvero un punto di svolta?

“Sì, perché a Kondopoga il governo si accorse che la situazione rischiava davvero di sfuggirgli di mano. E capì che l’ultranazionalismo avrebbe potuto causare ulteriori violenze, sommosse e instabilità politica. Cambiò tutto. Ci furono arresti, a centinaia. E Putin, che era già un vero leder tecnocratico-autoritario oltre che un politico estremamente pragmatico, si rese conto che era necessario creare, passo dopo passo e con grande cautela, una sorta di nazionalismo di stato”.

In qualche modo questo nuovo progetto servì anche a metter ordine nel confuso processo di formazione dello stato russo e della sua identità postimperiale. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il compito più difficile che si presentò ai dirigenti della nuova Russia fu la definizione di una visione nazionale per il paese. Le posizioni e le idee erano diverse. C’erano componenti che prediligevano la salvaguardia dell’identità territoriale della Russia, scelta che comportava la necessità di accettare la presenza di diverse minoranze, organizzate in entità politiche autonome, all’interno dei confini del paese. E c’era chi invece sottolineava l’importanza dell’integrità etnica, immaginando uno stato meno esteso e pronto a rinunciare alle regioni a maggioranza non russa, ma più coeso e più omogeneo.

Agli inizi degli anni novanta si parlò anche di un modello d’imperialismo liberale, secondo la definizione proposta in un articolo scritto da Anatolij Čubais, l’architetto delle privatizzazioni degli anni novanta. Secondo questa visone, la Russia democratica sarebbe stata il perno di un sistema integrato esteso su tutto lo spazio postsovietico. Qualche tempo dopo, nel 2008, la guerra in Georgia dimostrò che quel progetto era più aggressivo di quanto la proposta di Čubais facesse immaginare. Mosca aveva fatto capire di essere pronta a usare le armi per difendere la sua sfera d’influenza nel cosiddetto estero vicino, bližnee zarubeže in russo, l’area occupata dagli stati ex sovietici: un concetto essenziale per la politica estera russa degli ultimi venticinque anni. Qualcosa, insomma, era cambiato. E il Putin che nel 2012 riprese le redini della presidenza, dopo quattro anni passati a fare il primo ministro, era molto diverso da quello dei primi due mandati. Ormai apertamente critico verso il liberalismo occidentale, legato alla chiesa ortodossa, tradizionalista, più assertivo nei confronti dei paesi vicini, decise consapevolmente di usare il discorso nazionalista per costruire consenso e mobilitare la cittadinanza.

Una barricata filorussa a Slaviansk, nel Donetsk, Ucraina, 10 maggio 2014. (Yannis Behrakis, Reuters/Contrasto)

“Per l’affermazione di questa strategia basata su un nazionalismo, come dire, ufficiale, due momenti in particolare sono stati cruciali”, spiega Verkhovski. “Innanzitutto le proteste democratiche del 2011. In quel momento il Cremlino ha capito che serviva una contromobilitazione filogovernativa. Con decine di migliaia di persone in piazza, il potere aveva bisogno di un sostegno dal basso, che fino ad allora non era mai stato necessario. In ballo non c’era nessuna ideologia, solo pragmatismo politico e l’obiettivo di salvaguardare la stabilità. Ma tutto era ammantato di frammenti di vecchie ideologie, con uno slogan che era onnipresente: difendere i valori tradizionali. Parole d’ordine vaghe e senza un vero significato. In concreto si faceva leva su un certo conservatorismo, sullo spirito collettivista, chiaramente ereditato dall’epoca sovietica, e sul patriottismo, che ormai stava prendendo la forma di un diffuso risentimento antioccidentale. Infine c’era la religione ortodossa. In questa fase lo stato ha cominciato a servirsi della chiesa, soprattutto dal punto di vista simbolico. In cambio le ha concesso alcuni benefici, per esempio l’accesso ai grandi mezzi d’informazione”.

Il secondo momento di svolta è stata la crisi ucraina del 2014, con l’annessione della Crimea e l’intervento nel Donbass. In quella fase gli indici di gradimento di Putin in Russia sono schizzati alle stelle, sfiorando il 90 per cento, e la mobilitazione nazionalista ha raggiunto l’apice.

“Esattamente. Quando Putin ha elencato i motivi per l’annessione della Crimea, ha citato il rischio di ritrovarsi con le basi Nato a Sebastopoli e ha affermato che la Crimea è terra sacra per i russi, perché da lì partì la cristianizzazione della Rus’ di Kiev. Ma ha anche usato l’argomento della protezione dei cittadini di etnia russa dalle aggressioni degli ucraini. Per la prima volta è stato adoperato un argomento di tipo chiaramente etnonazionalista”.

E qui arriviamo a un punto chiave della strategia internazionale di Putin: le minoranze russe rimaste fuori dai confini nazionali che diventano uno strumento politico nelle mani del Cremlino. Il paradosso è che il principio della difesa dei russi ovunque si trovino, e la sua logica conseguenza, almeno secondo Putin, cioè il conflitto ucraino, hanno “accelerato la disintegrazione di un grande spazio storico e culturale che era già chiaramente dominato dalla Russia e hanno rafforzato il modello del nazionalismo etnico su entrambi i lati del confine, in Russia e in Ucraina”, scrive lo storico ucraino Serhii Plokhy nel libro Lost Kingdom. Giocare la carta della difesa dei russi, insomma, rischia di essere un’arma a doppio taglio. Come ha accolto l’opinione pubblica russa il disegno del Cremlino di Putin e come ha reagito agli sviluppi della crisi ucraina?

“A livello simbolico la linea scelta da Putin ha funzionato. Sui russi ha fatto subito presa, rinvigorendo lo spirito nazionalista”, dice Verkhovski. “Se però si scende nei dettagli, le cose si fanno più complicate. La guerra del Donbass, per esempio, non è mai stata spiegata ai cittadini, anche perché il governo ufficialmente ha sempre dichiarato di non essere coinvolto nel conflitto. Per alcuni militanti che hanno combattuto da volontari nell’Ucraina orientale o che hanno sostenuto l’intervento è stata una rivoluzione conservatrice e nazionale, che con il tempo si sarebbe dovuta allargare alla Russia. Per altri, un’avventura rivoluzionaria, quasi neosovietica. Il punto è che il nazionalismo di stato che stiamo vivendo oggi in Russia probabilmente non ha precedenti storici. È una novità. Riunisce la nostalgia per il passato imperiale e sovietico, quando il paese era una superpotenza in grado di sfidare gli Stati Uniti, e la convinzione che i valori della società russa siano unici e che prima o poi debbano trionfare anche fuori dalla Russia. Allo stesso, tempo, però, questo nazionalismo di stato contiene elementi del classico nazionalismo su base etnica, anche se declinati e usati in maniera diversa rispetto a quanto facevano i movimenti estremisti degli anni novanta”.

La strategia politica costruita intorno alla mobilitazione permanente della cittadinanza in senso nazionalista ha dato i suoi frutti, è innegabile. Tuttavia presenta diversi rischi e da qualche tempo ha cominciato a mostrare la corda: una simile tattica di distrazione non può durare all’infinito, perché prima o poi i problemi concreti si fanno sentire, e ha bisogno di essere alimentata con continui conflitti e tensioni. E non è affatto detto che i russi vogliano vivere in un clima di sollecitazione patriottica permanente, con qualche conflitto sempre all’orizzonte e i rapporti con l’occidente – che per i cittadini rimane uno sbocco naturale – ufficialmente ai minimi termini. Inoltre, il sistema ideologico messo in piedi da Putin per sostenere questo progetto sembra piuttosto composito e poco strutturato: una specie di miscuglio di nostalgie sovietiche e zariste, tradizionalismo ortodosso, paternalismo e autoritarismo tecnocratico, slogan e parole d’ordine rubati al capitalismo globalizzato e ricette economiche di tipo mercantilista. Finora, però, ha raggiunto i suoi obiettivi. E sembra essere diventato un modello anche per i partiti nazional-conservatori europei. Come si spiegano la sua efficacia interna e la sua popolarità internazionale?

“Quello della Russia putiniana è un sistema di pensiero raffazzonato e frammentario, molto diverso dall’ideologia coerente e organica che esisteva ai tempi dell’Unione Sovietica. Del resto Putin e la sua cerchia non hanno interesse a dare precise basi ideologiche al loro modello di potere, perché sanno che così limiterebbero la loro libertà di movimento. Per avere consenso politico è sufficiente che i cittadini aderiscano a un singolo tassello di questo mosaico. Magari il sostegno non è così solido come può sembrare, ma esiste. Per chi invece fa parte delle istituzioni e ha ruoli ufficiali le regole sono diverse: per fare carriera bisogna sposare senza riserve le posizioni del sistema e mostrarsi leali e fedeli alla vulgata del presidente. E in questo c’è un sensibile cambiamento rispetto agli anni duemila: nei primi due mandati di Putin bastava non essere troppo critici per rimanere all’interno del sistema, mentre oggi, se si occupano posti di rilievo nelle istituzioni e nell’amministrazione, è necessario esibire esplicitamente il proprio entusiasmo e il proprio appoggio al regime.

Per quanto riguarda il successo di Putin presso i nazionalisti europei, credo che il motivo non sia tanto la difesa dei cittadini russi né il cosiddetto nazionalismo di stato. La ragione è che Putin è considerato l’unico leader capace di opporsi all’egemonia, per la verità ormai traballante, della democrazia liberale, che almeno fino all’avvento di Donald Trump è stata incarnata dagli Stati Uniti. Il presidente russo è anche il baluardo dei valori tradizionali, minacciati da gay e progressisti di vario tipo. Non a caso uno dei cardini della propaganda putiniana è la rappresentazione della Russia accerchiata da una pletora di nemici esterni, primo tra tutti l’occidente moderno e secolarizzato”.

Dietro a questo sistema c’è un’ideologia di tipo imperiale, in cui esistono una chiara gerarchia interna e un’idea universale da difendere e proiettare verso l’esterno

Orgogliosa della propria storia e del proprio passato, è questa la Russia che riscopre la sua unicità storico-culturale e rivendica il suo ruolo di potenza civilizzatrice. Nel gennaio del 2012, poco prima di tornare al Cremlino, Putin scrisse per il quotidiano Nezavisimaja Gazeta un articolo sull’identità etnica del paese che è illuminante a riguardo. Per la prima volta usò il concetto di “stato civiltà”, essenziale per capire la traiettoria seguita dal paese negli ultimi anni: “La Grande missione russa è quella di unire una civiltà. […] In questo modello di stato-civiltà non esistono minoranze e il principio dell’appartenenza è definito da una cultura comune e da valori condivisi. […] Questa identità civilizzatrice è basata sulla salvaguardia del predominio culturale russo, anche se questa cultura è rappresentata non solo dai russi etnici, ma da tutti coloro che la vivono, a prescindere dalla loro etnia”. L’affermazione del primato culturale e storico russo sugli altri elementi presenti nello spazio postsovietico è chiarissima. Allo stesso tempo è celebrata la natura multietnica e multinazionale della Russia. Come interpretare questa apparente contraddizione nelle parole di Putin tra il nazionalismo russo e la vocazione sovranazionale del paese erede dell’Urss?

“Secondo la logica del Cremlino non c’è nessuna incompatibilità. Fin dal cinquecento la Russia è stata un impero multietnico e multiconfessionale. Non ha mai conosciuto l’omogeneità etnica o linguistica. Ma questa complessità è sempre stata inquadrata, e lo è ancora, secondo una precisa gerarchia, che ovviamente è informale, non sancita dalla costituzione né scritta nelle leggi. Sotto il profilo religioso, in cima alla piramide c’è l’ortodossia e in particolare il patriarcato di Mosca; poi ci sono le organizzazioni più importante e influenti dei musulmani, dei buddisti, degli ebrei e, infine, dei cattolici e dei protestanti. Dal punto di vista etnico, come in ogni impero, vale lo stesso principio: la componente dominante è quella russa. La Russia è in un certo senso una federazione asimmetrica, con alcune regioni che sono definite etniche: la Cecenia, per esempio, dove i ceceni sono più del 90 per cento; il Tatarstan e la Baschiria, dove i tatari e i baschiri sono rispettivamente poco più e poco meno del 50 per cento; ma anche la Carelia e la Mordovia, dove la componente indigena è presente ma minoritaria. In qualche modo la Cecenia è come una colonia oltremare. Ha le sue leggi e un principe che governa per conto del potere centrale con grande autonomia e un compito fondamentale: mantenere la regione all’interno della Federazione. Dietro a questo sistema c’è evidentemente un’ideologia di tipo imperiale, in cui esistono una chiara gerarchia interna e un’idea universale da difendere e proiettare verso l’esterno”.

Finora non abbiamo parlato dell’ideologia che più spesso viene associata al nuovo nazionalismo russo: l’eurasismo. Formulata per la prima volta da un gruppo di esuli russi negli anni venti, la teoria eurasista fu resa popolare dallo storico Lev Gumilëv. Originariamente puntava a esaltare la specificità etnica e culturale della Russia e le sue radici asiatiche. Ma la versione che ha fatto presa su buona parte delle élite russe postsovietiche è quella elaborata da Aleksandr Dugin, politologo, filosofo antimoderno ed esoterico, e guru dell’estrema destra di mezza Europa. Secondo il suo eurasismo, la Russia è il cuore dell’impero di terra in perenne lotta con Atlantide, la potenza dei mari, rappresentata prima dall’Impero britannico e poi dagli Stati Uniti. Come spiega Charles Clover, per i russi il fascino di questa ideologia “non sta nella sua accuratezza, nella chiarezza espositiva o nel rigore, ma nel modo in cui riesce a esorcizzare i demoni, curare le ferite e rattoppare le spaccature della brutale e incoerente storia russa”. A dare un senso, insomma, alle ambizioni di un paese che non vuole rassegnarsi a lasciarsi alle spalle il passato imperiale, a tener viva la convinzione che la Russia possa ancora essere un centro di potere globale e non solo la periferia del mondo globalizzato. Ma che peso ha davvero Dugin al Cremlino? Sono gli analisti occidentali che tendono a sopravvalutarne l’influenza o sono i russi che non vogliono riconoscere il ruolo giocato dalle sue teorie?

“Le sue idee possono aver avuto qualche influsso sul Cremlino, ma sicuramente in modo indiretto. Alcuni dei suoi testi, per esempio Osnovy geopolitiki (Fondamenti di geopolitica), sono stati adottati in diverse università, e le sue teorie sono diventate popolari tra alcuni politologi e funzionari, sedotti anche dal suo lessico. Ma Dugin non è mai stato un consigliere di Putin. È sempre stato estraneo ai circoli in cui si prendono le decisioni importanti. Al massimo può essere stato usato, come altri personaggi simili, per produrre testi o narrazioni di propaganda o per mobilitare il sostegno di gruppi e individui in Europa a determinate azioni del Cremlino, soprattutto nella crisi ucraina. Quando, per esempio, è stato necessario trovare degli osservatori che monitorassero il referendum in Crimea, è intervenuto Dugin. Ma se si tratta di stringere rapporti con partiti e organizzazioni europee, i personaggi come Dugin non sono coinvolti e non hanno voce in capitolo nelle scelte del Cremlino”.

Inutile quindi cercare gli ispiratori delle politiche di Putin. Il percorso che ha portato alla nascita del nazionalismo di stato in Russia e poi alla mobilitazione patriottica che ha accompagnato l’annessione della Crimea e il conflitto nel Donbass è stato lungo e condizionato da fattori interni e internazionali. Nel paese di Putin non sono gli intellettuali a indirizzare il dibattito pubblico e le politiche del governo. Semmai è il potere a usarli per costruirsi una legittimità ideologica. Eppure il fatto che nel pensiero di Dugin si ritrovino molti dei temi cari al Cremlino è innegabile. Com’è innegabile, in un modo perfino inquietante, il valore profetico delle parole che nel 2009 il politologo dedicava all’Ucraina nel libro Četvërtaja političeskaja teorija (La quarta teoria politica): “Non si può escludere che ci attenda una battaglia per la Crimea e per l’Ucraina orientale. […] La possibilità di un conflitto militare diretto non è più irrealistica. Perché costruire un impero presenta sempre dei costi”.

Questo articolo è tratto dal libro di Andrea Pipino “Nazionalismi” (Editrice Bibliografica 2019).

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